KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Intervista con Mirco Ballabene

15 min read

Con Lorenzo Binotti, Piero Bittolo Bon, Massimiliano Furia.
In cd e digitale da Niafunken – Distribuito da Goodfellas da febbraio 2021.
Bandcamp: https://mircoballabene.bandcamp.com

Right To Party è un progetto di musica creativa che si ispira alla musica accademica del Novecento tentando di fondere questo linguaggio con quello dell’improvvisazione totale, sviluppandosi in Occidente nella seconda metà del secolo scorso grazie all’attenzione che la diffusione del jazz ha riportato nei confronti delle pratiche improvvisative.
Il progetto è guidato da Mirco Ballabene, contrabbassista e compositore , che opera in territori di confine tra jazz e musica classica contemporanea, accompagnato per l’occasione da Lorenzo Binotti, pianoforte ed elettronica, Piero Bittolo Bon, sax alto, clarinetto basso ed elettronica, e Massimiliano Furia, batteria e oggetti.
Le composizioni di Right to Party si costruiscono attraverso dei pitchsets, cioè gruppi di note così come classificati da Allan Forte nel suo celebre studio The Structure of Atonal Music, pubblicato nel 1973. La tecnica privilegiata è quella del contrappunto, diversamente dal linguaggio jazzistico tradizionale in cui i brani si sviluppano per successione di accordi. Di fondamentale importanza è la scelta delle strutture metriche, le quali si ispirano alla scrittura della musica classica contemporanea e, in un caso in particolare, alla musica del compositore inglese Jonathan Harvey. Oltre ai pitchsets e alle strutture metriche inusuali per una musica che apparentemente sembra derivare dal jazz, sono state utilizzate anche le tecniche del serialismo.
Alle parti composte si alternano le parti improvvisate che, oltre alla tradizione più propriamente jazzistica, rimandano a quella pratica così definita di improvvisazione totale o non idiomatica, cioè che non sia riconducibile ad un determinato genere musicale e che, a volte, si nutre più della ricerca timbrica attraverso l’utilizzo di tecniche estese sullo strumento, che del fraseggio come lo si intende nel jazz. Da questo punto di vista l’utilizzo dell’elettronica, che improvvisa con gli strumenti acustici, a volte anche processandoli in tempo reale, risulta molto importante, perché la gamma delle possibilità timbriche si estende notevolmente.
I brani sono concepiti, quindi, come delle piccole suites in cui si passa da momenti composti a momenti improvvisati, il tutto cercando di creare un percorso sonoro coerente. I titoli dei brani prendono ispirazione da eventi o problematiche sociali dell’attualità che viviamo in quanto uomini e donne dell’Occidente sviluppato. “Il titolo del progetto, Right To Party”, racconta Mirco Ballabene ” ha anch’esso un’origine politica, e si riferisce a quella sensazione che ho provato, quando, all’indomani dei vari orribili attentatio di matrice islamista che avvenivano con una certa regolarità in varie città europee, la reazione più comune da parte delle persone e dei media era soltanto quella di rivendicare in maniera molto forte il proprio stile di vita, senza che nessuno si fermasse a riflettere sul fatto che è proprio questo stile di vita, il più delle volte, a provocare quelle disparità sociali che sono alla radice di questi atti ingiustificabili. In definitiva, come se l’unico vero diritto che gli europei fossero disposti a difendere, fosse il diritto al proprio divertimento e non il diritto di tutti gli esseri umani a vivere una vita dignitosa e felice”.

Mirco Ballabene, fin da giovanissimo, intraprende lo studio della musica suonando pianoforte e basso elettrico, per approdare definitivamente al contrabbasso. Nel 2010 si diploma in contrabbasso classico presso il Conservatorio “G. Rossini” di Pesaro. Nel 2011 pubblica un disco, “Vìreo”, affiancato dai giovani musicisti Fabio Mina e Danilo Rinaldi, in collaborazione con Markus Stockhausen, per l’etichetta tedesca Aktivraum. Nel corso del 2014 approfondisce lo studio delle tecniche improvvisative con Silvia Bolognesi. Nel febbraio 2015 pubblica un secondo disco, “Triologos – Tracce di canti”, con i musicisti Paolo Cerboni Bajardi e Bruno Cerboni Bajardi, per la Slam Productions, prestigiosa etichetta inglese fondata da George Haslam, disco che verrà anche presentato nella trasmissione “Piazza Verdi” in onda su RadioRaiTre. Sempre nel 2015 partecipa al progetto “Anthony Braxton’s Sonic Genome” nell’ambito del Torino Jazz Festival, performance musicale della durata di otto ore guidata dallo stesso Braxton affiancato dai suoi collaboratori (Taylor Ho Bynum, Jame Fei, Nate Wooley e Mary Halvorson tra gli altri), e inizia il Laboratorio permanente di ricerca musicale con Stefano Battaglia presso la Fondazione Siena Jazz che conclude due anni dopo con la registrazione di un disco con lo stesso pianista e Massimiliano Furia alla batteria, disco di imminente pubblicazione. A settembre pubblica il disco “Strade”, affiancato da Giovanni Ferri al sax alto e da Mirco Bindelli alla batteria, di nuovo per SLAM Productions. Nel 2017 partecipa al progetto della Fonterossa Orchestra, diretta da Silvia Bolognesi, ensemble con il quale si esibisce al Fonterossa Day nell’ambito di Pisa Jazz. Nel frattempo inizia a collaborare con l’associazione Urbino Jazz Club e con Lorenzo Binotti organizza il Laboratorio di Improvvisazione e Musica Sperimentale (LIMS), nell’ambito del quale tiene laboratori di improvvisazione e Conduction. Nel febbraio del 2019 partecipa alle International Creative Residences, circuito internazionale di musica creativa che lo porta a dirigere un ensemble di dodici musicisti presso il conservatorio di musica ritmica di Copenhagen con una composizione scritta a quattro mani con Lorenzo Binotti. Nel maggio del 2019 pubblica a proprio nome un disco in trio con Stefano Battaglia al pianoforte e Massimiliano Furia alla batteria, “Oltranza Oltraggio – La Beltà”, lavoro che accoglie i pareri molto favorevoli della critica specializzata. Nel frattempo suona con Lorenzo Binotti nel duo Pvar, duo di musica improvvisata per contrabbasso ed elettronica, col quale si esibisce in diversi locali sul territorio nazionale, compreso il MACRO, museo di arte contemporanea di Roma, e con lo stesso Binotti al pianoforte, Massimiliano Furia alla batteria e Piero Bittolo Bon ai sassofoni nel quartetto Right To Party, progetto di proprie composizioni che tenta di fondere la composizione accademica del Novecento con l’improvvisazione totale.

www.niafunken.com

All the weapons we are / The Mouse, the Clown and the Naked Child / Beyond the walls of EU fortress / A rubber boat in a dark sea.

Intervista

Davide

Ciao Mirco. Come nasce “Right to Party” rispetto all’anno difficile che la musica e i musicisti hanno  passato (e purtroppo continuano a passare), ovvero ai cosiddetti “tempi del coronavirus”?

Mirco

Ciao Davide. Right to Party, in verità, nasce prima del coronavirus, infatti le composizioni risalgono a quattro anni fa e, per fortuna, siamo riusciti a registrarlo la settimana prima del lockdown di marzo, quando ancora non avevamo proprio una minima idea di quello che sarebbe accaduto. Addirittura le composizioni stesse nascono prima di avere in mente quali musicisti le avrebbero suonate e se mai sarei riuscito a farle suonare a qualcuno. Massimiliano Furia lo avevo appena conosciuto durante il Laboratorio Permanente di Ricerca Musicale che il grande pianista e didatta Stefano Battaglia tiene presso la Fondazione Siena Jazz, esperienza da cui è nato il mio precedente disco Oltranza Oltraggio – La beltà, in trio con questi due meravigliosi musicisti e ispirato alla poesia di Andrea Zanzotto. Lorenzo Binotti lo conoscevo già, ma più come musicista elettronico che come pianista. Infine di Piero Bittolo Bon avevo ascoltato soltanto la musica e non potevo immaginare che di lì a qualche anno avrebbe dato voce ai miei brani. 

Davide

Come avete costruito delle serie e perché il serialismo?

Mirco

Da sempre ho sentito la necessità di comporre della musica, ma, tutte le volte che iniziavo, alla seconda battuta smettevo, perché quello che creavo lo trovavo sempre privo di interesse. Era come se avessi bisogno di un principio compositivo che mi guidasse oltre i miei gusti del momento o quello che le mie orecchie avevano registrato nel corso degli anni; come se avessi bisogno, insomma, che la musica si creasse da sola, in un certo senso. Quindi, attraverso lo studio della musica di Henry Threadgill, sono arrivato ai pichsets di Elliot Carter e quindi al celebre studio The Structure of Atonal Music, pubblicato nel 1973 da Allan Forte, dove i pitchsets utilizzati nella musica classica del Primo Novecento, vengono classificati sistematicamente. I pitchsets, gruppi di note che esulano dalla teoria armonica per così dire tradizionale, di certo da quella jazzistica, sono stati la chiave che mi hanno finalmente dischiuso la via della composizione: non era necessario più riferirsi all’armonia jazz, che non ho mai sentito troppo mia, ma allo stesso tempo non era neanche necessario affidarsi all’atonalismo o alla dodecafonia. Di qui al serialismo il passo è stato breve, perché cercando dei principi che, almeno in parte, forzassero i miei meccanismi creativi verso qualcosa di inaspettato a me stesso, la serie mi permetteva di evitare quegli automatismi  dell’orecchio che mi hanno sempre deluso e che trovavo sempre troppo arbitrari. Quando ho provato la prima volta ad utilizzare una serie, il risultato mi è piaciuto talmente tanto che ho continuato e tutt’ora continuo, anche se in definitiva il giudizio finale su quello che emerge dal pentagramma resta sempre a me. Quindi, spesso, le serie che costruisco derivano da numeri che, a loro volta, possono derivare da lettere, tecnica che ho usato molto nel disco su Zanzotto, ricavando le serie direttamente da alcuni versi del poeta. Oppure possono derivare dal materiale stesso che ho già iniziato a comporre attraverso altre tecniche, metodo che ho utilizzato molto di più per Right to Party.

Davide

Serialità e improvvisazione sembrerebbero due modalità opposte di fare musica: da una parte si preordinano e stabiliscono dei parametri entro cui comporre e suonare, dall’altra l’improvvisazione dovrebbe consentire l’atto di creare qualche cosa mentre la si esegue, in maniera spontanea o casuale. In che modo avete usato questa situazione di apparente conflitto?

Mirco

Uno degli obiettivi di questo progetto è proprio quello di accostare la composizione più rigorosa, con riferimenti sempre più espliciti alla musica accademica del Novecento, all’improvvisazione più libera di stampo soprattutto europeo che, quando eseguita in maniera impeccabile, ha un tale livello di necessità che la musica che si ascolta si direbbe composta, e delle migliori composizioni ovviamente. In effetti, quindi, le serie, e non solo, le ho utilizzate per le parti composte, mentre nell’improvvisazione ho dato solo indicazioni di massima, anche se mi piaceva che fossero improvvisazioni molto caratterizzate dal punto di vista dinamico e timbrico. Non credo molto nel concetto di libertà nell’arte, perché lo trovo un po’ ingenuo, se non, forse, ad un livello di interiorizzazione che sfiora la meditazione; al contrario ritengo che troppa libertà possa facilmente condurre a clichés di cui anche la cosiddetta musica di ricerca è spesso vittima. E comunque, come ho fatto nel disco con Stefano Battaglia e Massimiliano Furia, si può improvvisare anche utilizzando una serie, se ad esempio tengo stabile solo la successione di note e vario i registri, le dinamiche e le durate. L’imposizione di limiti mi porta a trovare soluzioni alle quali magari non avrei mai pensato e questo per me è molto stimolante. Sarà forse perché sono un eterno insicuro e la totale libertà mi pone davanti a troppe scelte.

Davide

Molto interessante è il discorso dell’improvvisazione timbrica, che mi ha ricordato esperienze come quella del Gruppo d’Improvvisazione Nuova Consonanza. In che modo esplorate le possibilità timbriche, specialmente in tempo reale, per metterle in relazione tra loro a cominciare dal binomio acustico/elettronico?

Mirco

Uno degli aspetti che mi interesserebbe approfondire nel mio percorso musicale è proprio quella che potrei definire, in un certo senso, l’organizzazione dell’improvvisazione (cosa che ovviamente non mi invento io e che non è niente di nuovo), soprattutto per non ricadere in quei luoghi comuni a cui accennavo prima. Nel caso specifico, a parte qualche indicazione sulla strumentazione da usare e sulle dinamiche, le improvvisazioni sono nate abbastanza spontaneamente, spesso ricavando idee dalle sessioni di prova. Poi, ovviamente, i musicisti che fanno parte del progetto sono tutti degli ottimi improvvisatori che hanno portato alla musica di questo disco il loro inestimabile bagaglio di sensibilità e di ricerca sugli strumenti che suonano. Nello specifico del live electronics, poi, io e Lorenzo già da qualche anno abbiamo un duo di musica improvvisata, PVAR, in cui esploriamo proprio le possibilità di interazione fra elettronica e strumento acustico, esperienza che abbiamo portato anche in Right to Party e, per quanto mi riguarda, ad esempio, nel solo di contrabbasso che apre il disco.

Davide

Mi interessa approfondire l’origine dei titoli brano per brano e l’attualità politica o sociale che vi sta dietro. Nell’interno della copertina si leggono una frase di Thomas Pynchon e una dedica agli immigranti. Dei quattro titoli ho immaginato che “Beyond the walls of EU fortress”, a esempio, possa avere a che fare con i nuovi muri e barriere varie che si stanno erigendo in Europa (e non solo) tra svariati confini (ho letto che in Europa sono stati costruiti, dopo la sua caduta che ben ci aveva fatto sperare, l’equivalente di sei muri di Berlino). E sicuramente “A rubber boat in a dark sea” ha a che vedere con i gommoni di migranti… 

Mirco

Le interpretazioni dei titoli che dai sono corrette. Per quanto riguarda gli altri due titoli, “All the weapons we are” è un calco dal famoso jazz standard “All the things you are”; mi è venuto in mente così, all’improvviso, e sicuramente fa riferimento a tutto quello che le armi rappresentano nella nostra società, dalle implicazioni più strettamente commerciali a quelle che investono l’immaginario con cui cresciamo fin da piccoli, e non solo da adesso, ma da sempre (basti pensare che uno dei poemi più celebri dell’antichità, l’Iliade, si costruisce sul racconto di una guerra). “The Mouse, the Clown and the Naked Child, invece, si riferisce ad un’opera di Banksy, in cui il clown della famosa catena di fastfood e il topo più celebre al mondo tengono per mano Kim Phùc, la bambina ritratta nell’altrettanto famosa fotografia in cui scappa nuda e ustionata da un bombardamento al napalm durante la guerra in Vietnam, un’immagine, quella di Banksy, che credo rappresenti molto bene le disparità del mondo in cui viviamo e le ingiustizie su cui l’Occidente basa il proprio benessere. Comunque vorrei precisare che i titoli sono nati dopo le composizioni e che fanno tutti riferimento, quindi, a quell’orrore quotidiano su cui si fonda lo sviluppo dell’Occidente che a casa propria dice di difendere i diritti civili, ma nel resto del mondo compie o lascia compiere qualsiasi nefandezza pur di conservare la propria posizione di dominio. Thomas Pynchon è arrivato addirittura dopo la registrazione del disco, quando ho letto “L’arcobaleno della gravità”, libro che mi è piaciuto molto ovviamente non solo per le sue posizioni antimperialiste. Infine ho dedicato il disco ai migranti, perché per me rappresentano, sul e con il loro corpo, tutte queste ingiustizie che, anche se si possono manifestare in tanti differenti e crudeli aspetti, alla fine derivano tutte dalla disuguaglianza. Tra l’altro ho scelto di non dedicare il disco ai profughi, perché trovo veramente odiosa la distinzione fra migrante economico e profugo, come se chi scappasse dalla fame e dalla miseria avesse meno diritto ad una vita dignitosa di chi scappa dalla guerra o dalle persecuzioni.

Davide

Ezio Bosso disse che una società che si ascolta, si migliora. Può la musica migliorare la società? È, questo, qualcosa nei vostri obiettivi?

Mirco

La musica ha sempre accompagnato i movimenti per i diritti civili e spesso ha dato loro una maggior coesione, un segno in cui riconoscersi membri di un’esperienza comune. Poi, se dalla musica siano mai nati dei movimenti simili non saprei, ma penso sia innegabile che questi ne abbiano tratto forza, come da tutte le manifestazioni artistiche d’altronde.
È uno dei miei obiettivi migliorare la società attraverso la musica? No. Dovendo trovare delle parole per creare titoli e per dare un nome allo stesso progetto, ho sentito che queste parole potevano rappresentarmi come persona, più che come artista, quindi l’ho percepita più come una questione intima che riguarda ciò che più mi colpisce e mi infastidisce del mondo che mi circonda. La musica, per cambiare la società, ammesso che sia in grado di farlo, quanto meno deve essere ascoltata da molte persone e, purtroppo, non credo che questa condizione possa essere soddisfatta nel nostro caso! Questo mi dispiace ovviamente, ma penso che sia un dato di fatto. 

Davide

Ci parli degli altri tre protagonisti di questo lavoro e della vostra influenza reciproca, della vostra compenetrazione scambievole di idee, di note e di suoni?

Mirco

Certo. Lorenzo Binotti è stato il primo che ho coinvolto nel progetto, sperando che accettasse, perché ero in un momento in cui avevo queste parti fra le mani, ma non sapevo veramente a chi proporle, abitando io in provincia e non avendo molti contatti col mondo dei musicisti professionisti. Lorenzo all’epoca era il mio insegnante di musica elettronica e in pratica devo a lui le conoscenze che mi hanno permesso di realizzare il solo con cui apro il disco, il quale, per me, è una sorta di chiara e netta presentazione dell’attitudine dell’intero progetto. Poi nel corso degli anni il nostro rapporto è cresciuto molto ed è significativo che a volte la gente che non ci conosce ci scambi per fratelli! Quindi con lui è un continuo scambio di idee, progetti e visioni.
Poi è arrivato Massimiliano Furia. Il bello è che ho scelto di frequentare il Laboratorio di Stefano Battaglia anche con la speranza di trovare un batterista col quale avrei potuto condividere la mia musica e l’ho trovato al primo colpo, mica male! Massimiliano si è reso subito disponibile e molte delle parti in cui improvvisa le ho ritagliate su di lui e sulla curiosità che lo porta ad utilizzare oggetti percussivi non convenzionali, come barattoli e catene (che ad esempio utilizza su “Beyond the walls of EU fortress”, giusto per restare in tema).
Invece Piero Bittolo Bon, come ho già detto, lo conoscevo soltanto dai dischi e lo avevo incrociato sporadicamente a qualche concerto, nonché alla Fonterossa Open Orchestra di Silvia Bolognesi. Un giorno gli ho mandato una mail coi brani in cui lo invitavo ad unirsi al progetto e lui ha risposto di sì, cosa che mi ha abbastanza stupito lì per lì, dato che in fondo non ci si conosceva quasi per nulla e di questo, ovviamente, non posso che ringraziarlo infinitamente.
In generale io sono arrivato alle prove con un’idea molto precisa dei brani e del loro arrangiamento, anche se a volte sono emersi suggerimenti di arrangiamento che ho adottato molto volentieri, perché in effetti mi sembravano migliori della mia idea iniziale. Certamente molte idee sono nate durante le prove, soprattutto per quanto riguarda le improvvisazioni.

Davide

So che ti occupi anche di letteratura e sei stato nominato cultore della materia nell’ambito dell’insegnamento di Letteratura Italiana, pubblicando diversi saggi. Questo non ti ha mai messo il desiderio di scrivere anche delle parole da cantare o recitare sulla musica? Perché preferisci che la musica sia strumentale?

Mirco

Proprio perché amo la letteratura penso, almeno per il momento, di non essere in grado di scrivere dei testi di cui sarei soddisfatto. È un po’ come per la musica: prima di iniziare a comporre regolarmente sono passati più di dieci anni di attività musicale e poi è scattato qualcosa; se un giorno scatterà qualcosa anche per quanto riguarda le parole, sicuramente non mi tirerò indietro, ma forse preferirei scrivere più un romanzo o della poesia che dei testi da musicare anche se, onestamente, non credo che succederà. 

Davide

Cosa seguirà?

Mirco

Io e Lorenzo stiamo lavorando al nostro primo disco in duo, PVAR. In duo vorrei lavorare anche con Massimiliano, progetto di cui ho già scritto alcune parti, anche se poi il coronavirus ha rallentato tutto. Inoltre mi piacerebbe aggiungere un altro capitolo ad Oltranza Oltraggio, questa volta indagando la poesia di Amelia Rosselli e suonando con una diversa formazione, mentre le musiche del prossimo disco di Right to Party sono quasi pronte. In generale voglio approfondire sempre di più il mio percorso compositivo studiando la musica accademica contemporanea da cui poter cogliere sempre nuove idee per i miei brani che, comunque, almeno per come la penso al momento, prevederanno sempre una buona dose di improvvisazione.

Davide

Grazie e à suivre…

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti