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Labilità – Domenico Starnone

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Io sono Nicola Gamurra – ovvero lo Starnone mitopoietico

 

Citando Flaubert, io sono Nicola Gamurra. Citando Rimbaud, Starnone è sempre stato un altro in gran parte dei suoi libri, anche in Via Gemito, pure tanto autobiografico. Domenico Starnone ha sempre operato una scrittura ordinata e affabulatoria, un tono che accoglie in casa con una tazza di tè e qualche biscotto, anche quando ha in mente di raccontarci la follia, struggente, distruttiva, di suo padre Federico. Non perché gli manchino i mezzi per una scrittura disordinata, viscerale, pasoliniana, come direbbe lui. Piuttosto per rispetto, in onore della Letteratura vera, quella con la elle maiuscola di cui questo scrittore si nutre e si è nutrito sin dall’infanzia, o forse no, forse l’infanzia erano Annabella, Martin Eden e Marjorie Morningstar, appresi – leggo in Labilità – assimilati, in modo attivo, emozionale, narrativo. E’ stato dopo, allora, che sono arrivati (o meglio che gli sono arrivati davvero) Flaubert, Rimbaud, Dostoevskij, Nabokov, Calvino e gli altri, verso l’adolescenza, più o meno. Credo che Starnone abbia appunto adottato per tutta la vita una scrittura calviniana, ordinata, tranne questa volta, tranne in Labilità (che i critici si affannano a ricordare non è un refuso di l’abilità, per l’amor di dio, ma una scelta di ambiguità letteraria), romanzo adulto in cui Starnone diviene a tratti la sua personale, labile, Madame Bovary, per poi ritornare a essere lo scrittore di sempre, cioè un altro; altro, per lo meno, dall’identificazione totale col protagonista. Io credo che già questo alternarsi tra Rimbaud e Flaubert, Pasolini e Calvino faccia di tale precisa, contingente scrittura una scrittura del tutto starnoniana. Naturale sbocco della ricerca di una vita, certamente, ma comunque molto differente dal resto della sua produzione, Labilità è il nuovo bivio raggiunto e oltrepassato da Starnone, un ulteriore punto di svolta della sua potente scrittura.

 

Prima di cominciare – Starnone docet

Prima di tutto, Starnone consiglia di evitare gli avverbi, perché sono cacofonici e spesso inutili. Per rispetto al suo insegnamento, allora, cercherò di utilizzarli il meno possibile, almeno quelli che terminano in mente, perché vedo che di altro tipo ne ho già adoperati parecchi. Secondo, Starnone consiglia di non usufruire di più di un aggettivo – tre aggettivi, come mi piacevano quand’ero ragazzo, dice infatti in Labilità, ma non più dopo, nella scrittura matura e consapevole –. E consiglia di non usarli non per un’avversione personale covata di giorno in giorno nei confronti dell’attributo in sé, ma perché l’aggettivo, la qualità di un dato soggetto, il suo proprio epiteto – e non un altro – deve venir fuori da ciò scrivi, ricorda Starnone, dal resto del testo, da come organizzi la frase, dal tono, non solo dalle qualifiche con cui lo incarti perché renda di più, perché sia più bello. La scrittura non deve essere bella, ma intimamente sofferta, altrimenti si riduce a una mera calligrafia, un esercizio di bella scrittura. Lo stesso esercizio in cui ci si affannava nel corso delle scuole elementari. Se senti un disperato bisogno di aggettivi per specificare un personaggio vuol dire che non sei stato chiaro, che non sei stato abbastanza scrittore. Del resto lo stesso Gamurra, nemesi dell’io-Starnone, nell’apoteosi del guasto dell’io narrante (in quel momento Madame Bovary), promette che il suo prossimo libro sarà un libro senza aggettivi. Aggettivi che, invece, Starnone centellina perché ama, e in quanto li ama non vuole abusarne. Inoltre, ancora Starnone, evitare di usare molto, troppo, abbastanza e quant’altro. Per lo stesso motivo di sopra: cioè perché un vero scrittore deve possedere la facoltà di intendere il molto il troppo l’abbastanza con un aggettivo solo, e non arrabattandosi nella ricerca raffazzonata di accrescitivi e diminuitivi sparsi qua e là a dare sostegno a un testo vuoto, debole, privo di forza. Infine, per scendere nel particolare, in un buon testo non dovrebbero trovarsi neanche troppi punti interrogativi o esclamativi, e soprattutto puntini di sospensione. Perché la sospensione devi darla col tono, col fiato letterario, non con queste interiezioni da circo.

Ora, possiamo cominciare, fermo restando che è tutta la vita che cerco di seguire tutti i consigli di Starnone, e che in tutto ci sarò riuscita, al massimo, una volta sola, in un raccontino di dodici righe. Oppure mai.

 

L’io scrivente – Antonella Gamurra

Dicevo, io sono Nicola Gamurra durante il corso intero di Labilità, e anche molto prima e molto dopo. Io sono Nicola Gamurra però più buono e meno arrabbiato, perché non direi mai a Starnone “togliti di mezzo, coglione”. Mai. Neppure se alla prima presentazione del mio primo libro di successo lui si frapponesse tra me e i fotografi. Io sono Nicola Gamurra però senza la Brienza, né Alvaro né Jovine. Io sono Antonella Gamurra, facciamo così. E, mio malgrado, sono Antonella Gamurra con la Puglia, un poco di Roma, e tutti i libri che ho letto.

 

Parte prima – l’odore della scrittura

Invidia. Terribile disastrosa invidia. Invidia da mettersi a guardare dallo spioncino l’oggetto – o il soggetto – della tua invidia mentre ti flagelli con un cinto appuntito e ti lesioni la pelle del braccio in più in punti. Invidia. Terribile disastrosa invidia. Invidia mitologica, da essere non-umano. Invidia pre-suicidio. La prima volta che vidi Starnone mi misi lì, concentrata, e lo invidiai. Sperando che mi vedesse. Che sentisse cosa mi stava facendo. Che il suo sorriso chiaro compiaciuto puro (tre aggettivi!) si increspasse. Che uno solo dei suoi occhi limpidi venisse colpito da un attimo di alterigia, che la pupilla scura si contraesse di un millimetro, come centrata accecata dalla mia bile soffocante. Invece no, lui rimaneva sorridente. Un uomo felice, sereno, nella sua erre moscia arrotata, nei suoi baffi metà bianchi metà neri, non grigi, proprio a metà, non brizzolati, che se li conti io scommetto sono al 50 % neri e al 50% bianchi, sono sicura, nella sua andatura serena tutta d’un pezzo, nel suo abbigliamento neutro, quasi invisibile, da chi se ne infischia di colpire. Lui non aveva niente da dimostrare. Lui era. Aveva già dimostrato tutto. Avevo letto Denti. Avevo visto anche il film omonimo di Salvatores, uscito nelle sale nel 2000, nel quale Sergio Rubini interpreta l’io-Starnone. Gli guardai subito gli incisivi. In effetti, erano grossi, sporgenti. Lo sono ancora, credo. Nessun segno di ricostruzione, però, almeno a quanto ho potuto vedere. Nessuno gli aveva tirato un posacenere dritto nell’arcata dentaria. Non riesco a immaginare nemmeno che Starnone-mito si innamori veramente di una donna (infatti di Nadia Zanò, pseudo-amante dell’io-Starnone in Labilità, mica si è innamorato, gli serviva; e per quanto riguarda Clara, la moglie dell’io-Starnone, per la quale il protagonista nutre un affetto quasi materno, e che in fin dei conti non riesce – e non vuole, abbandonare, il discorso è molto più complicato – molto, oh no! –, comunque ne parleremo più avanti), figuriamoci se ho successo nel figurarmelo mentre para la parabola discendente di un posacenere di vetro coi denti. Avevo visto La guerra degli Antò (1999), un’ora e trent’otto, regia di Riccardo Milani, sottofondo musicale ideologico dei CCP, sceneggiatura di Starnone, Milani e Petraglia. Tutti i miei amici dicevano che era bellissimo. La prima volta che l’ho visto, mi sono addormentata più o meno al decimo minuto, il tempo di assistere alla scena in cui gli Antò, ancor prima di partire per Bologna, ancora paesani, quasi-pescaresi, sbarcano a casa delle amiche borghesi e tra l’altro pisciano sul letto dei genitori che li sorprendono in piena evacuazione. Mi sono addormentata solo perché avevo sonno, non perché quello degli Antò fosse un brutto film. La guerra degli Antò parla del fenomeno punk anni Novanta. Prima ancora che io finissi di invidiarlo con tutto il corpo nel teatro buio e polveroso ma tanto romantico che una scuola romana aveva adibito ad aula per il nostro corso di scrittura, me lo ritrovai davanti che mi chiedeva Tu dici che io ne La guerra degli Antò ho analizzato in maniera errata il fenomeno punk?

Io ero la studentessa di Starnone. O meglio, io ero una dei trenta studenti di uno dei corsi di scrittura che Domenico Starnone ha tenuto nella sua foltissima carriera. Costantemente in piedi – o appena poggiato su una piccola cattedra, o seduto sul palco, in modo da vederci meglio – Starnone, uomo grande, alto, che da piccolo gli avranno detto che ragazzone!, uomo ridente, sano, affabulante, dicevo, con quel suo tono grave e un po’ vanesio di chi finge di dimenticare ciò che sta per dire ma in realtà sta cercando – e la troverà, sempre! – la parola esatta, quella parola precisa per dire quel concetto preciso; Starnone, dicevo, in pantaloni e camicia e cardigan con i suoi antichi meravigliosi libercoli libri libroni stretti con vero amore tra le mani ossute; Starnone, l’uomo di Ex Cattedra, Solo Se interrogato, Segni d’oro, Denti, Eccesso di zelo, Via Gemito, Labilità e tanto altro, l’uomo della rubrica sulla scuola dal titolo Ex Cattedra (da cui il libro omonimo, “il mio primo libro, – dice lo scrittore di Labilità – un diario che raccontava di scuola del 1985-86″, e i film La Scuola e Auguri, Professore[i]) tenuta per anni su “Il Manifesto”, rubrica satirica (Starnone ha scritto anche per “Tango”, “Cuore” e per “Il Corriere della Sera”) che ha entusiasmato buona parte degli italiani, tra cui suo malgrado anche mio padre, il quale tra l’altro è lo stesso anno di Starnone (1943), insegna anche lui e ritiene di scrivere molto meglio dello scrittore di Labilità (!); Starnone, Premio Strega 2001, l’uomo per il quale l’umorismo è “la socializzazione del malumore”; Starnone, dicevo, il giornalista, lo sceneggiatore, lo scrittore, il letterato, l’uomo di cultura, è colui che nelle pause-pranzo mangiava un panino con la mortadella. Un panino letterario?, mi chiederete. Non credo. Proprio un panino come tutti noi.

Starnone, oltre a mangiare panini, è anche colui che mi ha insegnato a scrivere. Mi ha insegnato, per esempio, che quando si scrive un dialogo bisogna tener conto dell’anima della persona che sta parlando, altrimenti sei sempre e solo tu che parli, mai i tuoi personaggi. Starnone mi ha insegnato che ad ogni modo in un pezzo di narrativa è meglio non inserire troppo dialogo, altrimenti è preferibile scrivere un pezzo teatrale, la narrativa è per lo più narrata, lo dice la parola stessa. Starnone mi ha insegnato a scrivere un racconto di dodici righe – adducendo a “falsa riga” del nostro esercizio quello perfetto, compiuto, romanzesco per quanto era forte, anche nella sua brevità, di Cechov – e in quel racconto di dodici righe a metterci tutto il pathos di un vero romanzo. All’inizio del corso era impazzito con queste dodici righe. Non faceva che assegnarci questi racconti brevissimi – dodici righe romantiche, dodici righe introspettive, dodici righe fantastiche. Lui, tonante, in quelle interminabilmente (avverbio in mente!) interessanti otto ore al mese di corso, con tono affabulatorio, dicevo, profetico, ci spiegava che il terzo racconto de Le cosmicomiche di Calvino, Un segno nello spazio parlava del segno letterario, non di fantascienza, e ci faceva rileggere tutto il racconto daccapo sostituendo la parola “primo libro” a segno. In effetti, il conto tornava. Quel racconto raccontava proprio la pena di un Calvino umano alla prese con il confronto di tutta la sua opera successiva con quel suo primo romanzo, l’inarrivabile eterno Il sentiero dei nidi di ragno, scritto nel ’47, che nel bene o nel male era e sarebbe rimasto per sempre il metro di giudizio di tutta la sua produzione successiva. Ancora Lui, occhiali sul naso, mocassini ai piedi, si infervorava in una lezione terribilmente sublime – proprio così, terribilmente – sulla scrittura calviniana e quella pasoliniana. Io sarei una pasoliniana, viscerale, furtiva, ribelle, se fossi una vera scrittrice. Comunque, ci metto le viscere, veramente, nei racconti. A volte sporcano, quasi sempre mi ammazzo. Nel mentre che scrivo. Starnone invece è un calviniano. Lattanziano starebbe malissimo, da pronunciare, come termine. È per questo che non diventerò mai famosa. E anche perché quando scrivo fumo miliardi di sigarette. Se guadagnerò mai un centesimo con i miei scritti, finiranno tutti in tabacco. In fumo. Però sarebbe una cosa romantica. Nella lezione di letteratura comparata su Calvino e Pasolini, Starnone mi insegnò non solo tutto quello che avrei dovuto imparare a scuola, e non avevo imparato, ma molto di più, molto più in profondità, lo stesso sentimento letterario di Calvino e Pasolini, la loro etica di vita, la poetica, la letteratura che, a sostegno delle loro vite, si faceva scrittura viva, vissuta, quotidiana. Narrandoci aneddoti conditi e resi più interessanti, più umani, dal suo tono caldo e quasi silenziato, ma pieno, mediamente gracchiante come di chi abbia fumato troppe sigarette – ma penso non abbia mai fumato, per me è stata più la sfrenata dichiarazione della parola tanto scritta quanto orale che gli ha consumato le corde vocali –, Starnone ci raccontò l’omicidio Pasolini e il profondo rapporto che legava questi due grandi della letteratura tra loro. Ci disse che in fin dei conti non si poteva dire chi fosse il più bravo fra i due, perché si erano entrambi ritrovati in un momento storico-letterario nel quale era impossibile continuare la forma stilistica del romanzo ottocentesco, e che entrambi – da geni quali erano – avevano reagito in modo diverso alla medesima urgenza. Pasolini distruggendo e colpendo, appunto, con Petrolio, commistione di saggio e romanzo, personale a tratti scabroso, osceno, denuncia politica ideologica e anti-mafiosa e disquisizione letteraria; e Calvino rifiutando, d’impatto, con Se una notte d’inverno un viaggiatore, di completare i suoi dieci incipit letterari. Per protesta. Per rifiuto. Per letteratura. Anche se poi, in Calvino, il ricordo di un romanzo compiuto permaneva anche in quest’ultima opera – come dire – auto-dissociativa, opera di un io più che sdoppiato e appunto volutamente labile, quasi come Labilità di Starnone. Non voglio raccontarvi oltre, non posso dire tutte le cose che mi ha insegnato Starnone. Io ho pagato il corso. Voi no. Io l’ho visto parlare. Voi no. Invidiatemi ameno un poco. Vi prego. Quando il corso finì, temevo di scoppiare in lacrime. Gli dissi voglio fare un altro corso con te, tienimi con te ti prego. Mi disse che non aveva più niente da insegnarmi. Mi sarebbe piaciuto. Davvero. Che lui non avesse più niente da insegnarmi. Vuol dire che ho seguito i tuoi corsi per un millennio e non lo so?. Sorrise. Col suo sorriso superiore. E non perché si sentisse superiore. Perché lo era. Uno lo è o non lo è. Disse No quello che vi potevo dire ve l’ho detto, la letteratura più di così non ve la posso insegnare, ora sta a voi. Non piansi. Non perchè non ci fosse da piangere. Non piansi perché meditavo sogghignando di seguirlo per il mondo, ovunque fosse andato. Alla fine non lo feci. Però dopo molti anni sono qui a scrivere di lui. Del resto non mentiva: lui, l’insegnamento, lo ama. È una cosa per la quale si sente naturalmente portato (in un’intervista è lo stesso scrittore a dire, cito a memoria: “Da ragazzo, volevo fare lo scrittore, ma poi ho scoperto che insegnare era molto più interessante che scrivere”). A proposito della scuola, di Ex Cattedra e soprattutto dell’insegnamento, infatti, ancora oggi Starnone si esprime così:

 

Questo libro per me è una teca. Conserva e insieme espone le reliquie di un lavoro lungo, quello che ho fatto nelle aule per una trentina di anni, quello che ho fatto scrivendo, sia per il gusto di raccontare, sia per amore della scuola pubblica. Non si tratta di stinchi di santo dal profumo che ritempra. Ma per me è stato un tirocinio importante e una parte fondamentale della mia esperienza.[ii]

 

Durante le pause del corso, come dicevo, Starnone mangiava un panino che si era portato da casa. Non prendeva il caffè. Non fumava. Se ne stava al sole con quella sua erre moscia e un ricordo molto lontano di un accento napoletano. Tutti gli stavano intorno. Io odio quando uno si umilia a tal punto. Tutti a fargli la corte, a strappargli un sorriso. Io no. Non mi avvicinavo nemmeno. Non perché non volessi strappargli un sorriso. Non andavo per farmi desiderare da lui. Pregavo ogni notte che un giorno lui mi avrebbe cercato per dirmi che brava scrittrice che sono. Studiavo da far paura, di continuo. Leggevo e scrivevo. Scrivevo e leggevo. Ero pazza. Sono rimasta una pazza. Non è che io mi sentissi realmente una brava scrittrice. Però mi impegnavo con tutto il corpo e la mente e i muscoli e le cellule – quelle stesse cellule che Burroughs vede soffocate dalla possessione dell’eroina e che io vedevo e vedo dedicate, completamente consacrate alla missione, alla vocazione della scrittura (un po’ come Starnone in Labilità?) –. Mi impegnavo perché lui dicesse almeno una volta che ero brava. E poi perché sono orgogliosa. Orgogliosa fino allo spasimo. E poi perché una sola volta gli ho fatto una domanda ed è stata questa, testuali parole: ora che finalmente ho la possibilità di fare una domanda a uno scrittore del quale ho letto un libro, libro che mi è piaciuto moltissimo – e mi riferisco a Via Gemito

Mi fermo un attimo, prima di continuare: non era vero che Via Gemito mi fosse piaciuto moltissimo, al tempo non avevo neanche finito di leggerlo, lo avevo prestato a una mia amica napoletana solo perché era di Napoli, non perché fosse bello, e lei non me lo aveva più reso, tanto che per terminarne la lettura ho dovuto ricomprarlo, ma ben venga. Non mi era parso bellissimo, perfetto, dicevo, ma non era nemmeno vero che era brutto, io non lo so com’era quel libro per me in quel dato momento, il fatto è che al tempo leggevo solo Starnone, ma in realtà non leggevo niente. Tanto mi affascinava quella figura di lui, da vivo, lui in carne e ossa ed erre moscia e sorriso e celata napoletanità messa lì, davanti a me, giorno dopo giorno, anzi fine-settimana dopo fine-settimana, che non riuscivo a capire niente di ciò che leggevo. Leggevo e mi figuravo il suo accento non-napoletano, la sua erre moscia, i suoi baffi sopra le labbra, i denti sporgenti (cercate di non costruire rime incidentali nei racconti, diceva, sono moleste, ed era vero, come tutto il resto). Leggevo, vi dico, e mi figuravo Starnone, in piedi di fronte alla classe, a leggermi se stesso, a dirmi cosa fosse giusto e cosa sbagliato scrivere, sempre con questo libercolo in mano, il libro che stavo leggendo io, e di conseguenza non riuscivo a immergermi nella storia, mai. Quando dico libercolo mi riferisco a una caratteristica di Starnone, il quale a lezione reggeva sempre edizioni antichissime dei libri di cui parlava nelle sue mani nodose, e in tutta onestà non so perché fossero puntualmente edizioni così vecchie, ma di certo si potevano dire vissute, non sgualcite. Io le adoravo, queste edizioni, avrei voluto scollarmi dalla sedia raggiungerlo sporgermi sopra quei libri con le mani all’indietro, per non cascare sulle pagine antiche, e odorarle, inalarne l’antico sapore. E scommetto che ci avrei ritrovato lo stesso odore di scrittura che c’è nello studio di casa Starnone in Labilità, libro del quale vorrei parlare, e parlerò, però datemi ancora un attimo, l’odore di scrittura al quale la moglie Clara non crede, che Clara non vede, l’odore della scrittura buona e di quella cattiva, della stessa malmagia da cui viene come folgorato il protagonista di Denti, una malmagia simile a quella della Ferrante ne L’amore molesto, con quale fra l’altro condivide l’imperfetto del sogno (anche se non intendo assolutamente impelagarmi nella per me futile disquisizione sulla presunta coincidenza tra Starnone e Ferrante, a me non interessa, io leggo ciò che è bello, e basta, come dice la Ferrante è la scrittura, non l’autore). Una malmagia tutta napoletana. Eppure Starnone non sembra un napoletano. Dice evitate le frasi troppo lunghe. Perché poi il lettore vi perde. Ecco, io ho appena scritto un periodo lunghissimo. Starnone è stato professore per tanto tempo. In Basilicata. In un paesino. Avrei voluto essere una sua alunna. Lo giuro, non me lo sarei lasciato scappare. Avrei fatto in modo che si convincesse che io ero una grande scrittrice, fosse vero o falso non sarebbe stato importante, in quel momento. Lo avrei costretto a farmi diventare una vera scrittrice. A tirare fuori il meglio di me, per lo meno – come ha fatto durante il corso che ho frequentato, nel quale di certo mi ha insegnato a scrivere –. Avrei fatto in modo che mi ritenesse tanto brava da continuare ad ascoltare i miei racconti per sempre. Ritta di fronte a lui, insomma, ritta di fronte a quell’uomo-mito-montagna sudando come una matta nel corso del corso di scrittura tenuto da Starnone, io, rossissima in volto e balbettando, ho letto racconti su racconti che lui ha ascoltato (i miei, come quelli di tutti gli altri), con la stessa attenzione che avrebbe prestato, anzi regalato, a un pezzo di Calvino. In questo era un professore; con le sue parole:

 

Qualcuno ha detto che  mentre imparare si può, insegnare non si può. È un mestiere duro e difficile, portato avanti con difficoltà e dedizione da un buon trenta per cento del personale docente del nostro paese. Cui bisogna aggiungere un altro buon trenta per cento fatto di persone meno capaci, ma sicuramente assai volenterose. È su queste persone che si basa il sistema educativo di questo paese. Persone sole che non vengono assolutamente appoggiate né dallo Stato, né dalla gente.[iii]

 

Quella volta di cui dicevo prima in cui alla fine mi sono decisa a parlargli, l’ho raggiunto durante la pausa-pranzo. Ero con la mia amica Alessandra Macrì, piccola e magra tanto che sembrava avere quindici anni e invece ne aveva ventisette e una figlia. L’ho raggiunto, insomma, e gli ho detto, parole testuali: Mi scusi, dato che insomma lei è un vero scrittore e io per la prima volta mi trovo davanti al qual scrittore e posso dargli del tu (ma mi veniva così difficile dargli del tu, davvero, io non avrei mai voluto nemmeno sfiorarlo, per conservare quell’aurea da mito; io, parlandogli, avrei preferito guardare da un’altra parte, o starlo solo ad ascoltare tanto era mitologico, mitopoietico, una leggenda che ispira leggenda), posso farle infine una domanda in relazione al libro di cui sopra (e tentavo di tenere un tono il più aulico possibile, pure sudando, e battendomi, il cuore, così forte che ero sicura mi sarebbe schizzato dal petto non troppo prosperoso sino alla luna, e ritorno) Via Gemito, dicevo, visto che come dicevo è la prima volta che…

Dimmi, Antonella.

Mi interruppe arrotando la erre pure dove non c’era. Sapeva il mio nome. Era un miracolo. Lo sapeva e lo sa pure adesso, e anche se alle mie mille mail estremamente logorroiche e prolisse ha risposto raramente, e spesso con un laconico sono in montagna, o simili, anche se quando lo chiamo non risponde mai, e anche se ci siamo incontrati solo una volta, al di fuori del corso, per parlare di un libro che avevo pubblicato, anche se io lo osanno e lui manco si ricorda chi sono; pure, quel nome, il mio, lo sapeva e lo sa. È un miracolo.

Certo che puoi, Antonella, mi disse con quella voce calda non-napoletana eppure così – distante ipnoticamente distante, e meno male che era distante, perché così non caddi a terra morta, e meno male che rimaneva sempre un professore, e mai un maestro, come ho detto non lo avrei mai neanche sfiorato, mi faceva letteralmente ribrezzo il pensiero di sfiorarlo, tipo i baci che gli altri alunni gli davano sulle due guance (tutte e due, dico io, ma che fate!?), tipo i baci degli altri alunni che io non davo e non avrei mai dato, in realtà perchè era peccato mortale toccare il dio, e per nessun altro motivo. Il misto di orrore e fascino che si prova per la divinità, di cui parlava De Martino, io l’ho provato davvero. Per ben due anni. Starnone sceglieva di non essere un maestro di letteratura e di vita, sceglieva ogni volta di rimanere al di sopra, distante, inumano, sceglieva di non mescolarsi con il tuo dolore personale, la tua rabbia, la tua ricerca spasmodica di letteratura, ma non era cattiveria. Sceglieva di non aiutarti, di non educarti oltre, di non spronarti, di non esserti vicino, come invece faceva e fa un’altra grande scrittrice, Francesca Mazzucato, della quale parlerò un’altra volta e che vedo come Camus vedeva Jean Grenier: “la fortuna di trovare un maestro”. E ancora di più.

No, Starnone è un uomo-mito, molto al di là del tuo sudore di scrittore, lo stesso sudore che sente lui nella sua stanza della scrittura e che cestina – il sudore, la puzza del tuo sudore – nel manoscritto di Gamurra. Io non lo biasimo, però, perché credo questa sia una caratteristica del suo essere scrittore, come invece per Francesca Mazzucato è il continuo mettersi al servizio della letteratura, l’educarti, nel bene e nel male, e non solo questo, ma anche un incessante pasoliniano leggere e scrivere a quattro palmenti con sanguinaria scorrevolezza. Non so se mi spiego. Si tratta di differenti modi di sentire la letteratura dentro la pelle, anzi sottopelle, viaggiare – come scrive Starnone – tra i tuoi tendini e le venature superficiali. Tanto che puoi vederla, in entrambi gli scrittori, affiorare e poi nascondersi, prendere il fiato e tornare all’interno, a confondersi col sangue e le cellule, a fare, a creare, la materia stessa di cui siamo fatti.

Certo che puoi, Starnone mi aveva detto che potevo fargli una domanda. Ma in realtà, cosa volevo chiedergli?

Mi scusi, ricominciai, scusami allora (tu e lei, razionalità contro emozione, bramata – e insieme respinta – familiarità contro rispetto reverenziale) volevo chiedere dato che tu sei lo scrittore di questo bellissimo li – inghiotto saliva – bro (libro che non avevo letto, ricordo, ma lui naturalmente non poteva saperlo) allora dato che mi ti ci trovo dinnanzi (davvero ho detto così), e chissà se mai più nella vita uno scrittore vivo come te (insistevo con questo vivo, e intanto sudavo, e poi c’era molto sole negli occhi e quasi quasi mi addormentavo) – mi sa dire lei insomma tu scrittore vivo, mi può dire se (inghiotto un altro litro di saliva) se sei veramente nato a Napoli?

Sì.

Brava Antonella – mi dissi mentre evaporavo in un alone di sudore rischiando di disidratarmi al suolo – brava veramente da applausi davvero una vera scrittrice è qui che si vede brava che domandone davvero che domandone un domandone fantastico ora sì che avrà capito che sei una vera scrittrice davvero lo avrà capito non c’è dubbio l’avrebbe capito chiunque ti presenterà in prima persona alla Einaudi Stile Libero per lacutezza, labilità, davvero, lostile, laproprietàdilinguaggio, larguzia, lintelligenza.

Sì.

Rispose lui.

Non gli parlai mai più. O almeno non di mia iniziativa. Poi, però, mi parlò lui. Ma questa è un’altra storia.



[i] I film La Scuola (di Daniele Luchetti) e Auguri, Professore (di Riccardo Dilani) sono in realtà tratti dalla totalità dei libri di argomentazione scolastica scritti da Starnone: Ex Cattedra (Il Manifesto 1985, Universale Economica Feltrinelli 1989), Fuori registro (Universale Economica Feltrinelli 1991), Sottobanco (Edizioni e/o, 1992), Solo se interrogato. Appunti sulla maleducazione di un insegnante volenteroso (1995). 

[ii] Comunicato stampa Feltrinelli Editore a proposito di Ex Cattedra e altre storie di scuola (Feltrinelli 2006), ri-edizione di Ex Cattedra (Il Manifesto 1985, Universale Economica Feltrinelli 1989).

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