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ANNI ’70 – Lo Stereo 8 e la Quadrifonia

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Mio zio Felice aveva una Fiat 127 beige superaccessoriata. Negli anni ’70 si usava superaccessoriare le autovetture, ma questo richiederà un capitolo a sé stante. Felice andava come un matto per le strade extraurbane, curvando, sorpassando ai limiti con le mani strette sulla corona del piccolo volante sportivo della Momo, che allora andava per la maggiore. Nello Stereo 8 suonava Battisti a tutto volume. E si sentiva bene, come mai avevo fino allora sentito della musica. Con un tasto, senza attendere che il nastro si avvolgesse, Felice cambiava pezzo in un attimo. La cosa era per me molto misteriosa.

Lo Stereo 8, anzi 8-track (come fu battezzato dal suo creatore, l’americano Bill Lear) se lo ricordano ormai in pochi. Del resto, visse pochi anni, facendo la prematura e sfortunata fine di molti altri formati nella storia dei supporti di registrazione. Or dunque, lo Stereo 8 era un via di mezzo tra le cassette e le bobine. Le bobine, all’epoca, costituivano il mezzo di miglior qualità per la registrazione e l’ascolto della musica, sebbene la maggior parte dei comuni mortali fosse in possesso più che altro di modesti apparecchi portatili, come quelli della Geloso o della Magnetofoni Castelli. Non erano in molti a potersi veramente permettere dei registratori a bobina hi-fi stereo o multitraccia come gli Studer, i Sony e i Revox (famoso l’A77 con cui Robert Fripp dei King Crimson inventò, collegandoli in serie, l’effetto “Frippertronic”); per averne uno, si parlava già di cifre superiori al milione di lire. Ciò nonostante, la larghezza del nastro magnetico di una bobina era superiore rispetto a quella del nastro contenuto nelle musicassette, e ciò garantiva una registrazione di maggior qualità e, nel caso dei 4 o più tracce, anche registrazioni e ascolti quadrifonici o di maggior durata (un nastro registrato su 4 tracce, per esempio, consentiva di registrare due dischi stereofonici o quattro monofonici in parallelo sullo stesso nastro (bastava regolare la testina su una o sull’altra traccia per l’ascolto desiderato). Nondimeno la quadrifonia fu una invenzione tutta degli anni ’70, spentasi anch’essa nel volgere di pochi anni e nello stesso decennio in cui si cercò di affermarla. u La quadrifonia (in italiano chiamata anche “quadrafonia”), introdotta dapprima negli Usa nel 1970, era un sistema di registrazione e riproduzione del suono a quattro canali totalmente indipendenti, uno dei primi sistemi non professionali di audio multicanale. In riproduzione i quattro canali facevano capo a quattro diffusori posizionati ai quattro angoli dell’ambiente. Una volta sistemati i quattro diffusori ai quattro lati dell’ascoltatore, la cui postazione d’ascolto avrebbe dovuto essere idealmente centrale, l’effetto era quello di un vero e proprio surround del suono. Il design stesso degli apparecchi quadrifonici era futuristico. Ricordo bellissimi compatti quadrifonici della Grundig, con le casse in forma di sfera sostenuti da steli cromati che sembravano ricreare le formazioni a palloncino di Piri, il “Pianeta incantato” di Spazio 1999. I dischi 4D della Cbs venivano prodotti con un quadrifoglio in copertina e l’indicazione SQ Surround Quadraphonic o QS ovvero Quadraphonic Stereo. L’SQ era un sistema quadrifonico a matrice che usava come supporto il disco di vinile, fu introdotto dalla CBS nel 1972 e si basava sul lavoro di Peter Scheiber, che lo aveva ideato nel 1968. Insomma, un disco quadrifonico registrato con il sistema SQ suonava sia come un normale disco stereofonico a due canali, sia come disco quadrifonico con l’uso di un decodificatore SQ. Si provò anche a trasmettere il suono quadrifonico via radio su FM grazie al Matrix H, un sistema a matrice sviluppato dagli ingegneri della BBC per trasmettere programmi radio quadrifonici in modulazione di frequenza. La BBC trasmise programmi di generi diversi, ma gli esperimenti (e in quegli anni più che mai si amava sperimentare) ebbero in questo caso vita assai breve.

Ad ogni modo, la Quadrifonia non conobbe successo. Una delle ragioni era forse l’esistenza di troppi diversi formati e sistemi di codifica quadrifonici che complicavano la scelta dei futuri acquirenti e fruitori. Altro vincolo poteva essere il bisogno di acquistare sistemi di riproduzione di alta qualità, pertanto più costosi. Un altro limite era la scarsa durata dei dischi quadrifonici dovuta all’usura prodotta dallo stilo di lettura, che dopo pochi ascolti rendeva difficilmente leggibili le frequenze codificate nel solco (specialmente quelle ondulate ultrasoniche del CD-4 o Compatible Discrete 4 o Quadradisc, introdotto nel 1971 da Jvc e da RCA, per cui fu inventato il più resistente e costoso “super-disco” o “super-vynil”). Altro formato era il Quad-8 o Quadraphonic 8 track della Rca, un sistema a nastro magnetico simile allo Stereo 8 con due programmi in quadrifonia e avanti, tanto che finirono per esser tutti abbandonati. Forse fu anche una questione di spazi a decretare l’abbandono della quadrifonia a causa dell’ingombro nei salotti dato dalle quattro casse acustiche: le persone comuni preferivano già cose non troppo di impaccio ed il più possibile semplificate e pratiche… Tendenza che porterà infine all’affermarsi dei mini-stereo di oggi con mini-casse. In quei tempi, per altro, possedere un impianto stereo significava avere qualcosa di composito e di complesso per chi non fosse in possesso almeno un po’ di passione tecnica. Al di là del primi compatti, gli Hi-fi erano solitamente formati da elementi separati con diverse funzioni e svariati comandi e collegamenti esterni. Allora si gareggiava a chi deteneva la composizione più bella e interessante, delle marche migliori. Da come mettevi insieme i vari elementi, si ottenevano differenti risultati di ascolto, da intenditore o meno, il più adatto alla classica, al jazz o a un certo tipo di rock, ed era un modo di parlare tra le righe di sé, della propria personalità. Qualcuno poi fotograva quel che aveva faticosamente assemblato e mandava lo scatto e un’accurata descrizione a Stereoplay, rivista allora indispensabile, sperando di vedersela pubblicata. Ci provai anch’io, pur non possedendo che il compatto di casa. Tentai però di fare il colpo con un fotomontaggio su cui avevo lavorato minuziosamente per giorni, divenendo matto a ritagliare dagli annuari di Suono ed altre pubblicazioni specializzate, a stagliare e incollare il più credibilmente possibile sulla foto del salotto i tre bracci di un colossale piatto Thorens 226, preamplificatore e finale a valvole McIntosh, casse elettrostatiche Stax imponenti come il monòlito di “2001 Odissea nello spazio”, l’equalizzatore Sae a 31 bande e il riduttore di fruscio DBX, il Revox 8 piste a bobine e un deck a cassette Yamaha a forma di prisma… Poi rifotografai il collage con l’obiettivo adatto. L’esito era stato piuttosto buono, potevano cascarci. Però non fu pubblicata. Quindi, ne non se l’erano bevuta.

Ma torniamo agli Stereo 8. I più rispettosi registratori a bobina ad alta qualità erano decisamente oggetti lussuosi. Erano anche abbastanza difficili da manovrare, sistemare le bobine richiedeva tempo e pazienza. Il sistema più pratico, più economico e meno ingombrante, che pure avesse le stesse caratteristiche di alta fedeltà delle bobine, sia per casa, sia per l’automobile, fu proprio lo Stereo 8. Erano anni d’avvento per la stereofonia, per quanto già da tempo creata e commercializzata. La stessa radio la si era ascoltata fino allora su bande come onde corte, onde lunghe e modulazione d’ampiezza (AM), che erano monofoniche, e solo in quegli anni cominciarono a trasmettere le prime radio libere in modulazione di frequenza (FM), la quale poteva consentire la trasmissione e la ricezione in stereofonia. Lo Stereo 8, grazie alle sue trasportabili cartucce di plastica delle dimensioni di poco inferiori a quelle di un attuale videocassetta, fu il primo apparecchio a portare in auto la stereofonia. Oltre a sentirsi benissimo, il nastro delle Stereo 8 (una monobobina senza lato A e lato B conosciuta come “il nastro che non finisce mai” in quanto era in “loop” con l’inizio attaccato alla fine, svolgendosi dal centro e automaticamente recuperato dall’esterno ), essendo particolarmente largo, consentiva di fatto registrazioni su 8 tracce (da qui il nome di 8 track), dando la possibilità di scelta dei canali. Per ascoltare la traccia desiderata bastava spostare la testina in su o in giù. Sullo stesso punto del nastro si poteva quindi ascoltare quattro diverse canzoni stereofoniche, secondo l’altezza in cui si posizionava la testina. Un’altra peculiarità delle cartucce stereo 8 era la possibilità di saltare un pezzo per andare subitaneamente a quelli prescelti successivi (cosa che riconsentirà soltanto il cd). Ciò era consentito da una giunzione metallica tra una traccia e l’altra e da un elettromagnete che spostava la testina al programma successivo posto su un altro livello di tracce. Questo meccanismo tuttavia, basandosi su una lettura divisa in quattro programmi paralleli, poneva limiti di lunghezza lineare del nastro (della durata al massimo di 15 minuti). Le cose andavano piuttosto male quando si voleva ascoltare certi dischi di musica progressive ed elettronica… Era infatti quella l’epoca in cui si affermarono i primi brani di lunghezza superiore ai canonici 3 o 4 minuti, per arrivare a occupare intere facciate di un disco (Tangerine Dream, Mike Oldfield, Pink Floyd, Yes…). In quel caso si doveva sopportare la discontinuità del brano, iniziato magari sulla prima traccia per riprendere e finire sulla seconda dopo una fastidiosa interruzione. Ad ogni modo, lo stereo 8 ebbe il suo boom nella prima metà dei Settanta, per poi scomparire sotto i colpi inferti dalla cassetta stereo ben più compatta. Lo Stereo 8 necessitava di un apposito lettore per auto o per casa. I lettori casalinghi erano di vario genere e il non plus ultra fu il lettore Telex 48D con caricatore fino a 12 cartucce stereo 8, il che consentiva l’ascolto ininterrotto di 16 ore di musica. Data la complessità della sua meccanica, era facilmente soggetto a guasti, ma era uno spettacolo già solo a vedersi.

Negli anni intorno alla metà dei Settanta tutti gli artisti producevano il proprio disco in 3 formati: Long playing a 33 giri, cassetta e Stereo 8.


Gli anni ’70 furono una decade di grande interesse popolare (e non solo professionale) intorno al miglioramento della qualità di registrazione e di ascolto della musica. Tutti, bene o male, appassionati o meno, si aveva un’idea dell’importanza e del significato dell’alta fedeltà. Che dire, oggi? L’mp3 (che per sua natura di compressione dei dati, può causare un deterioramento della qualità del suono), l’assenza crescente nelle case di impianti stereofonici, sostituiti dal computer con diffusori di scarsa qualità, i portatili e i mini-stereo con mini-casse sempre più economici (e scadenti), il dilagare stesso di produzioni a basso costo (home-made, come si dice) di una crescente selva di autoproduzioni indipendenti, hanno oggi visto l’affermarsi del cosiddetto “Lo-fi” (Low-fi, bassa fedeltà) perfino come genere musicale e corrente più ampia di costume e filosofia. Se ogni storia è fatta di corsi e ricorsi, di flussi e riflussi, io spero che il ritorno all’Hi-fi (ed al bisogno di qualità tutta in generale) possa presto tornare ed essere ora dietro l’angolo.

DALLA MONOFONIA ALL’OLOFONIA

In principio fu l’ascolto monofonico o monoaurale: un solo altoparlante o una sola auricolare bastavano all’ascolto della musica incisa o della radio. Con più di un diffusore negli anni ’30 ci si accorse che l’ascolto migliorava, divenendo più realistico, pur restando monofonico. Le orchestre non uscivano più da un solo buco (il cono dell’altoparlante) di pochi centimetri, ma alla giusta distanza il suono si combinava espandendosi, aumentando il fronte sonoro, così da sembrare diffuso da una intera parete della stanza. Ebbe inizio così l’alta fedeltà (hi-fi, ovvero high fidelity). Sul finire degli anni Cinquanta, vennero commercializzati i primi apparecchi e dischi in stereofonia, una tecnica di registrazione e riproduzione dei suoni su due canali, destro e sinistro, attraverso il quale l’ascoltatore riceve un effetto spaziale del suono riprodotto, più simile a quello naturale, come viene cioè percepito dalle due orecchie. Prima dell’era dei mixer e dei registratori multitraccia, la stereofonia era data dalla registrazione differenziata dei due canali con microfoni posti in posizioni differenti per riprendere il suono da angolazioni e distanze diverse. E alla stereofonia ci si è in fondo fermati, pur con le raffinatezze odierne in fase di mixaggio che consentono al banco di regia la regolazione dei vari livelli di intensità sonora e il cosiddetto pan-pot che sposta più o meno a destra o sinistra i suoni, perciò creando il senso di profondità e avvolgimento in fase di ascolto. Ma si è trattato di un arresto commerciale, non certo sperimentale, costituendo la stereofonia il miglior compromesso per ascoltare bene la musica senza riempirsi la casa di casse acustiche spendendo di conseguenza cifre assurde. Oggi viene tutt’al più usato il sistema del surround (o dolby surround system), o altra effettistica 3D, grazie alla quale si diffonde la stereofonia su tre, quattro, cinque diffusori acustici creando comunque effetti molto realistici e apprezzati soprattutto nelle sale cinematografiche. C’è stato solo un breve periodo negli anni ‘70 in cui venne tentata la quadrifonia (o Q-sound o 4D): quattro canali differenziati di registrazione e ascolto. Più recentemente si è provato a fare esperimenti di ottofonia, facendo suonare 4 cd contemporaneamente sincronizzati dal computer, quindi 8 canali diversi e 8 vie acustiche. Ad ogni modo le ricerche per espandere l’area d’ascolto e il senso di profondità, non si sono mai fermate. Specialmente all’IRCAM (il prestigioso istituto parigino per le ricerche acustiche e musicali) sono state sperimentate diverse avveniristiche tecniche di avvolgimento sonoro, tanto in registrazione/riproduzione quanto in esecuzioni dal vivo. E non solo nel rock o nella musica elettronica (come dimenticare i concerti dei Pink Floyd con gli enormi diffusori tutt’intorno all’ovale degli stadi), ma anche nel mondo della musica classica contemporanea. Vent’anni fa assistetti a un indimenticabile concerto di Pierre Boulez per orchestra ed elettronica: l’orchestra era divisa tra cinque palchi, uno centrale, gli altri quattro ad ogni lato, e ovunque in senso circolare erano disposti diffusori acustici per gli interventi elettronici e computerizzati. L’impressione fu quella di muoversi quasi volando incessantemente dentro l’orchestra, da un suono all’altro, da uno strumento all’altro.

Un altro centro d’avanguardia nella ricerca acustica è quello della Wright Patterson Air Force a Dayton, Ohio (USA), dove si trova una sfera geodesica del raggio di 5 metri, composta da 277 altoparlanti e situata in una camera anecoica. Lo scopo degli esperimenti che vi si svolgono è quello di far percepire un’immagine sonora virtuale, sincronizzando in maniera appropriata gli altoparlanti, a chi si trovi al centro della sfera. Qui l’ascoltatore localizza le immagini sonore al punto da percepirne perfino una precisa estensione e forma spaziale, come un punto, un uovo o un pallone sonoro. Una forma di suono che può spostarsi ovunque fino all’interno della sua testa pur senza l’uso di cuffie.

Ma il massimo risultato che si potesse ottenere in economia di costi e di spazi è stato già raggiunto con l’olofonia (dal greco “holos”, tutto, e “phoné”, suono, voce), un’invenzione tutta italiana. L’olofono è stato infatti inventato e brevettato nel 1983 dal produttore discografico Umberto Maggi, già bassista del gruppo musicale dei Nomadi al tempo della prima formazione con Augusto Daolio. Si tratta di un sistema di registrazione ambientale effettuato attraverso una testa artificiale detta appunto “olofono”.

In questa testa di manichino, ricoperta di un materiale assorbente simile a pelle umana, nelle orecchie al posto dei timpani, sono posizionati due microfoni ad alta sensibilità. Il suono viene quindi registrato su un registratore DAT (digitale) sui due soliti canali stereofonici, ma in riproduzione il suono risulterà non soltanto circolare, ma totalmente avvolgente, esattamente come percepiamo i suoni in natura (destro, sinistro, davanti, dietro, sopra, sotto, vicino-lontano quasi da credere, per esempio, che il suono di una pallina di carta lanciata cada per terra dietro di noi in un punto preciso a un metro o due metri, che un paio di forbici ci stiano davvero tagliando i capelli tutt’intorno la testa o, ancora, che la voce di qualcuno si avvicini a noi passando dalle nostre spalle fino all’orecchio, facendosi un sussurro così intimo che sembra di sentire perfino il calore dell’alito). In sostanza l’olofono simula le dinamiche d’ascolto dell’orecchio umano. Ascoltando il segnale d’uscita attraverso una buona cuffia chiusa si ha quindi una sensazione quasi identica a quella che si ha ascoltando direttamente con la propria testa. L’unico limite della olofonia è che può essere percepita con il solo ascolto in cuffia, ma qualunque impianto hi-fi e qualunque cuffia normalmente stereo possono regalare questa emozione.

I Pink Floyd fecero per primi uso dell’olofonia nell’album “The final cut”, 1983, l’ultimo con Roger Waters. Sfrecciano motori, si accende una radio e sembra di essere realmente sul posto. Anche Michael Jackson utilizzò in “Bad” alcuni effetti olofonici. Altri artisti del calibro di Peter Gabriel e l’ex “Yes” Jon Anderson se ne sono interessati, e nella musica classica Herbert von Karajan e il compositore Luigi Nono . Nonostante siano passati vent’anni dall’invenzione, l’olofonia non è stata tuttavia utilizzata se non che a livello amatoriale, sperimentale o di registrazione di effettistica. Infatti uno dei suoi limiti è che la testa artificiale può essere impiegata in registrazioni dal vivo, in cosiddetta presa diretta, in quanto le registrazioni in studio di musica si compiono solitamente uno strumento alla volta e gli strumenti elettrificati passano direttamente dall’amplificatore agli effetti al banco di regia e al registratore, quindi senza uso di microfoni olofonici o meno). Secondo Maggi l’olofonia potrebbe avere un futuro migliore in campo medico e in musicoterapia, potendo rivoluzionare i test audiometrici oppure, potenziando il funzionamento di alcune aree cerebrali, avere effetti distensivi e antistress, contro l’insonnia o per predisporre all’ipnosi. E’ stata sperimentata una olopoltrona collegata a un computer che, in base al profilo psicologico, seleziona i suoni olofonici più adatti, trasmettendone una parte anche in forma di vibrazioni al corpo.

I 277 altoparlanti indipendenti della sfera geodesica di Wright Patterson, Air Force – Dayton, Ohio (USA)

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