MUSIC FOR TALES Voll. 1 & 2
Cover artwork: Luciano Montemurro
Nella importante e ricca discografia di Cesare Pastanella, al precedente “Music for tales vol. 1” del 2021 segue ora “Music for tales vol. 2”, Angapp Music, 2022. Un progetto di world music pensato per organizzare musiche scritte per due spettacoli teatrali di Lucia Zotti: “Il Viaggio di Arjun” e “Badù Re, anzi Leone”. Cesare Pastanella, che ha composto e arrangiato ogni brano, vi suona diverse tastiere e numerosi strumenti a percussione di varia origine etnica.
Musica per Racconti, un album diviso in più volumi, concepito per raccogliere le composizioni scritte per gli spettacoli teatrali “Il viaggio di Arjun” e “Badù Re, anzi Leone” di Lucia Zotti.
Vol.1
La sua musica multietnica narra le vicende di Arjun, un adolescente che vive in una città orientale. Suo padre è un cantastorie, che con il suo mestiere viaggia per tutto il Paese, mantenendo vive le tradizioni e aiutando la gente a ritrovare la capacità di riflettere sui valori della vita. L’altro protagonista, Badù, è un leoncino che vive nella savana africana, da dove viene strappato per essere venduto ad un circo europeo, in cui è maltrattato e umiliato. Una storia triste, ma con un lieto fine: Badù riesce a liberarsi e a ritornare in Africa, dove viene proclamato Re.
Questo primo volume, inoltre, include un brano pensato per la scena iniziale del film “La vita davanti a sé” diretto da Edoardo Ponti, in cui il piccolo Momo si aggira in un mercato, a caccia di una preda da scippare.
Infine, contiene un’interpretazione personale del samba de roda bahiano, un ritmo solare afro-brasiliano che fa da cornice al divertente racconto di Alice Da Conceição, una donna di Salvador de Bahia che ho avuto la fortuna di incontrare durante il mio cammino tra le culture del mondo. Una persona con una forte carica umana e un grande senso dell’umorismo.
Musica e ritmi che abbracciano diverse culture, che in questo album vengono combinate e convivono in modo spontaneo, naturale, fluido.
Vol. 2
Questo capitolo contiene le musiche che accompagnano le vicende di Badù, un leoncino che viene strappato dalla savana africana, la sua terra natìa, per essere venduto a un circo europeo. Una storia triste, ma con un lieto fine: Badù riesce a liberarsi e a ritornare in Africa, dove viene proclamato Re.
Il brano di apertura, invece, trae origine da Arjun, un adolescente che vive in una città orientale. Suo padre è un cantastorie, che con il suo mestiere viaggia per tutto il Paese, mantenendo vive le tradizioni e aiutando la gente a ritrovare la capacità di riflettere sui valori della vita.
Il volume è completato da un brano ispirato dalla camminata dondolante e pacata di Buba, un amabile cane che adorava stare in compagnia degli umani ed esplorare nuovi mondi e, infine, una musica dedicata a cinque persone che nello stesso periodo sono partite per un viaggio sconosciuto, spiriti con cui ho interagito in modi differenti.
Cesare Pastanella
Cover artwork: Luciano Montemurro
Cesare Pastanella è un percussionista e batterista pugliese che si occupa di cultura e tradizioni afro-cubane, afro-brasiliane, dell’Africa occidentale e arabe, ricercando la possibilità di far incontrare queste antiche tradizioni con le pulsazioni e le sonorità della musica contemporanea europea e afro-americana come il jazz e il funk.
Il progetto a suo nome, Cesare Pastanella Afrodiaspora, ripercorre le tracce che la musica africana ha lasciato in America attraverso la deportazione degli schiavi e le reciproche influenze che le musiche dei due continenti si sono scambiate nel corso del ‘900. Con questa formazione nel 2019 ha prodotto e pubblicato l’album The round trip (AlfaMusic).
A maggio 2021 è stato pubblicato il primo volume di Music for Tales (Angapp Music), album di worldmusic che raccoglie le composizioni originali scritte nel 2011 e 2013 per gli spettacoli teatrali Il Viaggio di Arjun e Badù re, anzi Leone di Lucia Zotti.
Fa parte del trio etno-jazz Kaleido Sea insieme al chitarrista Vito Ottolino e al bassista Vincenzo Maurogiovanni.
Tra le sue collaborazioni figurano Paolo Fresu Sextet, Bobby McFerrin, Gianluigi Trovesi, Bruno Tommaso, Antonello Salis, Maria Pia De Vito, Joy Garrison, Faraualla, Tavernanova, Mirko Signorile, Serena Brancale, Selma Hernandes, Luis “Aspirina” Chacòn, Francisco Ulloa Pachito, Miguel Enriquez, Farafina, Toups Bebey & Le Spirit Pan-African Brass Company, Gabin Dabiré, Mestre King, Pierre Favre, Javier Girotto, Roberto Ottaviano, Nicola Conte, Tony Esposito, Radiodervish, Fabrizio Bosso, Atse Tewodros Project, Giovanni Imparato, Mario Rosini, con i quali ha partecipato a numerosi festival in Italia e all’estero.
Nell’estate del 2017 partecipa al tour italiano del cantautore e chitarrista brasiliano Toquinho, insieme alla cantante brasiliana Selma Hernandes.
Ha iniziato i suoi studi come batterista con Paolo Lorusso, Maurizio Dei Lazzaretti e Pietro Iodice e dopo una parentesi in conservatorio con il maestro Beniamino Forestiere, ha intrapreso lo studio delle percussioni afro-cubane con Giovanni Imparato, Tony Urdaneta e Michel Aldama del Conjunto Folklorico Nacional de Cuba, Irian Lopez Rodriguez e Manley “Piri” Lopez, José Luis Quintana “Changuito”, Amadito Dedeu, Moussa Belkacemi, John Amira e Reynaldo Hernandez Ramirez, studiando a Roma, L’Avana e New York. Ha frequentato stages di canto afro-cubano con Gregorio “El Goyo” Hernandez e di percussioni brasiliane con Gilson Silveira, Kal Dos Santos e Mestre King. In Burkina Faso ha studiato la tradizione mandinga del tamburo tamà con Baba Kouyaté e del balafon con Adama Djabaté.
In campo teatrale collabora con il Teatro Kismet OperA di Bari, per il quale ha sonorizzato dal vivo lo spettacolo Gilgamesh di Teresa Ludovico e ha scritto le musiche per Il viaggio di Arjun e Badù Re, anzi Leone di Lucia
Ad aprile 2022 è stato pubblicato il secondo volume di Music for Tales (Angapp Music).
V. discografia
https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Pastanella
https://www.facebook.com/cesarepastanellapercussion
Foto: Flavio Diaferia
Intervista
Davide
Ciao Cesare. Dopo un primo volume, ora è uscito anche un secondo episodio di “Music for tales”, “Musica per racconti”. Come hai lavorato a queste musiche di scena per gli spettacoli teatrali di Lucia Zotti? Per vivificarne o completarne quali contenuti o messaggi ed emozioni in particolare?
Cesare
Ciao Davide, innanzitutto vorrei ringraziarti per questa intervista e per aver ascoltato e dato spazio alla mia musica.
Il processo che mi ha portato alla produzione e pubblicazione di questi due album si è articolato in due fasi, avvenute a circa dieci anni di distanza tra loro. Nel 2011 e 2013 la mia cara amica attrice e autrice Lucia Zotti mi chiese di comporre le musiche per i suoi due spettacoli teatrali che hai citato, invitandomi a seguire da vicino, passo dopo passo, le prove che si svolgevano presso il Teatro Kismet OperA di Bari, che ne era il produttore.
Durante la lavorazione de “Il Viaggio di Arjun” interagii direttamente con le attrici che erano in scena, la stessa Lucia Zotti, autrice del testo teatrale e Monica Contini, che durante l’azione suonavano strumenti musicali e percussioni, come il monocord, una sorta di arpa di costruzione artigianale svizzera, un grande tamburo tailandese, una corda di contrabbasso tesa in una struttura a forma di albero, e altri ancora. Strumenti che successivamente suonai nel mio studio “La Cueva del Ritmo”, quando decidemmo di registrare ed autoprodurre un Cd audio-racconto del testo teatrale.
Nelle repliche teatrali, io stesso completavo l’esecuzione dal vivo delle musiche, posizionando in un angolo della scena il mio set composto da tamburi, balafon, gong e tante altre percussioni ed effetti sonori.
Nel caso di “Badù re, anzi Leone”, la produzione non prevedeva né la presenza di strumenti musicali in scena, né la possibilità che io suonassi dal vivo le musiche. Per questo le registrai direttamente man mano che le componevo, affinché potessero essere mandate in playback da un tecnico durante la performance.
Come è facile immaginare, la maggior parte di questi brani duravano da una decina di secondi, fino ad un minuto circa, in quanto legati alle varie scene degli spettacoli.
Nella seconda e più recente fase, quando all’inizio del 2020 gli amici di Angapp Music, l’etichetta che ha curato la pubblicazione digitale dei due volumi di “Music for tales”, mi chiesero se avessi del materiale da pubblicare, realizzai che questa poteva essere la giusta occasione per diffondere quelli che ritenevo brani molto personali e che rappresentavano il mio modo di concepire la musica.
Ma decisi che avrei avviato questa operazione a patto di impegnarmi ad ampliare gran parte di quei brevi spezzoni, rendendoli dei brani completi e finiti, e di sostituire molti degli strumenti virtuali che avevo utilizzato per rientrare nel budget della produzione teatrale, con strumenti veri e propri, suonati da amici musicisti che avevo già in mente di coinvolgere.
La vicenda di Arjun era ambientata in un paese orientale non identificato, con vaghi riferimenti all’India. Un susseguirsi di avventure e personaggi che il bambino protagonista viveva ed incontrava durante il suo viaggio con il padre Rakesh, intrapreso per cercare di liberare la madre Sanjukta, rapita da un infimo individuo che voleva silenziare la bocca del cantastorie, perché risvegliava le menti e le coscienze del popolo di quel paese.
Per calarmi in questo scenario ho lasciato correre molto la fantasia, immaginando suoni, armonie e ritmi che si legassero al meglio ai luoghi ed alle situazioni, che riuscivo a visualizzare con chiarezza nella mia mente, grazie al fatto che ero presente durante tutta la fase di preparazione dello spettacolo.
Un procedimento analogo mi ha portato alla realizzazione delle musiche di “Badù re, anzi Leone”, con la sostanziale differenza che la storia del leoncino protagonista era ambientata nella savana africana, e questo mi permetteva di essere più esplicito nella creazione, favorito anche dal fatto che le sonorità dell’Africa sono più vicine alle mie corde, anzi, ai miei tamburi.
In entrambi i casi, non era mia intenzione essere filologico, ma volevo abbracciare più riferimenti stilistici. Un concetto, questo, che si trova alla base del mio modo di vivere la musica.
Infine, è venuto spontaneo accorgersi che il filo conduttore di questa raccolta di composizioni fosse la narrazione dei racconti sotto forma musicale. Ho deciso così il titolo della duplice pubblicazione, pensando di aggiungere altri quattro brani composti tra il 2019 e il 2021, durante le ultime sessioni di registrazione. Tre di questi raccontano di persone e animali che ho incontrato lungo la mia vita, ed un altro è stato composto per una scena de “La vita davanti a sé”, un film del 2020 diretto da Edoardo Ponti di cui sono protagonisti un bambino senegalese di nome Momò e Madame Rosa interpretata da Sofia Loren.
Davide
La musica di scena a volte viene detta “musica incidentale”. Non si può usare questo termine con il tuo bel lavoro perché, se da una parte è vero che è funzionale allo spettacolo teatrale, dall’altra il tuo lavoro è anche perfettamente autonomo. Come sei riuscito a mantenere entrambe queste due qualità, funzionalità e astrazione, stando perfettamente in equilibrio tra musica “programmatica” e musica “assoluta”?
Cesare
Per gran parte dei brani ho svolto un complesso e lungo processo di ampliamento di quelli che in origine erano frammenti di idee, come una sequenza di accordi, un groove ritmico, un arpeggio di balafon, una breve melodia. Quindi ho lavorato molto all’evoluzione di queste idee, sviluppando delle parti B, ritornelli, nuove sezioni e aggiunte di altri strumenti per arricchire il suono e l’arrangiamento. Insomma, una vera e propria opera di espansione, al termine della quale sono rimasto sorpreso del risultato ottenuto, rispetto ai semplici embrioni di idee dalle quali ero partito.
Nel momento in cui ho deciso di pubblicare un album utilizzando le musiche di questi due spettacoli teatrali, pur non sapendo a priori come, sentivo che attraverso un complicato ma stimolante lavoro di rinnovamento degli arrangiamenti, sarei giunto ad un risultato che mi avrebbe soddisfatto. Quella che ho avuto è stata una specie di intuizione.
Davide
“La mia mano non riesce a scrivere ciò che ho nel cuore” scrisse Heinrich Harrier in “Sette anni in Tibet”. Cosa può dire la musica che non sa dire la parola?
Cesare
La musica è libertà, un fluido sonoro che attraverso il nostro apparato uditivo scorre nel corpo e nella mente, creando un mondo immaginario che, appunto, non sono affatto in grado di spiegare a parole. E’ un mezzo molto potente, credo rappresenti il ponte con altre dimensioni che non appartengono a quella fisica in cui si muove la nostra razionalità.
Davide
Ci presenti gli altri ottimi musicisti e ospiti presenti nei due volumi?
Cesare
Con molto piacere, perché oltre a ritenerlo doveroso nei loro confronti, ci tengo tanto a raccontare di queste persone che stimo moltissimo, e che ho coinvolto nella realizzazione di questi due album, per la loro grande versatilità, apertura mentale e per la sensibilità che hanno avuto nell’interpretare in modo eccellente una musica dal carattere molto personale.
Iniziando da coloro che sono presenti in quasi tutti i brani, il chitarrista Nando Di Modugno, uno dei più poliedrici che io conosca, capace di spaziare dal fraseggio di una chitarra classica all’improvvisazione jazzistica in un battito di ciglia, passando per chitarre acustiche, 12 corde, elettriche, dal suono naturale ma anche distorto, effettato e trattato in modo da simulare strumenti a corda di origine etnica. La mia grande passione per la chitarra trova in lui un interlocutore ideale.
Un altro musicista che sostiene l’intero lavoro è il bassista Francesco Cinquepalmi, compagno di sezione ritmica da diversi decenni. In “Music for tales” suona prevalentemente il basso elettrico, con e senza tasti, conferendo una notevole morbidezza e profondità ai brani. Ma Francesco è anche un ottimo suonatore di contrabbasso, uno strumento che per scelte timbriche questa volta ho deciso di utilizzare solo in due brani. Svolge al meglio il ruolo del bassista che io necessito per la mia musica, una figura che sostenga la ritmica e l’armonia in modo sicuro e solido, intervenendo con discreti e brevi fraseggi solistici solo nei momenti di passaggio che lo richiedono. In questo modo, le voci, le percussioni, le chitarre e tutti gli altri strumenti sono più liberi di muoversi e stratificarsi.
Nando e Francesco sono da dieci anni i miei compagni di viaggio nel progetto Afrodiaspora, con loro suono rilassato e ad occhi chiusi, hanno tantissima esperienza e si muovono con destrezza tra diversi generi musicali.
Un’altra figura cardine di “Music for tales” è il violinista e arrangiatore Leo Gadaleta.
In realtà definirlo solo in questo modo è davvero riduttivo, perché è un polistrumentista eccezionale. L’ho sempre conosciuto come violinista, ma una ventina di anni fa avemmo l’occasione di suonare in duo per accompagnare delle letture, e fu così che scoprii che oltre all’archetto, si destreggiava benissimo tra una numerosa collezione di flauti etnici. E questa era proprio la figura che cercavo per la sonorità di questi album. Con Leo a volte faccio delle lunghe chiacchierate telefoniche, e mentre gli raccontavo dello spirito del brano “On the bus” (vol. 1), esprimendo la necessità di creare una tessitura con strumenti a corda dalle sonorità etniche, lui mi rispose letteralmente: “Ma posso farlo io!”. E fu così che appena due anni fa, ho scoperto che oltre ad essere un violinista e un flautista, possiede e suona anche il banjo, l’ukulele, il gunibri marocchino e il djeli ngoni del Mali.
E l’elenco potrebbe continuare a lungo, ma mi limito a ciò che ha suonato nei dischi di cui stiamo parlando. E ovviamente ha anche svolto il suo ruolo di origine, registrando da solo un’intera orchestra d’archi nel brano “The flight” (vol. 1) e un assolo di violino d’amore nel già citato “On the bus”. Leo Gadaleta è Musica, ha un grande gusto e comunica un entusiasmo che considero davvero raro tra i musicisti professionisti. Stiamo cercando di ritornare a suonare in duo, e non ne vedo l’ora!
Ci sono altri ospiti, inoltre, che hanno suonato anche solo in un brano. Domenico Pastore, flautista e suonatore di strumenti a fiato antichi, che per il tema di “Arjun” (vol. 2) ha stratificato ben tre flauti dolci, dal basso al contralto, e sul finale, ha sfoderato una bellissima cornamusa italiana, di costruzione bergamasca, che caratterizza notevolmente la sonorità della traccia di apertura del secondo volume.
Nicola Masciullo ha suonato l’arpeggio portante di chitarra acustica di “Badù” (vol. 1). La nota curiosa è che lui era uno degli attori protagonisti dello spettacolo “Badù Re, anzi Leone” e nel periodo in cui composi le musiche, la mia “Cueva del Ritmo” era situata alla periferia di Bari, ad appena un paio di chilometri dalla sede del teatro dove seguivo le prove. Quando venni a sapere che oltre ad essere un attore suonava anche la chitarra, lo “trascinai” nel mio vicino studio per registrare la struttura fondamentale della ballata che apriva la performance.
Il giovane Martino Tempesta (alias Syncro), che fa parte dell’etichetta Angapp Music, mi ha aiutato invece a trattare e filtrare un campionamento presente in “Buba’s walk” (vol. 2), aggiungendo anche un synth pad che fa crescere notevolmente lo spessore del suono, e un basso synth, presente ma discreto. Sfido te ed i lettori, Davide, ad individuare il campionamento originario che ho utilizzato come linea portante di questo brano.
E dulcis in fundo, le voci. Prima fra tutte quella del caro Giorgio Pinardi, un vero e proprio sperimentatore e innovatore della voce, un’orchestra vocale, un artista che non si preclude alcuna strada da esplorare. Ho avuto la fortuna di conoscerlo durante una delle mie visite in Lombardia e successivamente, durante il periodo di completamento del lavoro nell’autunno-inverno 2020-2021, quando eravamo tutti fermi a causa del Covid, Giorgio si è generosamente e inaspettatamente offerto di collaborare con i suoi tipici interventi vocali. Io non mi sarei aspettato di meglio e ho colto subito l’occasione al balzo.
Da quel momento è iniziato un lungo ed interessantissimo confronto a distanza, per delineare come dovesse essere il suo apporto sui tre brani che avevo individuato per la sua voce creativa, “The Flight” e “In the Mud” (vol. 1), “Babatunde’s death” (vol. 2). Questo scambio piacevole e costruttivo ha portato Giorgio a produrre una gran quantità di tracce vocali, con cui avrei potuto creare altrettanti brani, e che ho editato con cura affinché potessero essere inserite nei brani, dando così il loro meraviglioso valore aggiunto.
Riascoltando entrambi i volumi, mi sono reso conto che la presenza e la sensibilità artistica di Giorgio Pinardi sono diventati elementi distintivi di questo lavoro, pur essendo presente in un numero limitato di tracce. La forza della creatività, la forza della sua voce.
Un altro tocco caratteristico è dato dal canto di una carissima amica con cui collaboro da tempo, Ana Estrela. Ana non è una cantante, è una danzatrice, coreografa e operatrice socio-culturale brasiliana, originaria di Salvador de Bahia. Le ho chiesto di cantare da solista quello che è diventato “Alice’s tale (another awakening)” (vol. 1), una filastrocca di samba de roda tradizionale che sua madre cantava in tanti momenti, durante cene e pranzi spensierati che facevamo quando era tra noi. Ho composto questo brano in memoria della madre di Ana, Alice Da Conceiçăo, la cui voce, in coda al brano, racconta una divertentissima storia tragicomica avvenuta tanti anni fa a Salvador.
E non poteva perciò che essere interpretato da Ana, con tutta la sua carica positiva, solare, energica, vulcanica.
Per rendere al meglio la voce femminile e delicata del canto tradizionale afrocubano rivolto alla divinità Ochun, su cui si basa il brano “Healing rite” (vol. 2) ho pensato di coinvolgere la cantante Rosanna D’Ecclesiis, la voce del progetto Afrodiaspora. Oltre ad essere dotata di una grande tecnica, in grado di cantare in modo energico e impetuoso, così come sinuoso e delicato, ha il pregio di essere curiosa e sempre pronta ad apprendere canti nelle più disparate lingue, in questo caso yoruba.
Non poteva mancare un piccolo e delicatissimo contributo vocale dell’autrice degli spettacoli per cui sono state composte queste musiche, Lucia Zotti, attrice teatrale, cinematografica e autrice di grande spessore artistico ed umano, con un passato anche da cantante, che ha prestato la sua voce nel tema di “The Journey” (vol. 1). Così come quello di Monica Contini, l’attrice protagonista di entrambe le performance teatrali, che ha partecipato al coro di “Party in the Savannah” (vol. 2).
E infine, l’unica altra “percussionista” presente nel lavoro, Arcangela Cicolecchia, la mia compagna, intervenuta nella ritmica di “Badù” (vol. 1) con i suoi schiocchi di dita definiti e precisi.
Sono davvero molto grato a tutti loro, per aver tradotto con maestria le mie idee, per aver contribuito ad alcuni degli arrangiamenti e per aver dato quel tocco che mancava alla prima stesura delle composizioni.
Davide
Come Arjun e suo padre cantastorie, cerchi anche tu di mantenere vive le tradizioni, perché queste aiutino a ritrovare la capacità di riflettere sui valori della vita?
Cesare
Non so se la mia attività possa mantenere vive delle tradizioni. Di sicuro mi affascina cercare di dare una nuova luce ai ritmi della tradizione afro-cubana, afro-brasiliana e mediterranea, appresi durante i miei studi, utilizzandoli in contesti che riflettano la mia visione più intima e personale della musica. Se poi i miei “intrugli sonori” dovessero aiutare a mantenerle vive, si tratterebbe di un risultato non intenzionale, ma che di certo mi farebbe felice.
Penso che il ritmo, condiviso con altre persone, rappresenti un importante modello che insegna in modo pratico e indiretto il senso comunitario, collaborativo, unitario e di amore verso gli altri.
Se questi non sono valori della vita su cui riflettere…
Io però mi considero solo un mediatore al servizio di questo scambio, il fulcro è nel ritmo, nella musica, in chi ne usufruisce.
Davide
Oltre alle tastiere, suoni moltissimi strumenti a percussione di varia e remota provenienza, specialmente africani, sudamericani e asiatici. Ma anche strumenti monocordi come il berimbau. Anche i musicisti che hanno collaborato con te hanno suonato gli strumenti più vari come il suling del Borneo, il bansuri indiano e nepalese, la cornamusa eccetera. Il tutto si fonde con le sonorità moderne del basso elettrico e fretless, delle chitarre elettriche e dei sintetizzatori. Qual è la tua poetica da questo punto di vista, nell’incontro cioè tra antico e acustico e moderno ed elettronico?
Cesare
Il panorama degli strumenti musicali è vastissimo, ed ognuno di essi suggerisce un’emozione e una determinata vibrazione, sia per chi compone e deve scegliere quali fra i tanti utilizzare, sia per chi ascolta e trova un quadro timbrico già predisposto dal compositore.
Personalmente mi piace considerare gli strumenti come tante sfumature di colori. Ne esistono di naturali (strumenti acustici-antichi) e di sintetici (suoni elettronici-moderni).
Se non ci si pone limiti alla creatività, se si è sensibili a non forzare l’orecchio, seguendo sempre la fluidità della forma sonora contenuta nel brano che si sta componendo, e se si crea musica libera da gabbie stilistiche, non c’è limite a questa tavolozza sonora che ogni compositore ha in mano.
Davide
Padre della World Music è stato definito Jon Hassel (personalmente non so, ma sicuramente ne fu un importante divulgatore), tuttavia il primo a utilizzare il termine “world” in riferimento alla musica fu l’etnomusicologo Robert E. Brown nei primi anni ’60. Oggi si parla anche di Global Music o International Music. Com’è cambiata la prospettiva interculturale della World Music in questi 40 o 50 anni dal tuo punto di vista? Qual è il tuo più personale approccio?
Cesare
“World”, “Global”, “International” per me sono soltanto aggettivi riferiti alla parola musica, che utilizziamo nella comunicazione verbale per farci capire dai nostri interlocutori. Sono scaffali fisici o virtuali in cui inserire un disco, piuttosto che un altro. Ma interiormente sento che i confini della musica sono davvero infiniti. Credo che l’esperienza più bella sia quella di scoprire casualmente un disco o un brano, perché rapiti da ciò che si sta ascoltando, senza passare attraverso la categorizzazione e la razionalizzazione. La musica dovrebbe essere vissuta sempre in questo modo istintivo, perciò non amo particolarmente le definizioni.
I miei ascolti del genere sono concentrati prevalentemente nella produzione degli anni Ottanta e Novanta. Credo che in questi due decenni siano emersi i maggiori esponenti, i punti di riferimento della World Music, artisti e produttori di tutto il mondo che sapevano bene il potenziale della musica che stavano offrendo e che il territorio in cui si muovevano era ancora vergine.
Non conosco granché del panorama attuale, ma quel poco che mi capita di ascoltare mi sembra alquanto modaiolo, commerciale, diretto più verso il business che all’autenticità ed alla profondità dei contenuti. E noto che questo fenomeno riguarda anche lo scenario italiano, in ambiti geograficamente non così lontani da me. Penso che sia diventato difficile trovare proposte interessanti nel mainstream di questo genere, a differenza della scena sotterranea e di nicchia in cui, molto spesso, si produce più per passione e con spirito di sperimentazione, che per logiche di mercato.
Davide
«A nessuno piace il termine ‘world music’, anche all’interno della stessa comunità ‘world music’. Ricorda tutti quei tipi di gravi problematiche, dal colonialismo culturale alle questioni su che cosa sia ‘autentico’ e cosa non lo sia (e chi possa vigilare su tali questioni), e fa rientrare a forza all’interno della categoria di ‘altro di esotico’ un incredibile assetto di stili che non hanno niente in comune. Così ha scritto la giornalista Anastasia Tsioulcas. Cosa ne pensi di questa sua affermazione?
Cesare
Se all’origine della musica c’è una reale sincerità, passione, profondità, intuizione, comunicativa, attenzione per i contenuti sonori e ricerca, non c’è alcuna definizione che regga, questi diventano solo sterili esercizi per chi deve inquadrare qualcosa a tutti i costi.
Perché dovremmo preoccuparci adesso del colonialismo culturale, quando per secoli l’Europa ha trattato i popoli di altri continenti letteralmente come bestie? Il danno è stato fatto all’origine, per interessi di conquista per fini economici e di sottomissione delle culture più deboli. Oggi, a parte le gravi, profonde ed evidenti lacerazioni provocate nell’anima di tanti popoli, rimane un intreccio interculturale che nel Novecento ha generato dell’ottima musica, una godibilissima fusione tra stili e culture differenti.
La si vuole chiamare ‘world music’? Se serve a far capire, più o meno, di cosa si sta parlando, va bene anche così.
Davide
Immagino che dedicarsi ai ritmi e alle musiche tradizionali e agli strumenti musicali del mondo implichi anche lo studio di culture diverse, quindi della folcloristica, dell’antropologia e simili. Come al principio ti sei appassionato a tutto questo? Cosa hai cercato e cosa hai trovato principalmente nella conoscenza delle altre culture? Cosa ancora vi stai cercando?
Cesare
Il primo accesso al mondo delle percussioni di altre culture del mondo, è avvenuto per caso. Un po’ con i nuovi ascolti musicali di quel periodo, nei primi anni ’90, un po’ perché dovetti ricoprire il ruolo di percussionista nel gruppo Tavernanova, in quanto un batterista già c’era.
Dopo cinque anni di approccio da autodidatta, mi resi conto che la tecnica ed il fraseggio su quelli che erano i miei tamburi preferiti, le congas cubane, andavano affrontati studiando con impegno e dedizione.
Fu così che cercai il mio primo maestro in Italia, Giovanni Imparato, che mi catapultò nel vasto mondo del ritmo e della cultura afro-cubana. Ricordo che, nelle pause delle sue bellissime lezioni, in cui oltre alle nozioni tecniche mi iniziava al significato del tamburo per l’essere umano e alla sua funzione medianica con la dimensione spirituale, in giro per la sua casa trovavo sparsi dei libri e dei saggi cubani di antropologia che mi attiravano tantissimo. Iniziai così le mie letture in questo campo, fotocopiando i libri del mio maestro e leggendoli direttamente in spagnolo.
In seguito, quando ho iniziato a viaggiare per studio a Cuba, negli Stati Uniti e in vari paesi dell’Africa Occidentale, ho trovato in quei luoghi una serie di pubblicazioni, prime fra tutte quelle dell’etnomusicologo e antropologo cubano Fernando Ortiz.
Sono nato e cresciuto in Puglia, in Italia, ed è qui che vivo. Ma da quando mi sono avvicinato musicalmente ad altre culture del mondo, avendo avuto la fortuna di assorbirle e viverle intensamente di persona, ho trovato un specie di completamento della mia personalità, qualcosa che mi mancava, a cui sono arrivato all’improvviso, per caso, anche se credo che la casualità in queste cose non esista. Quando mi chiedono perché non mi occupo di tamburelli, tammorre e musica popolare pugliese o del sud Italia, rispondo semplicemente che è la storia della mia vita.
Ho incontrato la musica afroamericana e non l’ho più lasciata, sono stato scosso nel profondo dalle poliritmie di origine africana, le sonorità del Maghreb e del Medioriente mi hanno ammaliato, e sento che tutto doveva andare così, senza forzare una direzione diversa. Sarà questo il motivo per cui il tema della tratta transatlantica degli schiavi mi sta così a cuore, tanto da formare un gruppo dedicato a questo argomento, Afrodiaspora, con cui ho realizzato l’album ‘The round trip’?
La mia ricerca attuale si sta orientando prevalentemente sulla composizione e sulla produzione, esplorando varie possibilità di adattamento delle sonorità e dei ritmi che fanno parte del mio bagaglio, alla musica che creo di volta in volta. E quando mi capita di suonare con musicisti e cantanti di altre culture, chiudo gli occhi e mi tuffo nel flusso dei ritmi e dei suoni, che mi fanno sentire un tutt’uno con l’umanità.
Davide
Non sei solo un percussionista, ma componi e suoni piano, Hammond e sintetizzatori. Quindi mi interessa molto sapere come nasce una tua composzione tra queste due categorie di strumenti musicali sostanzialmente opposte, tra suoni cioè indeterminati e determinati. Da cosa cominci di solito, dai ritmi e dai suoni percussivi o dalle note di accordi e frasi melodiche?
Cesare
E invece mi considero solo un percussionista… ma con la passione per le tastiere ed i sintetizzatori!
È un interesse che mi accompagna sin dall’adolescenza, quando i miei amici delle band giovanili lasciavano le loro tastiere a casa mia, poiché vivendo in campagna, si provava sempre da me.
E così, con la batteria e il synth a disposizione, avevo la possibilità di “giocare” a creare dei brani di pop britannico di metà anni ’80, incidendoli in multitraccia mono su un registratore a bobine.
Per questo mi è rimasta ancora oggi la predilezione per i suoni di synth, il piano elettrico e l’organo Hammond.
Alla base, però, c’è il fatto che alcune volte il solo ritmo non mi soddisfa pienamente, e così lo immagino come sostegno a suoni morbidi di pad e strings (sintetici o reali), insomma, giocando con il contrasto fra suoni percussivi e vellutati ed eterei.
I brani che compongo credo possano rientrare in tre tipologie principali. Quelli tipicamente ‘ritmici’, in cui l’intera struttura e la melodia sono prodotte da percussioni, che siano tamburi o altri tipi di strumenti a nota indeterminata. Ma quando mi viene voglia di inserire una percussione intonata, come balafon, marimba, berimbau, mbira, diventa spontaneo spostare l’attenzione su delle possibili armonie implicite e sottintese, che faccio emergere con il sostegno di accordi o di una linea di basso. E così che ottengo la seconda tipologia di composizione, quella mista ‘ritmico-armonica’. Infine, ci sono dei momenti in cui desidero comporre un brano partendo da una sequenza di accordi, che posso realizzare con un suono di pad, piano, organo o con un arpeggio di chitarra.
Come ho accennato in precedenza, amo la chitarra in tutte le sue forme, ma non sapendola suonare, spesso un’idea parte da accordi arpeggiati che registro con una chitarra acustica campionata, e che in vista di una pubblicazione o di un’esecuzione dal vivo, viene adattata e suonata da un vero chitarrista. In questa terza tipologia compositiva, quella che definirei ‘armonico-melodica’, completo l’arrangiamento con la sezione ritmica e le percussioni solo dopo aver predisposto tutto l’apparato armonico e melodico, aggiungendo solamente quello che ritengo necessario, che potrà avere una presenza importante o anche minimale, come in “The beggar” (vol. 1), dove mi limito ad accompagnare tutto il brano con uno shaker ed un piatto ride fissi.
In quest’ultimo caso, dimentico di essere un percussionista e utilizzo i miei strumenti come dei colori che vanno a completare l’immagine complessiva, senza preoccuparmi del fatto che siano marginali e secondari.
Davide
Il sud Italia, quindi anche la Puglia, è stato da sempre un crogiuolo di popoli e di etnie. Attribuito a Federico II di Svevia è un detto secondo cui il Dio degli Ebrei non ha conosciuto l’Apulia e la Capitanata, altrimenti non avrebbe dato la Palestina come Terra Promessa. Qual è la tua Puglia, punto di partenza e di ritorno di ogni tuo viaggio ideale per il mondo?
Cesare
Se Federico II avesse visto come si è trasformata l’Apulia negli ultimi vent’anni, a seguito dell’ondata di turismo di massa, avrebbe consigliato al Dio degli Ebrei di lasciare la Terra Promessa lì dov’è.
A parte gli scherzi, la mia Puglia, quella in cui torno dai viaggi sia ideali che fisici, è fatta di spazi aperti e di silenzio. Vivo a pochi chilometri dal Parco Nazionale dell’Alta Murgia, e questo mi permette di rifugiarmi frequentemente in un’area poco antropizzata, dove regnano la pietra, le cavità carsiche, le masserie antiche e, a volte, si possono fare incontri con animali selvatici.
Quando poi voglio spostarmi all’interno della regione, seguo percorsi secondari che mantengono le stesse caratteristiche, lungo il confine con la Lucania, l’antico nome della regione più conosciuta come Basilicata, o nel Subappennino Dauno, dove il tavoliere comincia ad innalzarsi verso l’Irpinia, la Campania ed il Molise.
Amo gli spazi rarefatti e silenziosi, che mi permettono di resettare le idee e pensare alla musica che andrò a creare, e sono felice di poter ancora accedere a luoghi simili nella mia regione, che sta conoscendo un assalto turistico che spesso ne snatura l’essenza e l’atmosfera originaria.
Davide
Qual è l’importanza della musica nell’affrontare tempi duri e cupi come questi che stiamo vivendo?
Cesare
La musica è una bellissima via d’uscita da situazioni difficili e negative. Chi non l’ha mai ascoltata in momenti tristi per ritrovare un po’ di pace interiore?
Ecco, il potere della musica sta nel sollevarci dalla pesantezza della dimensione materiale in cui viviamo.
Considerando poi che quando la ascoltiamo dal vivo, ci proietta in uno stato di condivisione con il pubblico e con gli stessi musicisti che la eseguono, ci accorgiamo di quanto sia fondamentale il ruolo sociale e aggregativo che riveste.
A me aiuta a vedere il mondo in modo positivo e più bello di come normalmente possa sembrare. Sarà solo suggestione, o la musica effettivamente ci proietta in una dimensione ultraterrena?
Davide
Cosa seguirà?
Cesare
Per un po’ di tempo penso di non produrre altri dischi a mio nome, ma solo con formazioni di cui faccio parte o sotto forma di collaborazioni con altri artisti. Dopo aver pubblicato i miei primi tre album da solista in appena quattro anni, credo di potermi prendere una pausa per riordinare le idee. In realtà, avrei il materiale per almeno altri due album, anche molto diversi tra loro. Ma si sa, la realizzazione di un disco è un’operazione alquanto faticosa e complessa, non solo dal punto di vista creativo e musicale, ma anche concettuale, organizzativo e finanziario.
Per questo vorrei aspettare del tempo prima di rimettere in moto la macchina.
Spero di riuscire a trattenermi…
Davide
Grazie e à suivre…
Cesare
Grazie a te, Davide.