Suonati da fonografi monofonici, fonovaligie o “mangiadischi” (quest’ultimo era un nome ad un un programma puntualmente rispettato dal prodotto, per i danni che quella scatoletta da subito riusciva a produrre), i dischi duravano quel che potevano durare. Solcati da bracci pesanti, spesso manovrati con mano pesante, e da puntine monofoniche, magari di quelle doppie per 33 e 45 giri da una parte, e per 16 e 78 dall’altra, magari dimenticate nella posizione sbagliata, presto si rigavano, la polvere catturata dall’elettricità statica si fissava alle impronte grasse dei polpastrelli incuranti di mani inesperte, e i poveretti cominciavano a crepitare, poi anche a saltare e a gracchiare sempre più. Cercavamo di ripulirli con l’alcol denaturato e un panno ma, nella maggior parte dei casi, c’era ormai ben poco da fare. Nella seconda metà degli anni ’70 qualche miracolo restauratore poté un certo apparecchio, costosissimo, la Kmal record cleaning machine. A Torino c’era un noto e grande negozio di Hi-fi dove, per 2000 lire (mi pare), sottoponevano i dischi a quel trattamento. Io vi portai quelli straconsumati dei Pink Floyd e, in effetti, per un po’ li riascoltai meglio.
Quando i dischi saltavano, qualcuno spostava maldestramente il braccio causando nuove righe, altri, come imparai a fare io, premevano con delicatezza verso il basso per aumentare il peso della testina, aiutando così la puntina a superare il solco incantato senza traumi al disco e all’ascolto.
Tra tutti, duravano un po’ di più i vecchi microsolchi di grammatura superiore (ne ho ancora uno dei Kinks, il primo, 1964, Pye records, o Trans Europe Express dei Kraftwerk, Capitol 1977, così spessi da sorprendermi ancora oggi per l’ottimo stato di conservazione del vinile e la qualità del suono). Meglio i 45 giri, che duravano un po’ più di ascolti prima dell’avvento dell’altà fedeltà. Ma dipendeva poi molto dallo spessore dell’acetato di vinile, dalla larghezza o meno dei microsolchi… Non per niente, verso la fine, i 33 giri suonavano meno bene: perché l’ampiezza dei solchi si faceva più stretta. Ad ogni buon conto, anche tra i 45 giri, vi erano quelli di minore o di superiore qualità: per es., gli E.P. (extended play), che all’epoca giravano a 33 giri mantenendo il diametro di 7 pollici dei 45, o i dischi tascabili. Dal 1965, la RiFi lanciò dei dischi di diametro inferiore (da 18 a 15 cm), chiamando la serie “I dischi tascabili PoP”, venduti a metà prezzo (400 lire contro 800) insieme ai 7 magnifici vantaggi di PoP decantati in copertina (il disco dell’avvenire, è tascabile, presenta solo successi, costa la metà, è tecnicamente il meglio, gli interpreti sono bravissimi e famosi, è un vero disco, in + nell’interno troverete una rivista a colori: la rivista giovane del disco giovane!). E quel + segno invece che parola, com’era antesignano delle abbreviazioni da sms dello scrivere d’oggi!. Insomma, una buona idea che, si dice fu subito boicottata dalle altre case discografiche, le quali miravano anzi ad aumentare sempre più i prezzi; però, che io mi ricordi, non si sentivano bene come gli altri ed erano più delicati proprio per quella questione di spessore inferiore e dei solchi di larghezza ridotta.
Nonostante la già grande vulnerabilità dei dischi normali, a partire dalla metà degli anni ’50 prese a diffondersi il “flexi-disc” (i primi furono inglesi e giravano a 78 giri). Conobbero il boom tra gli anni ’60 e gli anni ’70. Il Flexi-disc era nondimeno noto coi nomi di “Soundsheets” o “Flexis”. Si trattava di un formato ormai del tutto din disuso (gli ultimi sono stati realizzati negli anni ’80), ma l’occasionalità del prodotto e la sua fragilità innata lo hanno reso oggetto ideale di collezionismo.
Il flexi-disc era dunque un sottile foglio di vinile inciso come un disco, solitamente soltanto da un lato, ed era morbido al punto da poter essere piegato e perfino arrotolato (da qui il suo nome). Concepiti come dischi promozionali ed usa-e-getta da allegare alle riviste, la loro esistenza era veramente breve a causa del peso dei bracci e delle puntine dei giradischi d’epoca, sicché pochi ascolti erano sufficienti a storcere il flexi e a rovinarne i solchi. Il Flexi divenne di moda con l’uscita di pubblicazioni del fan club dei Beatles e dei Flexis natalizi, oggi ricercatissimi.
I Flexis vennero ampiamente utilizzati come strumenti promozionali in regalo allegati alle riviste. Riviste come NME e Melody Maker attiravano il maggior numero possibile di acquirenti mettendo in copertina il richiamo di Flexis contenenti tracce promo ma anche inedite o estratti di brani dei maggiori artisti (ne possiedo uno di David Bowie per la promozione di “David Live” del 1974, in cui uno speaker annuncia una carrellata di estratti di 30 secondi l’uno dei successi da Space Oddity alla novità di allora di Knock on wood). Il flexi non era tuttavia considerato un oggetto prestigioso, così che riviste rivali preferirono utilizzare il classico singolo a 45 giri 7 pollici, in “duro vinile”. Ricordo che il flexi-disc veniva anche utilizzato come strumento documentale: l’Espresso ne produsse una collezione allegata al giornale e contenente le voci storiche della politica italiana dalla nascita della Repubblica (era il 1981). Nel 1979, il National Geographic aveva allegato un flexi-disc con il canto melodioso delle megattere (e fu credo il flexi-disc più prodotto di tutti i tempi, in 10.500.000 copie). I flexi disc erano poi ulteriormente attraenti, specialmente per noi bambini, perché spesso colorati vivacemente o illustrati (picture disc), come quelli con le canzoni di Walt Disney, i cui personaggi riprodotti, Cip e Ciop, Paperino, Paperone, Topolino, Pippo, Pluto etc., disegnati in successione di immagini, si animavano come nel pantografo del precinema, quello che Goldoni ribattezzò “Mondo niovo” (niovo, non nuovo). Bastava fissare dall’alto un punto del disco, ed ecco Topolino suonare una grancassa o Paperon De’ Paperoni saltare di gioia sui suoi mucchi di monete d’oro (ahimè, quelli se li è presi mia sorella, con tanto di valigetta di plastica rossa, come se ne usavano al tempo per portarsi dietro i 45 giri preferiti). Produrre e acquistare i flexi-disc costava meno rispetto al disco convenzionale (infatti andarono per la maggiore nell’est europeo) e non era raro che certi esordi promozionali avvenissero attraverso quei dischi. Capitò a diverse band del punk e del post-punk, sdegnati dalle multinazionali del disco a loro volta schifate dai punk (salvo quella che poi divenne “la grande truffa del rock’n’roll con i Sex Pistols) di esordire con il flexi (mi pare anche i Joy Division). Dagli anni 90 in poi il CD ha usurpato al Flexi ogni ragione di esistere ancora. Il cd è più economico del vinile e degli stessi già economici flexi, è teoricamente indistruttibile e irreperibile, ed è di maggior durata (80 minuti di ottima qualità contro 10 al massimo di pessima qualità).
La stessa tecnologia che stava alla base del flexi servì a produrre cartoline musicali o parlanti (“postcard records”). I dischi-cartolina permettevano quindi di unire, all’immagine di un luogo, l’ascolto di suoni, voci o musiche di una vacanza, di un luogo, di un periodo dell’anno (molte erano natalizie). A Londra c’era persino la possibilità di inciderle direttamente in qualche negozio con la propria voce. Molto di moda in Inghilterra e nell’Europa dell’est, anche l’Italia ebbe le proprie e, talune, furono vendute con la dicitura di “cartolina che canta” (bellissima quella della Fonoscope con Pulcinella che suona la chitarra, mare di Napoli e il Vesuvio sullo sfondo, con inciso un tradizionale partenopeo interpretato da Teddy Reno). Ogni città poteva avere la propria musica ideale: un andante di Vivaldi per Venezia, M alagueña a Madrid, un fandango in Argentina, il Choro typico di Villa Lobos in Città del Messico o un frammento di Scherezade di Rimsky-Korsakov sulla cartolina del Taj Mahal. Di queste cartoline ne girarono ancora nei primi ’70 (l’iperprolifico Frank Zappa addirittura ne fece diverse!). Poi scomparvero del tutto! Ah, che mancanza! Riaverne! Oggi mi rendo più che mai conto di un fatto: allora non pensavo di dover conservare cose che un domani sarebbero del tutto scomparse e che avrei di conseguenza ricordato e rimpianto; ma anche se volessi rimediare d’ora in avanti, più consapevole, a questa leggerezza del vivere senza mai nulla trattenere (a meno che non sia quella saggia e ascetica del viaggiatore di Rabindranath Tagore), con l’avvento delle cartoline musicali, animate o parlanti virtuali su Internet, la sostanza stessa dell’oggetto collezionabile si è fatta ormai inesorabilmente ineffabile.
Consiglio di visitare questo sito, The internet museum of flexi/cardboard/oddities, dove potrete anche salvare e ascoltare le tracce di molte cartoline musicali d’epoca: http://www.wfmu.org/MACrec/