Ecra Edizioni
Narrativa
Pagg. 364
ISBN 9788865584255
Prezzo Euro 16,50
Dalla parte degli “ultimi”
Goffredo Fofi, nella sua prefazione, l’ha chiamato “Il Gattopardo dei poveri”, ma dopo averlo letto, concordo solo in parte; infatti, se le atmosfere e le date in cui si svolgono entrambi i romanzi (fra il 1859 e il 1860) sono pressoché uguali, differiscono invece nella sostanza, perché in quello scritto da Tomasi di Lampedusa viene descritta la fine del regno borbonico da parte di una famiglia di aristocratici, in quello di Francesco Jovine si parla soprattutto della nascita di quel complesso fenomeno che spesso troppo sbrigativamente va sotto il nome di brigantaggio. Dopo questa doverosa premessa, preciso anche che nessuno dei due prevale sull’altro, ma ambedue hanno il pregio di rappresentarci, nella loro veste di romanzi storici, come, con la spedizione dei Mille e l’occupazione del meridione, si poté arrivare all’unità d’Italia. Tutto ruota intorno alla famiglia De Risio, piccola aristocrazia di campagna in uno Stato che sembra immobile e ingessato, anche se va disgregandosi. Abitano nel paese molisano di Guardalfiera e a loro modo sono dei personaggi, emblematici perché ben rappresentano la stratificazione sociale degli abitanti del Regno dei Borboni nel suo crepuscolo. Troviamo così il vecchio zio prete Don Beniamino, che tiene i cordoni della borsa, Don Eutichio con la moglie sorda come una campana, tipico rappresentante di una proprietà terriera medievale, il Colonnello, reduce dalle guerre napoleoniche, aperto alle novità, ma disilluso, Don Matteo Tridone, un prete povero, ma generoso, ingenuo e protettore dei più deboli, Antonietta De Risio, malaticcia giovane erede della casata, e Pietro Veleno, un servo contadino, fedele alla famiglia, segretamente innamorato di Antonietta, che un po’ per volta ricambia. In questo contesto in cui nulla da tempo immemorabile accade, la venuta di Garibaldi e dei suoi volontari ha un effetto dirompente, con i contadini che cominciano a sperare nella promessa distribuzione delle terre, in una nuova atmosfera che dovrebbe sconvolgere l’ordine preesistente, ma i Savoia, giunti a reclamare il Meridione strappandolo a Garibaldi, ristabiliscono con i signori locali, i “galantuomini”, lo stato di cose precedente. Da qui la reazione esasperata, e senza speranza, delle classi emarginate, che sfocerà in una guerra sanguinosa in cui combatteranno l’esercito sabaudo con l’aiuto della locale Guardia Nazionale, di cui fanno parte quelli che prima avevano un po’ di potere, che ora temono di perdere. In questo contesto si svolge la vicenda con l’amore che sboccia fra Pietro e Antonietta, amore benedetto da Don Matteo Tridone, che vede nell’unione dei due giovani i germogli per una nuova coscienza civica, con il superamento delle classi. In fuga entrambi con il sacerdote, in quanto Pietro è stato denunciato alle autorità ingiustamente da Don Eutichio, tanto che ha dovuto rifugiarsi dai briganti e combattere con essi, vengono traditi da una guida mentre si apprestano a passare il confine con lo Stato della Chiesa, loro sicuro rifugio. Non sappiamo il seguito, Jovine non ce parla, ma si rimane come orfani di personaggi che sono entrati nel nostro cuore, soprattutto l’ingenuo, ma buono Don Matteo, sempre dalla parte degli ultimi.
Il romanzo, scritto impeccabilmente, è veramente stupendo.
Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso, 1902 – Roma 1950) narratore italiano. Ispirò alla nativa regione molisana le sue opere più significative: dal romanzo Signora Ava (1942) alla raccolta di racconti L’impero in provincia (1945), all’altro romanzo Le terre del Sacramento (1950, premio Viareggio), sorta di epopea del lavoro contadino e commossa celebrazione della propria terra. I temi tradizionali del feudo che va in rovina e del conflitto tra padroni e contadini vengono rappresentati, all’avvento del fascismo, con una forte carica polemica e uno stile asciutto che intreccia il rilievo di caratteri balzachiani alla coralità della struttura. Narratore di tradizione essenzialmente veristica, J. accolse nelle sue opere le istanze dell’antifascismo e delle lotte sociali del dopoguerra, senza tuttavia rinunciare a inflessioni di sottile lirismo. Nei suoi esiti migliori, egli amalgama felicemente le agitate vicende della storia e l’aura immobile del mito. Importante, nella Signora Ava, ma anche nell’Impero in provincia, il delinearsi di un giudizio riduttivo sul risorgimento, con motivazioni che più recentemente una parte della critica storica ha fatto proprie.