Jack si mette sulla strada nel 47, ha venticinque anni. Parte per Denver, poi arriva a Frisco. Poi di nuovo indietro fino a New York. E così per altre volte, a bordo di macchine sempre diverse o in autostop, da solo, con i vagabondi dell’epoca o con i suoi fedeli amici. Neal Cassady su tutti (Dean Moriarty, nel romanzo) vera musa ispiratrice ed eroe del libro. Dean è uno che la vita la prende di petto. E’ uno che non sta mai fermo, che non la smette un attimo di parlare, che schizza da una parte all’altra. Eccolo l’eroe di questa nuova&sincopata mitologia americana. A metà strada tra un santo e un idiota Dean è uno che ha scoperto il segreto del tempo e quindi della vita.
Tempo che diventa sinonimo di ritmo. Un tempo che ha vari livelli di espressione. Quello esistenziale, frenetico, della vita di Jack e dei suoi amici. Sempre sballottati da un posto ad un altro, desiderosi di fare quante più esperienze possibili, conoscere quante più persone possibili (meglio se ragazze, meglio ancora se pazzi). Ragazzi che si buttano nell’America fagocitandola attraverso la loro brama di vivere. Poi un tempo artistico, diviso tra scrittura e musica. Quello fluido, vitale, inarrestabile della prosa di Keruoac, quello sincopato, a scatti, scatenato, proprio del bop e del suo inventore, Charlie Parker.
E in questo turbinio di situazioni sempre diverse si cerca sulla strada un qualcosa che sembra essere introvabile nella stabilità di qualsiasi esistenza organizzata e già preconfezionata. Perché, sia ben chiaro, l’importante non è arrivare da qualche parte, ma solamente andare. L’importante è non rimanere mai fermi, non lasciarsi intrappolare, spingere il piede sull’accelleratore e continuare ad affondare nella notte stellata d’America.
E in questo Dean è il maestro indiscusso, anche se più piccolo di Jack e di tutta la loro compagnia è quello con maggiori esperienze di vita. E’ dunque lui la guida, il modello, il capo da seguire. E’ lui che con il suo demone spinge la vita verso quella purezza che anche Jack cerca in ogni modo di afferrare. Accanto a loro gli altri del gruppo, su tutti William Burroughs e Allen Ginsberg che poi insieme a Kerouac formeranno il nucleo artistico-letterario della Beat Generation.
Il primo viaggio verso Frisco, passando per Denver, avviene solamente tramite passaggi e autostop. In questo Kerouac si ricollega con gli ambienti dei vagabondi degli anni venti e trenta, con l’anima popolare dell’America, quando il Paese era attraversato da folle di straccioni e disoccupati che si fermavano in qualsiasi posto dove ci fosse un po’ di lavoro, per poi allontanarsi subito dopo verso altri luoghi. Kerouac sarà il ponte tra quella generazione (quella degli hobos, dei vagabondi) e quella a lui successiva dei figli dei fiori, che continueranno sulla strada indicata dai padri della Beat Generation.
I viaggi successivi seguono sempre la direttrice East Coast – San Francisco, gli Stati Uniti vengono attraversati nella loro orizzontalità (una cosa impossibile da capire qui in Italia, dove invece è l’elemento verticale a caratterizzarci geograficamente e il binomio est-ovest è sostituito da quello sud-nord), spazi immensi in cui correre con la macchina (Dean è un pazzo al volante), il succedersi dei nomi (sempre letterari, sempre fantastici) di tutte le cittadine, le montagne, le valli che Kerouac e i suoi amici attraversano.
Solo nell’ultimo capitolo si cambierà direzione e ci si spingerà verso Sud, verso il Messico, forse in uno dei momenti narrativi più efficaci dell’intero libro (e anche l’ultimo scritto in ordine cronologico). Nel vortice di vita tra ragazze messicane, erba e mambo scatenato Kerouac attraversa il Messico fino alla sua capitale, entrando in contatto con gente e luoghi che per lui hanno ancora di più il sapore dell’esotico e dell’avventura (non dimentichiamo che Jack London fu uno dei padri spirituali dello stesso Kerouac, con il suo spirito d’avventura e la sua grande voglia di viaggiare).
Le droghe usate (e neanche tante) sono l’erba e la benzedrina oltre a smodate quantità di alcol. L’unico ad usare morfina è Burroughs che sulle droghe compierà vasti studi e che saranno per lui fonte perenne di ispirazione (si pensi a La scimmia sulla schiena e Il pasto nudo). La musica, come dicevamo, è il jazz, in tutte le sue forme (il bop è il più amato) ed è la colonna sonora (quando la radio funziona) dei viaggi dei nostri protagonisti.
Quello che ancora stupisce di un libro come On the road, oltre alla disarmante freschezza e contemporaneità della scrittura di Keruoac, è quanto l’anima di questo uomo, attraverso le parole, arrivi direttamente a noi. Quello che traspare è questo irrefrenabile istinto a vivere, vivere la vita in ogni sua manifestazione ed espressione. Lontano ancora dal buddismo e dalle elaborazione mistiche e religiose degli anni seguenti, qui Kerouac&Company sono nella loro fase di scoperta del mondo. Un mondo che non smette mai di stupirli o affascinarli, un mondo che è raggiungibile in ogni sua diramazione o estensione. Basta avere la voglia di andare e il gioco è fatto.
Questo ancora riesce ad emozionarmi e a farmi amare Kerouac come non mai.
Il suo desiderio, la sua voglia.
Quella magia che solo la strada conosce e che solo la strada può regalarci.
Quella magia di cui sono fatti i paesaggi notturni, la linea bianca che scorre accanto alle ruote, le chiacchiere e i silenzi dentro la macchina, la musica che ti incita d andare e andare e andare.
Di questa santità laica e autentica quanto il cuore che batte in ognuno che possa avere vent’anni ci rimangono delle bellissime immagini.