Non so se ho letto tutti i romanzi che ha scritto Marco Salvador, quel che è certo è che quelli che sono passati per le mie mani sono tanti e il fatto che il loro numero sia di tutto rilievo è sintomo del fatto che mi sono piaciuti. E’ vero, tranne in un caso o due, che si tratta di romanzi storici, genere letterario a me particolarmente gradito, ma resta il fatto che mi sono sempre trovato di fronte a opere confezionate con rigore storico e abilità letteraria, alla base di trame che a definire avvincenti può apparire riduttivo. Dal ciclo dei Longobardi, che mi ha fatto conoscere questa popolazione germanica molto di più delle striminzite notizie dell’insegnamento scolastico, passando per i romanzi sui da Romano, capaci di mostrare una realtà storica che va ben oltre la fama del capostipite Ezzelino, e infine per giungere alla vicenda della transgender Rolandina, che non è scritta per richiamare istinti morbosi, ma per descrivere con pietà la triste vicenda di un diverso, il percorso letterario di Marco Salvador è una progressione di trame, sempre basate su fatti veri e rigorosamente documentati.
Posso solo ipotizzare che Una saga veneziana sia frutto di ricerche approfondite effettuate a Venezia per conoscere un po’ l’origine della famiglia dell’autore; infatti, nel libro si parla di un Salvatore, mercante fiorentino, che si rifugia a Venezia nel primi decenni del XIV secolo, e darà vita a una famiglia (una vera e propria dinastia) di commercianti e di armatori. In tempi piuttosto rapidi ci sarà l’arricchimento di questa famiglia, il cui cognome, per adattamento al dialetto veneziano, che era la lingua della Serenissima, diventerà Salvador. Questo ceppo conoscerà le alterne fortune della vita, ma diventerà un riferimento nella Repubblica, imparentandosi con le maggiori famiglie patrizie. Gli anni, anzi i secoli passano, con un numero di personaggi che si affacciano sulla scena e che poi scompaiono, uomini e donne non scevri da difetti, ma con pregi che li caratterizzano e che soprattutto si traducono nella difesa del buon nome della famiglia. Troviamo, mercanti, ma anche armatori, uno addirittura ammiraglio dell’Arsenale, perfino un console a Palermo, tutti discendenti da quel Salvatore che trovò a Venezia una seconda patria, dopo la sua fuga da Firenze per motivi oscuri che diventeranno chiari alla sua morte.
La mano dell’autore, come al solito, è felice, nel senso che non trascende mai, mantenendo un tono moderatamente distaccato, tanto più apprezzabile in questa circostanza, visto che parla dei suoi avi. Certo Salvatore, Marco, Daniele, tanto per citare solo alcuni degli antenati, non hanno la fama di altri personaggi dei romanzi di Salvador, come Guido da Romano, o Rotari il longobardo, ma hanno una loro forza, un loro vigore, che è quello di una borghesia che reclama il suo posto dell’assetto sociale; a loro modo sono anche degli eroi, che non conquistano territori, ma ruoli sempre più di rilievo in una società come quella della Repubblica in cui avevano voce quasi esclusivamente i nobili.
Ho accennato prima al rigore con cui l’autore ha condotto le ricerche storiche, rigore che è testimoniato dai Regesti di una famiglia cittadinesca veneziana tra il XIV e il XVI secolo riportati al termine dell’opera e che hanno costituito la base della stessa.
Il romanzo è indubbiamente interessante e pertanto meritevole di lettura, spiace solo che ci si fermi al XVI secolo, tanto che viene da chiedersi: e dopo?
Chissà che Salvador abbia pensato anche a questo dopo e questo è il mio augurio, ma anche la richiesta che rivolgo all’autore.
Marco Salvador vive in un paesino della pianura friulana, nella stessa antica casa dov’è nato. Dopo un giovanile esordio letterario, si è dedicato soprattutto allo studio delle comunità rurali friulane nel medioevo pubblicando numerosi saggi. Solo all’inizio di questo millennio è tornato alla narrativa con la pubblicazione quasi in contemporanea di due romanzi: uno ambientato nel mondo longobardo (Piemme) e l’altro in un’odierna casa di riposo (Fernandel). È stato il suo modo di affrontare due problemi ancora attualissimi: la complessità di ogni transizione tra due epoche storiche e la condizione degli anziani in difficoltà. Entrambi hanno avuto un ottimo successo di critica e pubblico e “Il longobardo” ha vinto il premio Citta di Cuneo per il Primo Romanzo (ex aequo con “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan) ed è stato tradotto in varie lingue. A questi sono seguiti altri sei romanzi con Piemme, due con Fernandel e uno con Biblioteca dell’Immagine. Inoltre: “Lettera a Lucilla” per il Dipartimento di Storia Culture Civiltà dell’Università di Bologna (2007) e “Lapis Lydius” per il Museo Archeologico Nazionale di Napoli, Volturnia Edizioni (2018). Nel 2013 è entrato nel novero di chi ha ricevuto il prestigioso premio Riccardo Francovich per la divulgazione storica istituito dalla SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani) e patrocinato dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali, assieme ad Alessandro Barbero, Pupi Avati, Franco Cardini, Piero Angela e Chiara Frugoni.
Nasce a Mantova l’8 maggio 1947. Laureato in economia e commercio, dopo aver lavorato per lungo tempo presso un’azienda di credito ora è in pensione e vive con la moglie Svitlana a Borgo Virgilio (MN). Ha vinto con la poesia Senza tempo il premio Alois Braga edizione 2006 e con il racconto I silenzi sospesi il Concorso Les Nouvelles edizione 2006. Sue poesie e racconti sono pubblicati sulle riviste Carmina, Isola Nera, Prospektiva e Writers Magazine Italia, oltre a essere presenti in antologie collettive e in e-book. Ha pubblicato le sillogi poetiche Canti celtici (Il Foglio, 2007) e Il cerchio infinito (Il Foglio, 2008).
E’ il dominus del sito culturale Arteinsieme (www.arteinsieme.net)
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