(Teatro)
Inizialmente asettico. Completamente bianca la scena. Quel bianco segno di lutto nelle cerimonie funebri orientali, quel bianco degli ospedali. Così inizia Questo buio feroce ultimo spettacolo del regista Pippo Delbono ispirato all’omonimo libro di Harold Brodkey; un inizio ambiguo tra un mondo sacro, orientale e uno occidentale che per l’occasione si fa spesso cerimoniale. Il gesto è rarefatto, ieratico, gesto che si fa attendere e si appresta ad operazioni simboliche quasi sempre accompagnate da musica classica. La sonorizzazione è praticamente costante: la voce ci arriva registrata e a volte effettata o dal vivo amplificata dal microfono; ma nei momenti di effettazione, le particolari vibrazioni del suono elettronico penetrano a tal punto (anche a livello contenutistico scagliandosi con provocazione nella denuncia di una società superficiale e consumista) che alcuni spettatori indignati si sono alzati verso l’uscita. Questi momenti che subentrano soprattutto nella seconda metà dello spettacolo e ricordano molto la poetica di Artaud, fanno da contrasto con le registrazioni del testo di Brodkey sapientemente recitate con tono intimistico che tanto appartiene allo scrittore americano ma che comunque rimane fin dall’inizio un’escamotage per parlare delle ideologie riguardanti il concetto di morte’ e il suo contrario: vita’. È dunque uno spettacolo dal forte imprinting simbolico ideologico, come del resto prevede il metodo di messa in scena di Delbono, anche se rispetto agli spettacoli precedenti c’è una dilatazione notevole di quantità di significati, del resto l’argomentazione scelto, si sa, ha avuto grandi interpretazioni da molti letterati di tutto il mondo soprattutto nella letteratura moderna.
Lo stile inconfondibile della regia di Delbono comunque resta fedele al modus operandi precedente: composizione di più scene legate dal contesto ideologico che si susseguono in maniera antinarrativa; certo è inevitabile notare ad un certo punto che c’è qualcosa di diverso nello spettacolo: mentre la scena prima si riempiva di persone, oggetti e canzoni popolari, a volte era il baraccone, la balera a contaminare lo spazio scenico, ora ci vengono presentate sfilate, sfilate di uomini in guepière, angeli-demoni post-moderni, sfilate di vestiti veneziani rivisitati alcuni in modo contemporaneo per cui il minimalismo della scena si riempie questa volta di un barocchismo formale e altezzoso, non più povero e sporco. Ritroviamo comunque gli amici-attori che hanno seguito il regista sulla scena fin dagli esordi: Bobò e Gianluca Ballarè, che divisero la critica e il pubblico anni addietro: molti si chiesero se era troppo semplice usare la presenza scenica di persone con dei problemi evidenti psichici e fisici. Inoltre troviamo anche Nelson Lariccia che con il suo corpo scheletrico inizialmente ci raggela in una forte sensazione di morte o malattia per poi regalarci una vitale e toccante interpretazione di “My way”.
Il finale richiama Il settimo sigillo di Bergman, a mio avviso, ed è un modo giocoso di non prendersi troppo sul serio o meglio di evocare un punto sereno di incontro tra vita e morte. In definitiva comunque lo spettacolo è una piccola perla contemporanea come del resto ci si poteva aspettare da Delbono.