KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

New Roaring Twenties / Human Decision Required

26 min read

Dialogo Tra Girolamo De Simone Con Davide Riccio (DeaR)
Sul Doppio Cd 
“New Roaring Twenties / Human Decision Required”

Dear – New Roaring Twenties / Human Decision Required
Il nuovo album
dall’11 giugno 2021 in doppio cd e digitale
New Model Label – distribuzione Audioglobe

Copertina di Simonetta Matzuzi e Leonardo Di Lella.

Un lavoro monumentale per Davide Riccio, musicista, poeta e scrittore torinese, attivo sulla scena italiana dagli anni ’80, con diverse formazioni, oltre ad essere una delle voci più attente della  critica musicale italiana.
Il suo è un percorso ricco di sfumature e spunti culturali, in cui è riconoscibile una cifra stilistica e la passione per artisti come David Bowie e David Sylvian, nella loro produzione meno pop.
Nel doppio album, convivono suggestioni letterarie e culturali, una riflessione su questi nuovi ruggenti anni ’20, non priva di visioni apocalittiche e distopiche, e poi ancora la poesia nella sua forma più classica, da Shakespeare a Cesare Pavese e poi ancora canti norreni, Yin e Yang, Paul Verlaine e 2001 Odissea Nello Spazio.
E, il contenuto di questi due dischi pare quasi un compendio del sapere umano, conservato in una capsula, per le generazioni future.

(Govind Khurana – New Model Label)

CD 1

NEW ROARING TWENTIES

2019

01. GINNUNGAGAP

02. ONE OF PARIS

03. NEW ROARING TWENTIES

04. ALWAYS ON

05. DAIMON

06. ROSA OF VATNSENDI 

07. SHAKESPEARE’S SONNET 116 

08. SILENT LIGHTS BEJEWEL THE NIGHT 

09. DUENDE (FOR DAVID BOWIE)

10. NIGHT TRAIN LULLABY

11. THE RAPE OF EUROPA

12. EARTHRISE

13. MISSING

14. KINTSUGI

15. YES TRESPASSING

16. WHITEOUTS
17. LEBENSUNWERTES LEBEN

CD 2

HUMAN DECISION REQUIRED

2020

01. A GLITCH OF LOVE

02. UCHRONIA 

03. (DON’T) LOCKDOWN 

04. A SPLEENFUL OF SECRETS

05. NEED FOR CHANGE 

06. PLUTO AND CHARON

07. AWUMBUK 

08. WAS MY LIFE A KOHOUTEK? 

09. LUCÈDIO (Lo Spartito del Diavolo) 

10. I’VE GOT MY DESERTS 

11. DEAR FLORIAN 

12. GREY GOO (Reloaded)

13. THE COVIDIANS

14. GARDEN OF EARTHLY DELIGHTS

15. AUTOPSY

16. NAÏVETÉ

17. ENJOY

Ghost-Track: 

GLADYS AND GEORGE (THE GHOST OF SEGUIN ISLAND)

Link all’album su SPOTIFY

Girolamo De Simone: “Ginnungagap”, dà avvio a un percorso straordinario, sin dal titolo simbolico, tratto dalla mitologia norrena (o vichinga) e che, appunto, ‘apre’ al viaggio nei tuoi suoni, dacché significa “Varco spalancato”, abisso che precede la creazione. Non amo fare eteroriferimenti quando si parla dell’universo creativo altrui, ma questo brano richiama forse alcuni momenti del più evocativo minimalismo, eludendoli tuttavia in senso migliorativo: le ritmiche non sono squadrate, la sola timbrica vocale pare richiamare i bassi dei Tuva o di altre vocalità ‘tradizionali’…. Mi piace riportare ciò che scrivi negli appunti di viaggio che mi hai inviati: “Nel brano è protagonista lo ehru o huqin, il violino cinese. Il testo declamato con piglio vichingo sulla creazione dell’universo è in antica lingua norrena o antico islandese, tratto dall’Edda poetica, e il rumore della radiazione cosmica di fondo del Big Bang inizia e chiude la traccia”. Come e quando nasce questa traccia?

Davide Riccio: Ciao Girolamo, grazie per questo momento dedicatomi. “Ginnungagap” nacque nel 1990 con una chitarra, un’unità delay della Ibanez e un quattro piste Tascam a cassetta. Quell’anno feci un lavoro di sperimentazione sulla chitarra per farla suonare in modo insolito, disponendo tuttavia di pochissima tecnologia. E di pochissima strumentazione. Per questo mi sentii stimolato nella creazione di nuovi suoni a partire da quel poco che avevo. Usai accordature aperte e alternative, per esempio, perché la chitarra, poi ulteriormente effettata, suonasse simile a un sitar. O con altri stratagemmi a un koto o a uno shamisen e avanti. Cose così, insomma. Tra quei brani ci fu la prima versione di “Ginnungagap”. Da un paio di anni avevo scoperto Philip Glass e andai anche a vederlo all’Auditorium Rai con il suo Ensemble nell’88 e successivamente al Teatro Alfieri per il “Book of Longing”. So che molti gli preferiscono Steve Reich o Terry Riley, ma io preferisco la musica di Glass proprio perché minimalista meno rigoroso, anzi postminimalista, aperto a tutte le musiche, anche della tradizione, non solo americana, e al pop. E il fatto che sia di più facile fruizione è per me un’ulteriore qualità. 

Nel mio disco c’è un altro brano, orchestrale, che deve molto a Glass, ed è “Lebensunwertes Leben”, composta come colonna sonora per un mio documentario sulla Aktion T4. Ma questo solo per dire di un’influenza tra le molte che ho omaggiato “tra le righe” in questo lavoro, non certo per dire che possa anche solo lontanamente paragonarmi a compositori di tanto calibro. 

Il pezzo l’ho ripreso nel 2018 insieme a tutto quanto fatto e disfatto negli anni ’80 e ’90 in un progetto decennale che ho chiamato “Uchronia”. Dal 2009 fino al 2021 ho rifatto circa duecento brani composti tra il 1980 e il 1999 e ho ricostruita una intera discografia come quella che non ho potuto registrare degnamente e pubblicare a suo tempo. L’ho chiamato “Ucronia” proprio come la allostoria di certa narrativa, basando cioè tutto il lavoro di recupero sulla premessa generale che la storia della mia musica ha infine seguito un corso alternativo a quello reale. Allo stesso modo è stato un viaggio nel tempo per tornare indietro ad aiutare me stesso ora che ho possibilità e capacità che allora non ebbi. Ed è stato anche un modo di ripassare e finalmente comprendere e ricomprendere il mio passato musicale. Tutto questo progetto si è concluso proprio con la composizione della canzone “Uchronia”, in cui mi immagino scoperto finalmente in futuro come in una storia del genere “mondo perduto”. 

GDS: Su ogni titolo presente in questa silloge ci sarebbe da parlare per ore: “One of Paris”, su testo arabo, nasce dalla strage del Bataclàn…

DR: Sì, e dopo Charlie Hebdo e la strage di Nizza… Ma vado più giù fino allo sconvolgente 11 settembre. Quella mattina fui svegliato dalla redazione di Torino Sera: “Davide, accendi la televisione… sta succedendo qualcosa di assurdo”. Subito pensai: “ecco, ci siamo… la bomba…” Cosa vuoi, noi cresciuti durante la Guerra Fredda abbiamo avuto quell’ossessione per tutta la vita (ne parlo in “The rape of Europa” insieme alla caduta del Muro di Berlino tra le speranze di allora e le disillusioni di oggi, tornati a costruire ancora più muri). 

China Blue mi registrò un messaggio di pace per un programma radiofonico che dedicai appunto al 9/11, che chiusi proprio con una sua composizione dal titolo “The Calls”, fatto con le voci delle ultime chiamate disperate dalle torri del  World Trade Center (http://chinablueart.com/the-calls/ per chi volesse ascoltarla). Ci sono tante cose nascoste in questo pezzo, come la sola nota RE della Symphonie Monoton-Silence di Yves Klein su un riff di chitarra in stile makossa, un organo alla Ray Manzarek e una tromba nell’assolo dalla sinfonia numero 5 di Gustav Mahler, la mia voce che intona parole ricavate dai giornali con il cut-up, imitando un po’ Lou Reed, un sonetto a cartoni forati che chiude con la nona di Beethoven su voci di presunti alieni detti “grigi” ecc. E tutto questo non è solo mero citazionismo, ma un bisogno provocatorio contro l’ignoranza del fanatismo religioso, qualunque esso sia (ma anche di certa vuotezza contemporanea figlia e succube di prove tecniche ormai generali di tecno-dittatura) che distrugge, annienta interi patrimoni storici e culturali.

GDS: “New Roaring Twenties” è un mantra tibetano sulla compassione. Non so se sia legato al precedente titolo, ma la sensazione è quella di trovarci al cospetto di una ballata ‘pacificata’, al di là dell’auspicio da te apparentemente rivolto ad un’estinzione di massa, una sorta di inevitabilità entropica che tuttavia, almeno per me, è mitigata da una bellezza sintropica, squisitamente musicale, intrinseca fin dalla costruzione del brano.

DR: Al contrario, infatti… Attacco apertamente il VEHMT, il Movimento per l’estinzione umana volontaria, dando loro degli stronzi proprio nella traccia precedente, “One of Paris”. Io ho solo ricordato che il 99,9% di tutte le specie mai esistite sono scomparse; quindi, perché l’uomo non dovrebbe essere in futuro tra queste? Del resto fa anche di tutto per autoestinguersi… Prima o poi vi riuscirà, o vi riuscirà la natura, l’universo. Sto solo richiamando me stesso e gli altri alla responsabilità e all’umiltà. 

Io amo profondamente il Tibet e, tra l’altro, forse anche a causa delle molte sigarette, la mia voce nel tempo si è fatta sempre più bassa, così che tutte le voci tibetane che si sentono nel disco non sono campionate da un qualche monaco tibetano… è proprio la mia. Spesso ho bisogno di produrre il deep throat singing. In “Need for change” ho usato il canto difonico Xöömej.  A volte mi capita anche di notte, svegliandomi, per placare l’angoscia e poter tornare a dormire. Ad oggi i vicini non se ne sono lamentati per fortuna. Questo mantra, in particolare, nasconde però qualcosa d’altro che non posso rivelare.

Io ho amato particolarmente il periodo degli anni ’20 e ’30, salvo poi l’evolvere del nazifascismo… Furono anni di grandi e irripetibili avanguardie. “I nuovi anni Venti ruggenti” sono stati per me il punto per guardare indietro nella mia vita a decenni luminosi come i ’60, ’70 e una parte degli ’80, quindi al presente… L’orrendo presente. Verso cosa? Ho scelto solo alcune immagini rappresentative di questa epoca infelice, fatta di disperata solitudine, egocentrismo e narcisismo digitale: lo hikikomori (e il diciannovenne che, proprio nella mia città, si è buttato dal settimo piano dietro la tastiera del PC scaraventata giù dalla madre), il femminicidio, la profonda violenza che scorre nel Deep Web, la disinformazione e il faking ormai sistematico, la chiesa dell’Intelligenza Artificiale di Levandoski, l’orrore dei corpi plastinati di Gunther Von Hagens che girano il mondo col pretesto di essere qualcosa di scientifico e spettacolare (riscuotono pure successo invece di essere vietate o “sabotate”), le nuove sostanze psicoattive sintetiche (certe droghe oggi sono davvero incomprensibili, devastanti… come il crocodile), l’odio e lo stalking dei keyboard warriors e… i leoni da tastiera sono l’unica cosa “ruggente” di questi nuovi anni ’20… o tutt’al più, piuttosto che il charleston, un Charlie stoned, “sballato”; per una nuova Manson Family… Non ho scelto dunque temi troppo lontani, generici, a cui siamo tutti bene o male anestetizzati, come la fame nel mondo o l’ennesima tragedia in Siria, ma cose che possono capitarci e ci capitano molto da vicino. Volevo davvero suscitare inquietudine dietro l’angolo. Più che pacificata, però, la direi una ballata “rassegnata”.

GDS: Farei ascoltare nelle scuole la ballata su Google, che mi intriga anche musicalmente per le oscillazioni microtonali, e le riflessioni che potrebbe e dovrebbe renderci sull’asservimento pandemonico (sic) che stiamo vivendo, consentito e forse propiziato proprio dall’egemonia del controllo di massa favorito dai nuovi strumenti da tastiera: tutti noi recitiamo come leoni da tastiera, come hai appena detto, e siamo invece solo appendici di un controllo e una egemonia dalla quale è difficilissimo uscire con istanti/barlumi di lucidità.

DR: Sì, proprio così. Un’egemonia per altro sempre più spesso di ignoranti e arroganti mentecatti. “Always On” la amo particolarmente, nata dal mio primo grande amore che fu per certa musica cosiddetta decadente fin dalla Berlin Kabarett di Weimar, le canzoni della Dietrich e tutto il resto via Bowie e certo glam rock… Un pomeriggio di luglio mi sono seduto al piano e tutto è venuto spontaneo, con quel refrain che cita e storpia la canzone dei Freaks di Todd Browning “Goobble gobble Google Gogle… We accept you… One of us! One of us!”. Oggi la cultura è diventata lo zapping con “Google Search”… E i bambini (dis)giocano da soli con tablet e telefonini (dis… play), smettendo così di essere la rottura di scatole che invece probabilmente fummo noialtri, a cui veniva dosata anche la televisione, una e per tutto il focolare domestico riunito… Ma anche gli adulti. L’ultima volta che sono stato a cena con degli amici e delle amiche, ho passato il tempo a sopportarli ciascuno chino sul proprio telefonino tutto il tempo o pronti ad armeggiare lo smartphone per qualunque cosa, anche per riconoscere con Shazam un pezzo musicale e poi un altro messaggio di qua, un WhatsApp di là… Che ci sia un progetto dietro tutto questo, ne sono più che certo. Hai presente i “cellulati” di Cell di Stephen King? O qualcosa di simile… E per mettere a tacere quelli come me, o come noi, si sono inventati anche l’etichetta di “complottismo”. Echelon e poi Prism sono o sono state cose reali, e che non si possa più togliere una batteria da un telefonino non è casuale.

GDS: “Daimon” è uno dei miei pezzi preferiti: da una bellezza melodica, agli spostamenti lievi di metrica, e all’accenno a un episodio d’infanzia. Tu scrivi che “Il daimon o demone nella filosofia greca era un essere che si poneva a metà strada fra ciò che è divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediario tra queste due dimensioni”. E ritengo tu riesca davvero a trasferire, con questa fusione tra fluidità tematica e trattamenti elettronici di suoni acustici, un’allusione a una mistica della ricerca, intesa come prassi di un cercatore, un “volo verso”… Verso quali dimensioni ulteriori? Questo mi conduce al brano successivo: una ballata shakespeariana. Come è noto, almeno tre opere di Shakespeare possono essere riferite a una conoscenza alchemica. Ma cos’è l’alchimia per Davide Riccio?

DR: “Daimon” è profondamente mia. Parla di me e di quando stetti per annegare e morire da bambino, facendo l’esperienza di un tunnel e della luce al fondo descritta come esperienza di premorte da studiosi come Raymond Moody e Brian Weiss. Dopo quell’evento (naturalmente fui salvato), oltre a risalirmi il gusto di cloro della piscina per mesi, ebbi a immaginarmi accanto e invisibile una bambina bionda, bellissima e dolcissima. Pensavo fosse stata mandata per proteggermi. Una sorta di Fylgja. Per altro “sapevo” che anche lei era morta annegata tanto tempo prima in qualche lontano paese nordico. Una cosa stranissima, davvero. Si dice che da bambini si possano avere dei ricordi di vite precedenti. In “Daimon” la rievoco attraverso una canzone in cui torno letteralmente bambino e a riafferrare quell’arcano, quella sorta di legame creatosi per qualche tempo con qualche altra dimensione. Il sonetto di Shakespeare da me messo in musica e cantato è un omaggio anch’esso al mio passato, quando da ragazzo lessi tutte le sue opere. Ero assolutamente rapito dalla sua grandezza. A differenza di altri brani, questo ho lasciato infine scevro di arrangiamenti. Solo il piano. E solo una cupa campana a rinforzare alcuni accordi. Entrambi sono pezzi che, a ripensarci dopo, devono qualcosa a Kate Bush, una donna e un’autrice che io amai sopra ogni altra da giovane. Mi iscrissi anche al suo Fanclub ufficiale e le mandai un brano dedicato. Lei mi ringraziò con una lettera che poi mi fu strappata a pezzettini buttati dalla finestra da una convivente durante un litigio. Peccato! All’alchimia io mi avvicinai intorno ai dodici anni leggendo Rimbaud e la biografia che ne scrisse Enid Starkie, la quale divenne per me quasi una bibbia. Un altro libro che mi colpì moltissimo in quegli anni fu la storia del Dottor Faust di Johann Spies. Per me l’alchimia era la metafora del conoscere ogni cosa e del fare ogni esperienza, soprattutto creativa, per arrivare all’oro della conoscenza e quindi della bellezza, e alla mia Grande Opera. Diciamo che invece ho continuato ad oscillare come tutti tra la nerezza e la bianchezza della vita, nigredo e albedo… generando tante deludenti sfumature di grigio, distillando tutto attraverso la sola cultura, l’intelletto, a cui ho sacrificato il cuore e anche lo spirito, tranne quando creo la mia musica. Chissà? 

GDS: Con “Silent lights bejewel the night”, il tuo riferimento testuale intreccia la musica di Schubert (e apre il discorso sul citazionismo quale straordinario strumento e moltiplicatore di senso e di creatività) e le liriche di Cesare Pavese. Amo molto il tuo pianismo leggero, spogliato da sovrastrutture retoriche… davvero il brano, struggente anche nella resa vocale, richiama esattamente l’immagine del titolo: “Luci mute ingioiellano la notte”. E il dubbio sulla presunta impossibilità della produzione contemporanea di trasferirci momenti, quasi statici, di tale bellezza è rafforzato da questa dolcissima berceuse.

DR: Quella poesia di Pavese è talmente evocativa della solitudine, così devastante, disperata… Abbinarla a un frammento reiterato e ricomposto alla Satie dell’andantino della sonata per pianoforte n. 20 D959 in la maggiore di Franz Schubert, è stato quasi automatico. Volevo creare la canzone più triste del mondo unendo due delle cose più tristi dell’universo. L’unica liberazione è nel glissando del Theremin, come di spirito che sale lieve al cielo, finalmente liberato dalla gravità dell’esistenza.

GDS: Cambio di atmosfera con l’omaggio a Bowie… e “lasciarsi andare finalmente alla certezza di arrivare “, una delle tue liriche più celebrate…

DR: Fin dall’infanzia Bowie è stato per me un faro, un dio, un arcangelo (da qui la citazione fatta dall’Ascensione di Cynewolf). Senza di lui (e senza i Kraftwerk), non avrei mai desiderato di fare musica, di mettere le mani su una chitarra o una tastiera e avanti. Ho amato ogni sua canzone, ogni sua immagine, ogni suo film… Come sai, ho scritto anche un libro su di lui e il suo rapporto nel tempo con l’Italia (ma anche dell’Italia con lui). Pensavo di conoscere tutto quel che c’era da sapere di Bowie, ma ancora oggi, a cinque anni dalla sua morte, continuo a scoprire cose incredibili sulla sua vita, la sua opera… Io non volevo essere come lui. Volevo essere lui. Da ragazzo, man mano che affinavo la mia poetica, il mio stile, ogni volta dovevo fare i conti col fatto che Bowie l’aveva già fatto (e sicuramente meglio), andando anche oltre. Ma quanti possono dirsi del tutto esenti da un qualcosa di Bowie, l’artista più amato e rispettato nell’universo mondo? Poi, con gli anni, mi sono anche affrancato con un lavoro mio più originale. Quando Bowie morì stetti imbambolato per un giorno. Ho rifiutato quella morte per molto tempo a seguire, incapace di omaggiarlo come invece ha fatto mezzo mondo. Sono stato zitto per anni e poi, nel ’18, scrissi di getto “Duende (for David Bowie)”. Nel finale la discesa nel gorgo del lutto e del dolore è infinita come nella scala di Shepard discendente qui usata. That’s all, folks! “Night Train Lullaby” è nata ascoltando il disco dell’amico Giuseppe Verticchio che, con sua moglie Daniela Gherardi, ha un progetto di nome Twist of Fate. A volte (come mi è capitato con “Whiteouts” di Snekula) sento un brano strumentale e sento mancarvi qualcosa, le parole, un canto… Mi viene tutto spontaneo, veloce… Quel pezzo evocava un viaggio in treno. Ho provato a cantarvi una mia vecchia poesia (“Prendere un treno”)… Era perfetta. Non potevo non chiederlo e ringrazio Giuseppe e Daniela per avermi concesso quel loro brano.

GDS. “Night Train Lullaby” e “Earthrise” raccolgono omaggi poetici a partire da un altro dei miei amori concettuali, Dylan Thomas, fino a Pavese e Verlaine. La domanda sorge spontanea: dal momento che la dimensione poetica è assai forte in Davide Riccio, come nasce la musica che ruota attorno ai tuoi testi? Non è un gesto facile, anche se il risultato musicale è sempre fluido. Mi pare di poter dire che si tratta di un processo spontaneo, ma complesso. Rapido, ma scolpito in momenti successivi. Intuitivo, ma stratificato talvolta, nel tempo immaginativo e persino nel tempo storicizzato… Raccontami come procedi nel lavorìo che va dalla lirica al suono.

DR: Musica e parole per me nascono insieme. Mi siedo al piano o con la chitarra e procedo. Ho sempre un’idea prima, naturalmente, un insight. Poi mi lascio andare alle associazioni, un po’ come faccio anche scrivendo i miei libri di poesia. Per la musica però per me esiste solo più l’inglese. Io discendo da una famiglia di antica origine normanna. I primi rudimenti della lingua me li diede una sorella di mio padre nata a Philadelphia, che nei primi anni ’60 servì per un periodo la regina a Buckingham Palace come badante dei piccoli Andrew ed Edward. Poi riprese a vagabondare con il Salvation Army. I miei bisnonni (due gemelli di nome Angelo Gabriele uno, Angelogabriele l’altro, una curiosità notevole questa in tempi in cui battezzare in modo così originale poteva dare problemi o essere del tutto impedito… ma si spiega col fatto che da parte di padre, essendo protestanti e non cattolici, nessuno fu battezzato)… Dicevo, i miei bisnonni e il nonno contribuirono nel portare dall’America il Salvation Army in Italia con il maggiore James Vint. Furono spesso protagonisti di tafferugli con la comunità cattolica, come ho letto su alcuni giornali dell’epoca. Ma sto divagando… Insomma, la lingua era per me nell’aria, diciamo così. Nei ’90 provai con l’italiano, incoraggiato dai testi di Panella per Battisti… Però io ho imparato ad ascoltare, a cantare e a scrivere canzoni con l’inglese e non sono più capace di usare altre lingue, non con la stessa efficacia e “ricchezza”…

GDS: “Missing”: “Se a tutti i poeti manca un verso, ebbene mi manchi”. Sei poeta e musicista. Ma quale dimensione prevale, nel tuo pensarti?

DR: Quella del poeta, perché “io faccio, produco”. 

GDS: Con “Kintsugi” torna il Leitmotiv alchemico, col sogno che sogna se stesso, traccia cara a Poe, ma anche a Borges e ad Arthur Schnitzler… Mi piace molto anche la visione giapponese dell’imperfezione, del voler lasciare una cosa parzialmente imprecisa, favorendone la profonda umanità… Anch’io mi sono occupato della dimensione estetica dell’errore, e della retorica della perfezione. Musicalmente mi colpiscono – qui – le aperture/ampiezza improvvise della dinamica. Il tuo viaggio va consequenzialmente al buddismo giapponese delle tracce successive.

DR: Scrissi “Kintsugi” come tema finale di un film lungometraggio, “Sogna ragazzo”, che girammo con Cochlea – Artisti dello Spettacolo e gli ospiti disabili di un servizio residenziale presso cui lavoravo come educatore. Avevo quindi bisogno di trovare un tema delicato che parlasse di imperfezione, valorizzandola. Riflettendo su quanto mi hai detto, le improvvise aperture dinamiche avvengono in particolare nel rumore di vetro infranto… Qui avevo infatti proprio idea di rompere uno specchio per passarvi attraverso, come Alice… La cultura giapponese, buddhista o no, è straordinaria, così ricca di peculiarità che probabilmente non basta una vita per abbracciarla tutta. Continua a sorprendermi. Spesso ho guardato al Giappone nella mia musica e nella mia poetica, ma anche ad altre parti del mondo. Devo imparare da ogni luogo e da ogni cultura. Un paio di anni fa mi sono divertito a fare una dozzina di compilazioni di miei brani, ognuna secondo la cultura di un luogo preciso, per un certo uso degli strumenti musicali tipici anche etnici o dei generi musicali adottati eccetera. Così ho scoperto che, senza averlo fatto programmaticamente, ho in quarant’anni idealmente viaggiato per tutto il mondo attraverso la mia musica. Forse ho compensato così il mio titolo di studio di operatore turistico, ma poi purtroppo mai sfruttato. Una serie che chiamai “DeaR World”… “Yes Trespassing” è uno strumentale che mescola i suoni di un’arpa eolia a strumenti cinesi (la pipa), giapponesi (il koto), tibetani come la ciotola cantante, il corno o dungchen o lo rkangling, un flauto ricavato da un femore umano. La preghiera buddhista qui usata non deve tuttavia far pensare che io sia buddhista. Io non sono ateo e non sono religioso; sono sempre stato un agnostico. Però la spiritualità e la cultura tibetane mi hanno sempre affascinato. Ora ho quasi ultimato un nuovo lavoro dal titolo “Out of Africa”. Dopo “DeaR World” ho infatti scoperto che l’Africa e il suo mondo sonoro era rimasto da me ancora poco esplorato. Questo mi è bastato come stimolo e in tre mesi ho fatto dieci nuovi brani di cui sono veramente molto soddisfatto, soprattutto rispetto a quei brani che sono nati senza più fare uso di accordi al piano o alla chitarra, ma semplicemente cantando dapprima su una serie ritmica di percussioni, non forzando le parole sulla maglia degli accordi o altre strutture, ma assecondandole con una melodia adeguata e cangiante. Agli arrangiamenti, alle armonie ecc. ci ho pensato dopo.

GDS: Visione cosmica di “Whiteouts”: “Ai sintetizzatori algidi di Snekula ho aggiunto, oltre ai vari effetti elettronici sulla voce per sottolineare il graduale passaggio e l’inesorabile trasformazione del vecchio al nuovo uomo elettronico, prossimo step evolutivo, un suono molto particolare che emerge a 4 minuti e 38: è la sonificazione della radiazione cosmica di fondo dal Big Bang dalla sua origine ad oggi”… (Vorrei far cenno ad altri autori, cosa che in genere evito: qua la tua vocalità mi conduce a David Sylvian… e al miglior Vangelis: che straordinaria stratificazione di riferimenti, nel tuo lavoro!). 

DR: Intanto, grazie! Pensavo a Vangelis soprattutto nel suonare “Rosa of Vatnsendi”, una antica nenia islandese, Vìsur Vatnsenda-Rósu, dedicata a mia madre Rosa dopo che è mancata a ottobre del 2019 e dopo una lunga e assurda agonia a cui ripenso ancora ogni giorno. Un lutto che non ho ancora elaborato. Pensavo in particolare all’infinita tristezza di certi suoi brani come “La petite fille de la mer”. Già da ragazzo incontrare Sylvian, l’antistar per eccellenza, per me è stato liberatorio rispetto al modello irraggiungibile di David Bowie: con lui ho scoperto di essere una persona schiva, che non sentivo alcuna necessità di fare musica per il successo e dintorni, che potevo finalmente accettarmi per quello che realmente ero e volevo.  Volevo solo starmene tranquillo da qualche parte a sperimentare, comporre e registrare tutto quel che avrei avuto voglia di fare, senza pressioni, senza ingerenze. Un po’ come Brian Eno. Avevo già smesso di fare concerti nell’87. Troppo stressante per me, anche se a volte produsse le giuste “encefaline” e a volte fu anche esaltante. Quell’anno, l’87, consumai letteralmente Gone to Earth e Secrets of the Beehive, due lavori davvero innovativi, capaci di indicare allora una strada del tutto nuova, piena di bellezza elegante e struggente, “aurea”.

GDS: “A glitch of love”, titletrack del secondo cd di questo epico dittico, è un altro dei pezzi che amo profondamente. Questa dimensione onirica, in parte ambient, con la voce che contrappunta il silenzio e lo spazio musicale, è il Davide Riccio che non avrebbe bisogno di parole ulteriori. Una dimensione onirica che sento anche in “Uchronia”, cioè in entrambe le tracce d’apertura. Ma poiché stiamo dialogando, vorrei che tu raccontassi questi paesaggi, scene che riesci a mantenere così fluide nonostante una pluralità di riferimenti: scacci evidentemente la tentazione (retorica) del linguaggio lineare con una visione quasi sciamanica.

DR: “A glitch of love” apre non a caso il secondo disco, “Human Decision Required”, composto e registrato durante il lockdown del 2020. Il brano doveva uscire in un lavoro di Alessandro De Caro, rimasto quindi inedito. Ho conosciuto Alessandro nel ’99 e abbiamo fatto diverse cose insieme da allora, compreso un cd e alcuni spettacoli dal vivo con un gruppo multimediale che univa soprattutto poesia e musica, apprezzato da molti all’epoca (una volta ci esibimmo anche a un festival internazionale di poesia “attiva” e interessammo alcuni poeti importanti come Arrigo Lora Totino e Aldo Nove. Fummo a un passo dal pubblicare libro e cd nella collana InVersi della Bompiani, che però sfortunatamente chiuse poco dopo per lo scarso successo di quella serie. 

De Caro era un uomo geniale, coltissimo, poeta, filosofo e compositore ma anche divulgatore di grande qualità. Una persona discreta, di rara e talvolta feroce ironia. E soprattutto un amico. A giugno del 2020 mi ha scritto sua sorella per darmi questa notizia incredibile, del suo ritrovamento tempo dopo, morto da solo in casa durante il lockdown. E abitava a due passi da me. L’autopsia a cui è stato sottoposto è quella di “Autopsy”, il pezzo blues che gli ho dedicato, ma che parla anche di me e di chiunque cominci a riflettere sulla malattia e sulla morte quando si vive da soli. Anch’io potrei morire da solo in casa e dio solo sa quanti giorni passerebbero prima di essere scoperto. Avevo fatto in “Autopsy” un assolo che suonava troppo “pinkfloydiano”. Ho chiesto allora soccorso a Max Arrigo (Nandha Blues), che ha fatto un nuovo assolo straordinario. Su YouTube ho caricato un’ora di musica fatta insieme https://www.youtube.com/watch?v=wF-QkqW-lx0

Sì… Io cerco sempre, attraverso la musica e la parola, qualcosa che mi metta prima o poi davvero in comunicazione con il “mondo degli spiriti”. Ho bisogno di saperne, di riceverne qualcosa che mi salvi dall’orrendo nulla.

GDS: “(Don’t) Lockdown” mi dà l’occasione per chiederti come realizzi, proprio tecnicamente, i procedimenti microtonali che arricchiscono, a parer mio, la texture propriamente armonica dei tuoi pezzi.

DR: In modo del tutto spontaneo. Programmaticamente ho fatto solo un pezzo realmente dedicato alla microtonalità, un pezzo dedicato ad Alois Haba per pianoforte in quarti di tono da Flatland, un’opera collettiva in cui avevo proposto di mettere in musica il romanzo di Abbott Abbott traducendo le dimensioni attraverso il suono: Pointland, per esempio, con il suono puntiforme di un cd che si incanta e che sembra suonare pulsando come un’opera minimalista di Steve Reich; Lineland, suono lineare monodimensionale di un Theremin e avanti, fino a un’ipotetica quinta dimensione penetrando appunto nei microtoni… Il resto dipende dal fatto che probabilmente ho acquisito una sensibilità all’ascolto che coglie i microtoni, i quali soprattutto mi ritrovo a valorizzare nel canto. Per questo certi software di correzione del pitch, come l’autotune, mi fanno orrore. Come si può fare a meno dei glissandi e tutto quello che vi è in mezzo? Per altro questo mi ricorda del contributo dato dal losangelino Brendan Dunn con la sua pedal steel guitar in “Kintsugi”.

GDS: “Plutone e Caronte”: “Il brano inizia con un arpeggio atonale e si sviluppa sempre più perso nella memoria degli anni ’70, che in fondo costituiscono la gran parte della mia identità sonora”. Raccontaci un po’, in sintesi, questi amori concettuali che nascono nei mitici Settanta…

DR: Questo, insieme a “Was my life a Kohoutek?” è uno dei brani che preferisco ma che sicuramente piaceranno di meno ad altri. In questi due brani ho cercato di scomporre la mia odierna identità sonora per recuperare quella di quando ero bambino, mettendo insieme le cose che musicalmente mi avrebbero colpito di più in quella metà degli anni ’70, quando restavo affascinato tanto dal notturno di Borodin o dalla Canzone Indù di Rimsky-Korsakov, da Oxygene di Jarre, dai primi Kraftwerk (Kometenmelodie) e dai Pink Floyd, o ancora da cose come la African Symphony di Van McCoy o il sontuoso suono orchestrale del Philadelphia Sound ecc… Insomma, ho cercato di spogliarmi di tutto quello che ho conosciuto dopo, creando dei pezzi come se avessi avuto dieci anni, basandomi solo su quello che allora, iniziando ad amare la musica, mi piaceva e mi affascinava.

GDS: In “Awumbuk” torna il minimalismo del pianoforte, con i suoi silenzi tesi ad evocare la dimensione della perdita, forse della solitudine… Un brano dolcissimo.

DR: Durante il lockdown ho scritto diversi brani con uso abbondante di fiati e svariati suoni. I fiati, contro un male che toglie l’aria, avevano un preciso significato di lotta, di asserzione e contrasto. Però a un certo punto ho sentito il bisogno di infilarmi anche tra le pause del suono, i silenzi, rifare i conti con lo horror vacui… Anche per dare voce allo “Awumbuk”… che per gli indigeni della Nuova Guinea significa la tristezza o la nostalgia che ti assale quando se ne sono andati via tutti. Tutto questo pensando ai miei numerosi lutti degli ultimi anni che hanno quasi completamente svuotato la mia famiglia, la mia “casa”. Ti confesso che sono partito pensando di fare qualcosa che potesse somigliare, nella sua delicatezza, a “By this river”.

GDS: “In tutta questa storia del covid c’era un altro diavolo da catturare e rinchiudere con la magia della musica e dell’arte”… ed ecco nascere “Lucedio”, quasi a richiamare il tuo antico amore per il rifacimento creativo di ancestrali manoscritti, reperiti da qualsiasi tradizione musicale. Un’evocazione.

DR: “Lucedio” è una sorta di intermezzo anche un po’ scherzoso che riguarda la leggenda dell’abbazia appunto di Lucedio. Sul muro della chiesa della Madonna delle Vigne c’è uno spartito bifronte dipinto su un muro: letto in un verso si imprigiona il diavolo, nell’altro lo si libera. Una musica scritta da un esorcista per catturare il diavolo che si era impossessato dei frati dell’abbazia, insomma. Ad oggi non era mai stata fatta una ricostruzione soddisfacente del pezzo il quale, secondo me, andava interpretato con più costrutto o senso compositivo. La notazione estremamente semplificata, cioè così com’è, suona diversamente qualcosa di incomprensibile. Ad ogni modo non so se abbia o meno catturato il mio “covidiavolo”… Ho evitato comunque di suonarlo anche al contrario.

GDS: “Dear Florian”, torna il sonoro nella mia curiosità da cercatore tuo collega: “Il grande dolore è muto… Ist still der große Schmerz, Florian”. Al vocoder EMS 5000 la mia voce aggiunge “at the end of the day” (…alla fine del giorno)”… 

DR: Un altro pezzo nato di getto la sera del 6 maggio dopo aver appreso della morte di Florian Schneider.  In quei giorni lo mandai a Wolfgang Flür. Anche la morte di Florian mi ha sconvolto. Spesso racconto di quell’ottobre del ’75, quando una sera alla radio sentii Radio Activity… Fui folgorato! Corsi da mia madre raggiante, anzi è proprio il caso di dire “radioso”… “Mamma, senti, questo sono io! Questa musica sono io!” Mi ero totalmente identificato in quei suoni sconvolgenti, mai uditi prima, in quella musica che mi fece pensare: ecco, ci siamo, sono arrivati i marziani, la fantascienza non è più solo fantasia. Il futuro è qui… Il Duemila! Allora non avevo ancora conosciuto il lato distopico della fantascienza, ma la mia mente era piena di utopistici sogni tecnologici che avrebbero reso il mondo migliore per tutti… Cose tipo Futurama di Norman Bel Geddes, la città volante di Cloud 9 di Buckminster Fuller, la Base Luna della SHADO ecc. Retrofuturismo che emerge anche tra le liriche di “Earthrise”, brano che sfuma nei suoni della Stazione Spaziale Internazionale. Mia madre, il giorno dopo, mi comprò quel disco. Come non amarla già solo per questo? Ho usato ogni sintetizzatore analogico d’epoca che potesse ricordare i suoni dei Kraftwerk negli anni ’70, dal Minimoog all’ARP Odissey (ma c’è anche un piccolo stylophone). Melodicamente volevo avvicinarmi alle melodie semplici e luminose dei Kraftwerk. La melodia ripresa poi dal flauto traverso ha ovviamente il suo perché (il flauto fu lo strumento principale di Florian). Anche “Grey Goo” è un pezzo che omaggia i Kraftwerk. Com’è passato il tempo! Infine è così diversa la nostra vita da quella di una effimera che vive un solo giorno? 

GDS: “The covidians” è dedicato ad Alessandro De Caro”, mancato durante l’epidemia in modo drammatico. Chi ti segue sa quanto questa vicenda ti abbia coinvolto, e, se vuoi, puoi qui donarci una riflessione sul senso di smarrimento e perdita.

DR: “The Covidians” l’ho composta a metà giugno, tornando il mondo a una parvenza di libertà. E, tuttavia, per me i “Covidians” ormai sono qui, tra noi. Siamo noi, o meglio una parte di noi. I Covidians sono come alieni o forse sono alieni; o dei mutanti, sono uomini e donne che il virus ha cambiato o ha manifestato e conclamato, consolidato forse per sempre e che, con l’arma del più sottile e persuasivo dei terrori, torneranno ancora a rendere   sempre più difficile la vita di chi non vorrà esserne soggiogato. Il brano nasce come bisogno di fare della glitch music (guardando anche al genio di Anders Trentemøller) e usa una sezione di fiati che sviluppa le note della sonificazione del coronavirus SARS-CoV-2 e sue mutazioni nel tempo. Il brano si chiude con la sonificazione dell’attività cerebrale umana. A seguire c’è l’ultimo brano composto nel 2020, a settembre. Volevo qualcosa di provocatorio e l’ho trovato nelle note dipinte da Hieronymus Bosch su un deretano visibile nella pala dell’Inferno Musicale nel trittico del Giardino delle Delizie. Ho usato quelle note come un sequencer su cui ho strutturato un motivo minimalista di fiati. Allo smarrimento e alla perdita, al dolore in generale infine cerco sempre di reagire e rispondere così. con l’ironia o il sarcasmo, con uno sberleffo, una clownerie… Proprio come quella figurina di Bosch e la musica dipinta sul suo deretano…

GDS: “Naïvité”, il piano ci avvia alla chiusura, con un senso di speranza, di apertura per un… prosieguo, che in fondo ci “meritiamo nonostante”. Come tu scrivi: “Ho lasciato questo brano in chiusura per una qualche speranza ancora di gioire infine a tutto. Questi mesi sono stati dopotutto per me una ‘ricerca della visione’ “.

DR: Nella “Naïvité” per solo piano, ho cercato di far confluire tutto il mio amore per certa musica classica russa e per Satie, ma anche tutta la tristezza per questo momento, preparando la sorpresa della chiusura con “Enjoy”, in cui ho cercato di esprimere la gioia più esplosiva e liberatoria (anche se la ghost-track si ispira al noto tema della Follia e alla leggenda terribile di Gladys e George, in cui è stato distrutto realmente un pianoforte). Il canto di un nativo americano rimanda allo hanblecheya. I mesi trascorsi nel delirio del 2020, chiusi in casa e isolati, anche se io ho dovuto recarmi ogni giorno al lavoro perché, come sai, lavoro nel settore socio-sanitario, quindi sono stato – come si suol dire – sul campo di battaglia, dicevo, i mesi del 2020 sono stati anche una sorta di ritiro dal mondo, per me come nella ricerca della visione, un rito di passaggio… Tra l’altro mi sono anche serviti per scrivere i libri “Poi Sia” e il romanzo “La Banca dei Reincarnati”, usciti di recente per la Genesi editrice. Qual è stata infine la visione? Nessuna in particolare, a parte quella che ora posso raccontarvi attraverso questo doppio cd uscito dalla mia “Capanna Sudatoria”. E adesso rifocillatemi, dissetatemi e fatemi oggetto di una piccola festa, scambiamoci dei doni. E, per intanto, grazie del dono del tuo ascolto e di questa bella conversazione.

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti