ANATOMIA D’UN SUICIDIO.
“A quel tempo, parlava di suicidarsi. Ma il delitto così vagheggiato era un atto volontario, libero; ora, una forza estranea e idiota aveva riacceso questo proposito violento e privo di qualsiasi pretesto, che forse era stato un’esplosione di vitalità, e lo spingeva a viva forza per il monotono vicolo della malattia verso una morte tardiva. Per questo, avvertendo l’umiliante cambiamento di potere, si era attardato nel suo estremo rifugio. Era rimasto immobile, temendo di fare il minimo gesto, sapendo che a quel gesto avrebbe corrisposto il suo decreto di morte” (Pierre Drieu La Rochelle, “Fuoco fatuo”).
Nel 1929, Jacques Rigaut, fraterno amico di Drieu La Rochelle, si uccide. La sua morte sconvolge l’artista francese: il ricordo della figura del vecchio compagno, le riflessioni sulla tossicodipendenza e sul significato del suicidio, la volontà di trasfigurare le proprie segrete angosce originano un romanzo assolutamente singolare, che sintetizza un momento topico dell’esistenza del narratore parigino.
In una società ancora ferita e lacerata dal primo conflitto mondiale, incapace di risollevarsi dall’orrore e dal degrado, incontriamo Alain, trenta anni, ribelle e anticonformista che rifiuta ogni convenzione e non trova più pace né significato né salvezza in niente. Alain è spleen e negazione del sistema. Inquietudine, isolamento e claustrofobia pura.
Alain e Lydia sono una “bella coppia in rovina”. Lei, americana, è sul punto di ripartire da Parigi, dopo tre giorni di permanenza. Tre giorni nel corso dei quali Alain è rimasto a fissarla intensamente, quasi cercando una rivelazione. Invano. Lydia vuole sposarlo. Sta per ottenere il suo secondo divorzio, è decisa a tentare nuovamente l’impresa. Alain è ancora in attesa del divorzio da Dorothy. Non era abbastanza ricca per mantenerlo. Forse Lydia.
La narrazione è avvolta da un’aura di fatiscenza e di decadimento. Il corpo di Alain, sin dalle prime battute, è definito “un fantasma”; il volto è una bella “maschera di cera”. I seni di Lydia sono “emblemi dimenticati”; il suo viso sembra “anonimo per via di un eccessivo pallore”. La coppia è sul punto di separarsi per sempre: il dialogo frammentato, soggiogato dal silenzio.
Alain guarda senza vederla: è ipnotizzato dal niente. Sedotto dalla morte.
Lydia se ne va. Adesso Alain è turbato dalla sua partenza ed estenuato dall’assenza di Dorothy. Come Gille, protagonista de “L’uomo pieno di donne”, cerca una risposta alla sua sofferenza e al dolore nella vita sentimentale: ma sembra presentare, a differenza dell’edonista suo antecedente, una disperata autocoscienza della vacuità delle sue illusioni. Allora torna a pensare a sconfiggersi, ad annullarsi con la droga, a ritirarsi in sé stesso, calamitato dal torpore del niente.
Si dissolve l’irritazione. L’alterità viene semplicemente osservata, senza alcuna curiosità e senza alcun livore. C’è, diversamente, un disprezzo impressionante nello sguardo di Alain: ma è disprezzo per se stesso, prima d’essere disprezzo per la propria specie. Nella casa di salute del dottor de la Barbinais, irride l’intento del medico di appellarsi alla sua volontà per combattere la dipendenza dalla droga: è il consiglio dato da un uomo che è figlio di una scienza che nega la volontà per esaltare i condizionamenti del sistema. “Una razza logorata dalla civiltà” non può credere alla volontà, “mito di un’altra epoca”.
Parla ancora all’amico Dubourg. Alain s’avvicina al suo precipizio, poco prima che la determinazione pretenda azione e risoluzione del problema: il male si affronta e si estirpa, a costo di cancellare se stessi. Dubourg e Alain discutono sulla natura della sua tossicodipendenza. Altrove dirà che non si perde perché si droga, ma che si droga perché si perde; o perché è perduto. È una conversazione memorabile, che non risparmia cinismo e spietata franchezza, e manifesta una lucidità corrosiva. La disperazione di Alain annienta.
Si parla di senso, significato, amore, amicizia, esistenza. Alain rifiuta quel che sta vivendo, ha orrore della mediocrità e percepisce la sua vita come inevitabilmente e irrimediabilmente mediocre. Non riesce più ad accettare le ripetizioni. È come nella scrittura: quello che si deve dire, basta dirlo una volta sola. Il resto è un fallace rimedio al niente. Che è non un male, ma una realtà gloriosa e atroce che non conosce cura e non conosce uscita.
Non voltarsi più indietro: desiderare soltanto morire, per aderire, finalmente, alle cose. “Sono un uomo. Sono padrone della mia pelle. Lo dimostro”.
Finalmente, nel niente. È tutto.
“Era la notte, era la droga. Non era più Lydia, che la notte, che la droga cancellava. L’ebbrezza nella notte. E la notte alla fine era soltanto sonno. Non restava che questo: notte e sonno. Perché voler lottare contro il proprio destino? Perché da molti mesi si tormentava, procurandosi inutili sofferenze? Aveva avuto paura; a un certo momento aveva afferrato questa concatenazione di cause e effetti che, ritornando al punto di partenza, l’annientava: la droga gli faceva perdere le donne e gli amici. Ora, senza gli uni né le altre, niente più denaro, quindi niente più droga. A meno che non sia l’ultima dose con cui si liquida tutto e si va via”.
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Pierre-Eugène Drieu La Rochelle (Parigi, 3 gennaio 1893 – Parigi, 16 marzo 1945), romanziere e saggista francese. Esordì nel 1917 con “Interrogation”.
Partecipò ventenne alla prima guerra mondiale, fu collaborazionista nella seconda. Direttore, in quegli infelici anni, della Nouvelle Revue française, morì suicida, rifiutando (o evitando) d’essere processato per la sua adesione al nazismo.
Pierre Drieu La Rochelle, “Fuoco fatuo”, Garzanti, Milano, 1966.
Traduzione di Donatella Pini.
Prima edizione: “Le feu follet”, Paris, 1931.
Approfondimento in rete: Pierre Drieu La Rochelle Est Toujours Parmi Nous .