Se oggi attrezzare con accessori e ammennicoli vari un’automobile, specialmente quelli vistosi e sostanzialmente inutili, o elaborare sportivamente povere utilitarie di classe A e B, per non dire poi delle ambulanti discoteche su quattro ruote stunz pum stunz pum I’ve got the power tutte lumi azzurrini, che toccano l’apice dell’esagerazione in modelli come la Citroen Alien C2 VTR SQ plus con decorazioni gothic dark sci-fi degne di Giger (l’ideatore di Alien, per intenderci, e il creatore di mitiche copertine come quella di “Brain salad surgery” degli Emerson, Lake & Palmer), provvista di un impianto stereo composto di 11 amplificatori capaci di pompare 15.780 watt, 20 speakers e 8 subwoofers (il che, se non per morire sul colpo guidando, suppongo venga proposto per lasciare la macchina nel bel mezzo di una radura per rave all’aria aperta…)… Costo 108.000 euro! Praticamente il costo di una Ferrari 360 Modena o di una Maserati… De gustibus…
Dicevo… Se oggi attrezzare con accessori e ammenicoli vari un’automobile può essere considerata una faccenda di pessimo gusto, negli anni ’70 dotare la propia auto dei più svariati, a volte inutili accessori, era un fatto del tutto normale, assai comune. Non dimentichiamoci, del resto, che le automobili, a parte i modelli dei segmenti più alti e lussuosi, erano tutto sommato spartane perfino rispetto alle più piccole ed economiche utilitarie di oggi. Allora vetri elettrici, servofreno, doppio circuito frenante, servosterzo, chiusura centralizzata, aria condizionata, tetto apribile, accensione o iniezione elettronica, poggiatesta, cinture, vernici metallizzate (poche, solitamente tre come grigio argento, ruggine e il famoso blu pervinca) eccetera erano dotazioni più o meno disponibili solo su modelli di un certo prestigio o vendute come optionals con sovrapprezzi consistenti. Faceva effetto vedere la lista abbreviata degli accessori di serie su listini e schede di Quattroruote con sigle tipo ae, sf, ss, dcf, ac, ie, ta (o ta stava per trasmissione automatica? Non ricordo…) Più lunga era la fila, più quelle auto erano grandi oggetti di desiderio.
Alcuni accessori sono stati completamente tipici degli ultimi anni ’60 e dei primi ’70. Per esempio il tetto in vinile. Allora piacevano le macchine bicolore col tetto ricoperto da un film di cloruro di polivinile (il PVC insomma). Normalmente era nero, ma poteva essere anche di altri colori, come il blu o il bianco (quest’ultimo più adatto per le bianche Limo americane, le Limousines insomma). Il tetto in vinile non aveva nessuna utilità, salvo quella di soddisfare il senso estetico di alcuni. Faceva un po’ l’effetto della capote di una decapottabile. Era solitamente abbinato ad auto straniere di medio-alta categoria, dalla Citroen GS e CX alla Ford Taunus o Grenada, dalla Triumph Dolomite alla Rover TC2000.
Altro must anni ’70 del tutto scomparso insieme a quegli anni, i mitici sedili in sky. Nonostante il bello di cotanto nome (“sky”, si sa, vuol dire “cielo”), si trattava di una terrificante similpelle di plastica, atroce e scottante d’estate. Quindi si ricorreva a foderine rinfrescanti per i sedili come quelle in fresca paglia con le tasche portaoggetti per i passeggeri posteriori.
Ma entriamo più nel vivo… Quelli erano anni in cui si considerava accessorio fondamentale perfino possedere dei rostri di gomma nei paraurti (se non c’erano di serie, si mettevano… e, in effetti, salvavano dalle ammaccature le belle cromature in fase di parcheggi maldestri), figuriamoci possedere i paraspruzzi (certi, posteriormente, pure con il catarinfrangente o la catenella per tenerli un po’ più su e non farli sbattere e perdere su terreni accidentati (il che faceva molto rally), oppure l’antinausea! Ci fu un vero boom di questo accessorio assolutamente inutile, venduto anche nella sezione “accessori per auto” di allora popolarissimi cataloghi di acquisti per corrispondenza come Vestro e Postal Market (vi vendevano di tutto, perfino la novità del lunotto termico, una resistenza di spessi fili rosso-arancio da applicare fai-da-te). L’antinausea così chiamato era una striscia di gomma che toccava terra (le più “belle” erano fatte in forma zigzagante di fulmine). In verità, doveva trattarsi di una sorta di massa per scaricare a terra l’elettricità statica che a volte “zotta” toccando maniglie e portiere. Nonostante questa sua proprietà originaria, venne venduto a volte con proprietà ulteriori di (appunto) antinausea, per allettare una clientela di mariti o padri con passeggeri sofferenti di cinetosi (il mal d’auto).
Per le macchine senza vetri elettrici, veniva prodotto e venduto un alzacristalli da applicare al posto delle manovelle. L’antenna radio era un vero status symbol, elettrica il non plus ultra. Ricordo che più erano lunghe e ostentabili, più erano desiderabili. E le più lunghe venivano ripiegate ad arco tra cofano o baule e tetto, laddove ancora esistevano le grondaiette, vere e proprie canaline per veicolare e scolare l’acqua piovana il più possibile lontano dai vetri lungo i montanti.
Le autoradio sono ancor oggi un accessorio in voga. Ma allora apparvero le prime estraibili. E non si estraeva solo un tascabile frontalino, ma qualcosa di gigantesco da portare solitamente sotto braccio. Non solo sui camion, ma anche sulle autovetture, imperversò la moda del “baracchino” o CB (City band), un apparecchio che permette di trasmettere e ricevere informazioni vocali utilizzando una frequenza radio. E fuori, una seconda ulteriore mega-antenna da esibire. Dello Stereo 8 ho già parlato.
Ogni particolare dell’automobile di serie doveva essere trasformato, migliorato, personalizzato. Si vendevano perfino profili anatomici da applicare e appoggiatesta da infilare (letteralmente) a ben più sfigati sedili, spesso neanche regolabili. Le cinture di sicurezza non erano d’obbligo (era già tanto comprare auto predisposte al montaggio, a due attacchi, roba da ammazzarsi lo stesso, altro che pretensionatore!) Quelle cinture primordiali dovevi regolarle tu a mano, più o meno strette. Dicevo, si usava personalizzare ogni cosa. Molti svitavano il pomello del cambio per avere cloches sportive o a tema (il teschio portava sfiga, ma qualcuno, precursore del dark, lo metteva, mio padre ne mise invece uno rosso con una cupola trasparente tipo palle di neve, con dentro una rosa – come il nome di mia madre – e un ferro di cavallo). Il massimo della personalizzazione era data da ciondoli di ogni tipo, da cuscini sui sedili posteriori o sulla cappelliera, alcuni fatti alla moda dell’epoca, cioè all’uncinetto con imbottitura in gommapiuma e pon pon centrale. O da portacenere in aggiunta, solitamente calamitati e acquistati tra i souvenir di varia origine, inclusi quelli dei santuari (la Chiesa non aveva ancora cambiato posizione rispetto al fumo delle sigarette). Oltre a immagini di turistica appartenenza e provenienza, davano anche la possibilità di infilarvi piccole fotografie formato tessera di amati familiari e riportavano varie massime prudenziali. Un inciso: le vetture degli anni ’70 (le più lussuose possedevano l’accendisigari in dotazione), avevano i posacenere collocati in comode posizioni raggiungibili senza pericolo per la guida, perché fumare era cosa diffusa e ampiamente condivisa (si poteva fumare perfino nei cinema). Oggi, fateci caso, il portacenere è la cosa più scomoda e lontana, piccola e inutile possibile, messa nell’angolo più rintanato e disagevole.
Comunque… Di tutti gli accessori più inutili che fiorivano sulle automobili, ricordo le alette aerodinamiche da mettere sui tergicristalli. Non male anche i catarinfrangenti posteriori laterali in stile luce d’ingombro lunga berlina americana… Ma un conto erano i cinque metri e quaranta della Cadillac Eldorado, un altro la Simca 1000 o la 128. Molto in voga erano anche i paracolpi di gomma (e catarinfrangente sempre, ovunque) da mettere ai bordi delle portiere. Ora che ci penso, certe vetture di lusso furono dotate di luce sulle portiere… Se le aprivi di notte, le altre macchine erano avvisate…
I più sportivi amavano equipaggiare l’auto con un volante sportivo di diametro ridotto tipo Formula 1, meglio se con la corona in legno oppure rivestita con un coprivolante in materiale antiscivolo e assorbisudore. In realtà il coprivolante era un accessorio molto pericoloso, perché l’elastico avrebbe potuto cedere e spostarsi rispeto alla sterzata, facendo l’effetto esattamente contrario. Ma il sudore sul volante e sulle mani era cosa considerata; perciò non era raro vedere qualcuno con i guanti di pelle o scamosciati, quelli appositi, che lasciavano le dita nude. Una nota pubblicità a piena pagina della Blaukpunt li metteva in primo piano: una mano guantata a dita nude (invero faceva un po’senso) infilava una cassetta in una autoradio dentro una potente Bmw. Da veri intenditori!
Io, da bambino, amavo soprattutto la strumentazione di bordo. Già allora appassionato di automobili, precoce lettore di Gente Motori e Quattroruote, passavo molto tempo a disegnare, inventare automobili, scrivendovi poi finte note tecniche e dotazioni illimitate. Ancora oggi ne schizzo a mano libera, specialmente di tipo sintomatico sportivo e corsaiolo nel corso di tediose riunioni di lavoro da cui vorrei fuggire. Già a sei o sette anni ero considerato una sorta di prodigio: conoscevo tutte le marche e tutti i modelli. Mi avvicinavo a tutte le automobili per sbirciare cruscotto e strumentazione dietro il vetro del finestrino: più avevano strumenti, più mi piacevano e le ritenevo gran macchine. E così la pensava la maggior parte degli italiani. Tant’è che allora era consuetudine dotare di strumenti aggiuntivi il cruscotto, cose come contagiri elettronico, manometro e termometro dell’olio, termometro dell’acqua o indicatore di livello carburante (se non presenti, come sulla 500) fino a strumenti allora considerati fondamentali, oggi del tutto abbandonati, come il voltmetro e l’amperometro (la bussola venne dopo, con gli anni ’80). Anche il contachilometri parziale o cosiddetto giornaliero era qualcosa di introvabile o raro nelle produzioni di serie, sicché qualcuno se lo montava separatamente come ulteriore escrescenza sul quadro della strumentazione.
In genere le automobili meglio accessoriate erano quelle straniere, soprattutto quelle francesi. Delle automobili dei nostri cugini d’Oltralpe, facevano effetto le dotazioni obbligate di poggiatesta, cinture, fari gialli allo iodio e lampeggiatori anteriori arancioni.
E fu così che anche in Italia, intorno al 1975, si cominciarono a vedere le frecce anteriori arancione (l’arancione andò di moda, se pensiamo anche alle targhe, la cui provincia da quel momento venne realizzata di questo colore… Perché poi? Mai capito). I proprietari delle auto precedenti questa piccola rivoluzione, che aveva reso obbligatorio tra l’altro anche applicare posteriormente bruttissimi adesivi con il limite massimo di velocità (come sui camion e sui pullman) anche per le vetture, variabile secondo la cilindrata, da un minimo di 80 a un massimo di 130…, ricorsero a ricambi colorati da sostituire. Alcuni però furono presto dichiarati fuori legge e non omologabili, perché per molti modelli il lampeggiatore coincideva con la luce di posizione (come sulla 500). Nel corso degli anni ’70 si cominciò a badare un po’ di più alla sicurezza, ma le norme si facevano e non si facevano, vi fu solo una parvenza di rivoluzione protoeuropea (le cinture sono divenute emblema di ciò: allora si ventilava l’obbligo anche da noi, ma bisognerà arrivare ai tardi anni ’90 per renderlo reale e vigilato). Far luce come si deve, era importante. Due, anche 4 i fendinebbia che si montavano sopra o sotto i paraurti, meglio se della Carello con il coprifaro. Quindi si applicavano i retronebbia, che non venivano messi di serie nelle auto allora prodotte, e gli appositi fanalini di retromarcia che, il più delle volte, per evitare collegamenti complessi all’elettrauto, si accendevano soltanto con apposito interruttore.
Anche lo specchietto retrovisore esterno (solo al lato guidatore) fu reso obbligatorio in quel fatidico 1975. Per adeguare il parco auto precedentemente prodotto e venduto, ogni proprietario dovette comprare e accomodare specchietti di varia foggia. Qualcuno strafece montandone due: uno sulla portiera, vicino al deflettore, l’altro sulla linea del cofano/parafango, così da coprire ogni visuale, angolo cieco incluso. Quelli davvero esperti, gli automobilisti per eccellenza, avevano tutta una loro filosofia di sicurezza sportiva, non solo per vedere tutto il possibile davanti, dietro e di lato, ma anche per farsi vedere al meglio. Preferivano colori accesi e brillanti, come in Germania o in Olanda, dove trionfavano i rossi, i gialli e gli arancioni brillanti (un auto di quei colori si dice sia più visibile di giorno e di notte). E per farsi notare in arrivo e in sorpasso, alcuni adottavano già la tecnica (al tempo obbligatoria in Scandinavia con trent’anni di anticipo rispetto all’Italia), di tenere accese le luci anabbaglianti anche di giorno. E per avere i fari sempre puliti, come sulle Volvo (lassù per ben più concreti problemi di neve), alcuni dotavano i fanali di lavatergifari. Importanti anche le variazioni da apportare ai clacson, con potenti trombe bitonali o politonali, capaci di brevi motivetti musicali.
E a proposito di deflettori… I deflettori erano dei piccoli finestrini triangolari, si aprivano a compasso e permettevano un flusso regolabile di entrata dell’aria in marcia senza abbassare il vetro principale. Scomparvero anch’essi con gli anni ’70 (mai capito perché, vista l’utilità). Per le prime auto senza deflettori venne quindi pensato e venduto un accessorio di nome “Turbo”. Era un’aletta che seguiva il profilo superiore del vetro. Consentiva a suo modo di deviare l’aria al posto del deflettore con un vantaggio in più: quello di proteggere un po’ anche dalla pioggia in caso di finestrino aperto.
Per proteggersi dal sole invece si montavano abbastanza spesso le tendine posteriori. Normalmente erano due pezze quadrate e avvolgibili. Comparvero all’epoca anche le prime alette parasole laterali (indipendenti, come sul restyling della nuova 132, che ne aveva quindi quattro in tutto, due anteriori e due laterali anteriori) e i primi vetri in tinta come sulla DS, azzurrati, verdi o bruniti. Ma niente era così anni ’70 come le fasce adesive brunite, azzurrate o verdine da applicare in alto all’interno del parabrezza, e che fungevano da antisole senza dover subire abbagliamenti improvvisi e senza dover agire sui parasoli con manovre distraenti. Era una bell’impresa però applicarle evitando le bolle d’aria.
Tra neonate autostrade e lunghi viaggi feriali, cambiava a quel tempo anche la filosofia d’accesso e capienza bagagli. Prima esistevano solo auto a 2, a 4 porte o le cosiddette familiari o giardinette, non molto gradite agli italiani amanti della berlina o del coupé, comunque del tre volumi. Quindi, andavano per la maggiore i portapacchi, proprio per ovviare alla poca capienza della gran parte dei bagagliai. Qualcuno aveva anche il cosiddetto maggiolino, una sorta di pesante e antiaerodinamica tenda chiusa a mantice, da mettere sul tetto della macchina. Una volta alzato, vi si poteva comodamente dormire dentro. Fu allora che si videro le prime compatte due volumi, che pure restavano 2 o 4 porte (vedi l’Alfasud o la prima 127 del 1972 ecc.). La prima italiana a dotarsi di terza porta, cioè di comodo portellone senza essere una familiare, fu proprio la 127 del 1973 (è stata la mia prima automobile… Attimo di nostalgia…). Il tre porte divenne una peculiarità tale da divenire perfino sigla di modelli, come nella Fiat 128 3P.
Ad ogni modo, tutti gli italiani partecipavano con passione a questo rito collettivo che voleva rendere le auto più personalizzate, confortevoli e sicure delle frugali versioni progettate e costruite dalla maggior parte delle case automobilistiche.
All’epoca non si faceva molto caso alla sicurezza. Certe auto, in caso di incidente, erano veramente delle trappole mortali, come le Citroen 2CV, Ami o Dyane, per non parlare della Mehari non solo col tetto, ma pure con le porte di tela plastificata e i finestrini laterali di nylon trasparente, la Fiat 126, la Mini e avanti. Anche certe fuoriserie erano poco sicure e a dir poco impegnative perfino nella guida. Mi ricordo la spider Caterham Super Seven dal design retrò, i cui clienti dovevano superare un corso di guida ad alto livello per poterla governare. Che dire poi delle auto vendute in kit di montaggio come la AMT Piranha e le prime scocche in materia plastica come il CRV della Marbon Chemical e la vetroresina. Non per niente gli americani, che alla sicurezza invece ci tenevano, ed era certamente già molto meglio garantita dalle dimensioni colossali mai sotto i 5 metri di lunghezza e i due di larghezza delle loro superpesanti automobili tutto acciaio e paraurti robusti, non importavano auto dal resto del mondo senza richiedere un apposita omologazione con dotazioni particolari (pesanti paraurti maggiorati, luci di posizione laterali etc.). Da qui nascevano versioni apposite per quel mercato come la Fiat 124 spider America o la Fiat 131 Brava. Ma la cosa più curiosa avvenne a metà degli anni ’70. Si cominciò a studiare ogni sorta di inestetico ritrovato per la sicurezza attiva e passiva. Un’auto americana, credo la AC, montava una sorta di barra sul cofano spiovente in grado di attivarsi in caso di investimento pedone, sollevandosi e trattenendolo, letteralmente raccogliendolo sul cofano. In Italia si volle seguire questa tendenza internazionale con una serie di veicoli sperimentali. Gli E.S.V. (Experimental Safety Vehicle) furono prototipi costruiti in seguito ad un concorso bandito dall’NHSB (Ente nazionale per la sicurezza) americano. Si vide, in Italia e in Germania soprattutto, la comparsa di un certo numero di veicoli sperimentali, d’aspetto per lo più grottesco, che rispondevano più a parametri di sicurezza che a canoni estetici, ai principi dell’aerodinamica o al rapporto peso/potenza. Avevano enormi paraurti avvolgenti l’intera autovettura e musi rinforzati da sovrabbondanza di bruttissima plastica nera.
Ad ogni modo, anche oggi esistono accessori “extra” e personalizzanti… Ma quello che davvero faceva la differenza allora, era il fatto di vedere ovunque le auto riccamente extra-dotate di almeno quindici, venti o trenta di tutte queste cose, fino a farci ammirare veri e propri “circhi” su quattro ruote! Se qualcuno al ricordo vorrà stendervi un velo pietoso, raccomando di farlo con un bel telo di nylon impermeabile da parcheggio. Andava molto all’epoca.
Alcune Fiat ESV