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La scimmia sulla schiena – Confessioni di un drogato non pentito

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william burroughs

prima pubblicazione 1953

BUR – Biblioteca Universale Rizzoli (1998)

pp. 250

brossura

introduzione di Fernanda Pivano

traduzione di Bruno Oddera

 

 

“Per quanto riguarda la mia personale, e assai scarsa esperienza, ciò che mi par di sapere intorno al fenomeno della droga, è il seguente dato di fatto: la droga è sempre un surrogato. E precisamente un surrogato della cultura. Detta così la cosa è certo troppo lineare, semplice e anche generica. Ma le complicazioni realizzanti vengono quando si esaminano le cose da vicino. A un livello medio – riguardante ‘tanti’ – la droga viene a riempire un vuoto causato appunto dal desiderio di morte e che è dunque un vuoto di cultura. Dunque noi oggi viviamo in un periodo storico in cui lo ‘spazio’ (o ‘vuoto’) per la droga è enormemente aumentato. E perchè? Perchè la cultura in senso antropologico, ‘totale’, in Italia è andata distrutta. Quindi i suoi valori e i suoi modelli tradizionali (uso qui questa parola nel senso migliore) o non contano più o cominciano a non contare più. […] Si tratta, insisto, della perdita dei valori di una intera cultura: valori che però non sono stati sostituiti da quelli di una nuova cultura (a meno che non ci si debba ‘adattare’, come del resto sarebbe tragicamente corretto, a considerare una ‘cultura’ il consumismo).”[i]

 

A differenza di Antonin Artaud – per il quale la droga è uno strumento di iniziazione – o di Baudelaire – che in un certo modo si serve della droga per esaltare l’Arte nel suo corpo e nella sua mente, come se la droga altro non fosse che un evidenziatore o un ordigno esplosivo mediante il quale far brillare alcuni aspetti del sé già presenti in nuce in tale essere umano, ma fino ad allora nascosti –, al contrario di tanti proseliti dell’alcol – sostanza adoperata da quelli della generazione di Burroughs stesso per auto-annullarsi, per chiamarsi fuori da una società conformista e perbenista; al contrario di tutti quelli prima di lui, l’utilizzo di droghe concepito da William Burroughs coincide, nell’America del secondo dopoguerra, con una forma di tossicodipendenza tutta nuova, l’attuale metodo di consumo degli stupefacenti.

Nonostante anche questo scrittore racconti infatti le implicazioni psicologiche e mentali del consumo di droga, le derivazioni soggettive di tale abuso, e quindi in qualche modo si ricolleghi ai suoi esimi colleghi, pure, William Burroughs, anarchico della tossicodipendenza e dell’arte, scrive in Junkie qualcosa di estremamente innovativo, che si spinge oltre quella che è una predisposizione, una propensione dei giovani americani del suo tempo, impiantando qui i primi nuclei, erigendo le prime fondamenta di un modo di vivere personale, nuovo, che è allo stesso tempo un’abitudine, una mania, un’assuefazione all’auto-stordimento e un’intima quanto consapevole ricerca letteraria e culturale, l’enucleazione e insieme lo sbocco arcaico, originale, del proprio esclusivo fenomeno letterario e poetico. Il quale, dopo Junkie, abbandonerà per sempre il tono raziocinante e documentaristico-scientifico (tranne che per alcuni saggi medici e per certe disquisizioni culturali), per sfociare in un uso della lettura e delle immagini tanto libertario caotico individualista allucinogeno quanto valente capace e valoroso, contenutisticamente difficile, brillantemente osceno ma pur sempre artistico, definitivamente letterario.

Come del resto sottolineato anche da Fernanda Pivano[ii], Vito Amoruso[iii] e Gèrard Georges Lemaire[iv], i “critici della Beat Generation“, è interessante scoprire come la scrittura di Burroughs e il suo utilizzzo della droga siano un fenomeno di costume, un fenomeno sociale, culturale, politico, qualcosa come un uso sociologico dell’assuefazione alla sostanza (comune a una parte dei giovani americani di tale periodo e a tutti gli esponenti della Beat Generation), un impiego che esprime il momento storico contingente, un tempo storico di perdita – di se stessi e dei valori umani – di disorientamento totale, di rifiuto, di disgusto.

Un periodo in cui i giovani americani erravano ubriachi e sconvolti per le strade cattive dello zio Sam, soli, disorientati, mistici e anarchici, isolati, esclusi, respinti, emarginati, per diritto dovere scelta o incapacità totale di trovare un altro sfogo, un diverso sbocco alla situazione coeva. La Pivano in particolare afferma che la tossicomania di Burroughs, “anziano” della Beat Generation, sia una tossicomania morale, espressa di volta in volta nella violenza, nel teppismo, in un sentimento totalmente a-politico, in un approccio nichilistico alla vita e alla società, quando nella politica non si poteva proprio più credere (come oggi?).

I giovani della Beat Generation usano il jazz, la droga, il sesso praticato come promiscuità morale e fisica, la velocità, l’anarchia, l’iniziazione in senso lato, il misticismo, la telepatia, le religioni atipiche, quali il buddismo e l’animismo. Tutto questo non è altro che una ricerca viscerale inconsulta sfrenatamente dolorosa di un’identità perduta nei meandri della guerra, in un’America – un mondo – perbenista che cuce le bocche, imbavaglia le menti, inquina contamina la libertà delle idee e delle persone.

E’ utile in merito citare la definizione di beat data da Jack Kerouac in un’intervista:

 

“Entrai un pomeriggio (nel 1954) nella chiesa della mia fanciullezza, S. Giovanna D’Arco a Lowell nel Massachusetts, e improvvisamente con le lacrime agli occhi ebbi la visione di quello che dovevo realmente intendere per ‘beat’ allorchè percepivo nel silenzio santo della chiesa (ero solo lì dentro, erano le 5 del pomeriggio, i cani abbaiavano fuori, i ragazzi gridavano, le foglie cadevano, le candele sfarfallavano per me), la visione della parola Beat che doveva significare beatifico.[v]

 

William Burroughs, molto più anziano di tutti i giovani beat, e in qualche modo guida spirituale e letteraria del loro modo di vivere, pensare e scrivere, lui stesso completamente beat, ma anche surrealista, realista, impressionista, esistenzialista, lui stesso completamente beat, ma molto più, molto più a fondo, molto più in alto del beat stesso, abbracciava tutti questi comportamenti, tutte queste idee ma, non accontentandosi, decideva di scrivere più in là, ancora oltre.

 

Nato il 5 febbraio 1914 a St. Louis, nel Missouri, e morto il 2 agosto 1997, William Burroughs, figlio di un’alta borghesia ricca e agiata ma insieme del tutto sorda alle richieste d’aiuto che il piccolo Bill vociava silenziosamente sin dall’infanzia, si trasferì a 28 anni (nel ‘42) a New York dove, prima intraprendendo la carriera di ricettatore per un gusto, come dire, scientifico, da ricercatore sul campo e insieme da antropologo, cominciò un anno dopo a fare uso di morfina. Come per caso, come per vedere che succede. Tossicodipendente per ben dodici anni, amante e saltuario praticante della droga per tutta la vita, Burroughs è il padre, il precursore della Beat Generation, colui che ha insegnato ad Allen Ginsberg (conosciuto nel natale del ’44), Jack Kerouac (con il quale visse dal ‘42 al ‘45), Gregory Corso, Hal Chase e gli altri beat l’uso della morfina e dell’eroina. Si tratta però di un insegnamento tutto particolare, perché William non è uno sciamano della droga, né un uomo senza futuro che annega uno squallido presente nella sostanza e ne decanta le qualità lenitive ai suoi accoliti. Burroughs è più uno studioso, uno scienziato, un rabdomante – come definisce se stesso in Junkie – un antropologo dell’eroina, uno scrittore, un artista, un sociologo e, soprattutto, un anarchico – nella mente e nel corpo, non solo nelle parole – che nelle tossicodipendenze non cerca uno scampo o un rifugio, ma una puntuale quanto lucida esperienza della geografia del dolore.

La scimmia sulla schiena (dal geniale sottotitolo di Confessioni di un drogato non pentito) è infatti un libro scientifico, insieme istericamente intimo e oggettivamente spersonalizzante, l’unico, in tutta la produzione di Burroughs, scritto con un metodo razionale e consequenziale, in stile realistico e, ancor più, documentaristico, raziocinante – si ricordi che Burroughs fu più volte chiamato a disquisire in simposi medico-scientifici e che tenne un corso sull'”uso degli stupefacenti e i loro effetti nelle esperienze creative” presso l’università di Harvard. Come ricorda Fernanda Pivano, William Burroughs aggiunse, esclusivamente per l’edizione italiana, in appendice al romanzo un ineccepibile saggio sulla cura dell’apomorfina, seguita dallo scrittore stesso in Inghilterra, una cura che lo guarì non dal bisogno mentale della droga, o non solo, ma dalla necessità fisica, dalla vera e propria dipendenza della sostanza. In tale appendice Burroughs, attaccando accanitamente l’America per non aver voglia di curare i tossicodipendenti, termina sentenziando: se l’Ufficio Narcotici americano, in possesso “senza dubbio dello schedario più completo del mondo per quanto concerne il traffico e l’uso degli stupefacenti”, se il signor Anschlinger, dirigente di tale ufficio, in particolare, soltanto volesse, potrebbe mettere in “correlazione” i dati in suo possesso con la cura dell’apomorfina ponendosi così “alla testa di una crociata per liberare tutti i popoli del mondo dalla schiavitù degli agenti chimici”. Il signor Anschlinger, probabilmente, non voleva e non vuole. A tutt’oggi, la cura dell’apomorfina che ha debellato per sempre in Burroughs il desiderio fisico e mentale, la totale dipendenza, la mania organica, cellulare, della droga, è completamente sconosciuta in tutto il mondo, come    quella macchina di cui parla Beppe Grillo, che sfrutta esclusivamente l’energia solare e il cui rifornimento non costerebbe nulla. Oggi, l’apomorfina è adoperato esclusivamente nelle disfunzioni erettili. E con un successo neanche troppo alto. Ma come?, dice Burroughs, potrebbe curare il mondo intero! Questa è la geografia del dolore di cui parlavo poc’anzi. Tale è l’approccio di Burroughs nei confronti della mania da stupefacenti.

 

In Junkie, scritto in Messico quando Burroughs aveva appena perso (ucciso?), il 7 settembre 1951, la moglie mentre si esercitava al tiro al bersaglio, suo gioco preferito, durante un estenuante quanto terribile stillicidio processuale nel quale l’autore cercava di farsi condannare per la morte della moglie, a dispetto della diagnosi di epilessia riportata sul suo fascicolo militare che ne sanciva l’incapcità di intendere e di volere, e al quale (processo) seguì l’allontanamento dei suoi figli, Burroughs, che dichiara di non aver scritto tale romanzo per desiderio artistico ma solo per trovarsi qualcosa da fare ogni giorno (non avevo neanche i mezzi stilistici e letterari, a quel tempo, per scrivere un bel romanzo, dice), in Junkie prende questo enorme, stupefacente, incrocio tra dio e diavolo che è, secondo la morale comune, l’eroina – eroina che fino all’avvento di Burroughs era stata adoperata in campo artistico solo dai dadaisti, perché i jazzisti usavano invece esclusivamente marijuana – e, declamandone gli aspetti dolorifici molto più che quelli esaltanti, scrive le dodici tappe della via crucis che portarono William fino alla crocifissione, e poi alla resurrezione. Ma, non fermandosi neanche alla resurrezione, pure non più stupefatto cronico, effettivamente curato dal vizio fisico della droga – che, come una tenia, conficca la sua testa nella spina dorsale dell’uomo, ed è la testa del paradiso, certo, ma è pur sempre la testa del parassita, il quale si nutre di noi, mangiando le nostre cellule assetate di eroina, che in sua assenza morirebbero asfissiate dall’astinenza – Burroughs descrive con infinita scientificità la presa di possesso da parte della droga di tutte le cellule del corpo umano, una a una, una dopo l’altra, presa che ha come effetto inderogabile unico la totale dipendenza corporea, non solo mentale, dalla sostanza.

La ricerca della droga, la dipendenza da essa non è euforia, spiega Burroughs, ma un costante quanto inevitabile urlo, continuo, di tali cellule che, deprivate dalla droga, non riescono più a vivere, non possono più respirare. Piangono si lamentano. Inesorabilmente, muoiono.

Quando, costretto dall’editore Solomon a pubblicare il suo libro con lo pseudonimo di William Lee, che doveva servire a preservare la casta Burroughs – il padre di William era un ricchissimo imprenditore e produttore di macchine da calcolo – e a sottolineare nell’introduzione che lo scrittore del libro proveniva dal mondo borghese; quando, in concomitanza con la pubblicazione del suo libro, Burroughs fu costretto a vedere l’edizione, da parte della stessa casa editrice del suo, di un altro libro, quello di un agente della narcotici in pensione; quando, in libreria, Junkie si presentò incartato da una copertina squillo con tanto di armamentario da tossicomane ben impresso sull’immagine principale, Burroughs (il cui primo libro era stato precedentemente presentato dall’amico Ginsberg a Jason Epstein, che l’aveva respinto con la scusa che “sarebbe stato interessante se fosse stato scritto da Winston Churchill” e anche da Luis Simpson, lo stesso editore che trovò “privi di interesse” certi capitoli di On the road di Kerouac), Burroughs, dicevo, che per anni era stato mantenuto dalla ricchezza sfacciata e gravosa dei genitori e che dopo la morte della moglie tranciò ogni contatto con l’intera famiglia, non reagì in alcun modo, se non con una blanda protesta, come spesso fece nella sua vita. Al momento della pubblicazione, William si trovava a Tangeri. Quando il suo libro uscì nelle librerie, William andò da Paul Bowles, anche lui in Africa in quel periodo, e protestò contro certe clausole del contratto. Ma, come racconta la Pivano, “le proteste non andarono al di là del brontolare. […] Burroughs parla con voce nasale e con un forte accento; e con humor acido fino alla crudeltà, protesta, protesta, protesta continuamente, contro tutto e tutti […]; e tutte le cose che accadono e non accadono agli altri, e ai paesi, e ai governi, e al presnete, e al passato, e al futuro.”

Non è, quello di Burroughs, un protestate a sé stante. Lo definirei, piuttosto, un protestare culturale, un protestare vivo e consapevole. Lo stesso continuo protestare che costituisce la base stessa di questo suo primo libro, a partire dal quale William (siamo nel 1953) smette di drogarsi in senso maniaco, maniacale (il libro è pregno di questo continuo riferimento alla maniacalità della tossicomania) e comincia a scrivere, iniziando a drogarsi in senso letterario, sperimentale, quasi missionaristico. Ma un missionarismo sempre anarchico, completamente deprivato, spoglio di ogni pre-concetto, di qualsivoglia costrizione mentale.

Burroughs è uno dei pochi uomini liberi nella storia, ed è un fatto un po’ strano, per lo meno, che uno dei pochi uomini liberi sia stato un tempo schiavo della droga, della quale comunque continuerà a fare uso per tutta la vita. In Drugstore cowboy, Burroughs fa la parte di un prete tossicomane che, con un ascetismo direi totalmente appassionato, adopera la droga come un altro prete adopera la bibbia. Un riferimento per se stesso, una sorta di aiuto a vivere, una cosa che puoi sempre consultare quando la via è buia, e hai bisogno di qualcuno che ti aiuti ad avere coraggio. Ebbene, io me lo immagino così, Burroughs, per tutta la vita, anche mentre scrive – e vive – in Junkie, con un’oggettività disarmante, una scientificità tanto accurata e consapevole quanto di superficie, una metodicità involucro di una forte pena per se stesso, per il corpo umano spodestato dalla droga, per gli effetti terribili della crisi d’astinenza – che lo scrittore chiama malessere, connotando la decadenza, il disfacimento del corpo con considerazioni e rimandi e sintomi quasi metafisici.

William Burroughs scrive, in uno stile semplice, piano, privo delle minuziose elaborazioni espressioniste e surrealiste tipiche, per esempio, di quello che è definito il suo capolavoro assoluto (The Naked Lunch, 1959, per capire il significato del cui titolo l’autore “impiegò un anno intero” ), Il Pasto Nudo, il cui concepimento parte da una raccolta delle stesse proteste contro tutto e tutti di cui sopra. William Burroughs scrive, dicevo, un libro che è insieme gergale e documentaristico, intimo – ma i pezzi di introspezione psicologica sono davvero pochi, e per questo ancor più evidenziati, ancora più intrinseci – e insieme spietato, cinico, terribile. Un libro che è un pezzo vero, vivo, non solo della storia della letteratura, ma della storia del mondo, dell’uomo, della storia dei costumi umani.

Laddove un’America post-belligerante non sapeva come reagire allo sconforto, Burroughs insegna agli artisti della Beat Generation, dei quali è molto più anziano, la droga, ma non è una droga che miete accoliti e vittime e che esalta il proprio potere devastante, è una droga anarchica, che Burroughs adopera, adotta come strumento letterario. E la risultante di tutto questo scempio interiore che l’artista induce consciamente in sé come uno scienziato, appunto, come Hoffmann che inventa l’LSD e lo sperimenta sul proprio corpo, è un libro frammentario, come smoccolato, mangiucchiato, dove la frammentarietà è l’oculata scelta stilistica di un uomo colto, sensibile, consapevole, che da bambino subiva continue allucinazioni, che soffriva sulla propria pelle la continua precarietà dell’essere umano e che ha risposto alla sua estrema sensibilità con una voce alta e nuova, non con la solita, facile, scontata, lamentosa autocommiserazione. Burroughs è un anarchico – ma non un anarchico in senso strettamente politico, direi, quanto più un anarchico in senso fisico, costituzionale, molecolare – e per questo, già in Junkie, evita, fugge le “strutture formali preordinate o precise”, per regalarci – perché si tratta proprio di un regalo – un romanzo che è tutto, che è lo stesso roteare convulso della terra.

Allora, proprio mentre ci parla da un punto di vista squisitamente medico degli effetti fisici della rota sul corpo umano, Burroughs ci spiega che, intorno a Mary, una donna il cui corpo non può assorbire il calcio, “c’era un’atmosfera di qualcosa senza ossa” (la Pivano ricorda che in The Soft Machine la stessa Mary mangerà i testicoli di un uomo dopo averlo impiccato), oppure ricorrerà, per la prima volta qui, alla celebre scena dell'”orgasmo dell’impiccato”. Questa dell’impiccato è un’immagine morbosamente, maniacalmente ricorrente in tutta la successiva produzione di Burroughs che, inesorabilmente, giorno dopo giorno, perderà di razionalità e raziocino nella sua scrittura per rifugiarsi in una iper-sperimentale letteratura della disgiunzione, dell’irrazionalità assoluta, dell’immagine morbosa, dell’allucinazione (ma germi, semi di tale scelta sono già presenti anche in altre, sporadiche scene di Junkie, per esempio in quella in cui New York è invasa da vermi brulicanti). Ricorrerà qui, dicevo, in Junkie, alla celebre scena dell'”orgasmo dell’impiccato”, quando, a conclusione della medica, oggettiva descrizione dell’astinenza dirà: “mi esplosero scintille dietro gli occhi, mi si contorsero le gambe; l’orgasmo di un impiccato quando il collo si spezza”. E tutto questo allagare, straripare di emotivo versus scientifico versus documentaristico versus interiore segreto spirituale estremamente soggettivo versus spersonalizzante imparziale apodittico acquisterà quanto più senso tanto più sembrerà accidentale, non voluto, e persino perentorio, anzi, quasi un errore stilistico, un’incapacità dell’autore a conferire coesione e omogeneità al testo. Cosa di cui, invece, Burroughs è capacissimo, il più capace.

Junkie è una sorta di dipinto in cui il protagonista, Bill Lee, si ponga a sinistra dell’immagine e guardi. Un mondo nel quale le persone, le situazioni, le sensazioni, le istituzioni sono tanto più grandi più vicine più dettagliate meglio descritte, fin nei minimi particolari – si veda l’affresco, costante, puntuale, la presentazione minuziosa di ognuno dei protagonisti della droga, da New York a New Orleans in Messico in Inghilterra, una documentazione tanto puntuale che a volte stanca, come se Bill ci volesse raccontare proprio tutto di questi personaggi, anche il superfluo – tanto più nitida, dicevo, quanto più questi personaggi, queste cose si trovano vicine alla protagonista assoluta del romanzo. La Droga. Tanto più, invece, le stesse cose si allontanano dalla droga, allora, tanto più le persone gli avvenimenti i fatti divengono completamente inutili, non vengono nemmeno spiegati o introdotti (non è chiarito, per esempio, il momento preciso in cui Bill sposa la moglie, che pure nella realtà è drogata tanto quanto lui: la figura della signora Lee appare dal nulla e viene liquidata in una riga). Tutto ciò che non è droga càpita, cade nella storia come per caso, per poi scomparire senza alcuna spiegazione, e non lasciare traccia. La polizia, drogata dalla sete di potere almeno quanto il drogato è drogato dalla sete di eroina, gli spacciatori, gli amici della droga – amici inesistenti – le rote, le innumerevoli astinenze, le prigioni, gli istituti di disintossicazione sono le zone più chiare e ben dipinte di questa immagine. Un’immagine esemplare, che non produce accoliti alla droga, che non racconta l’euforia dello sballo (non c’è euforia, spiega Burroughs più volte, nella dipendenza), ma neppure condanna. Appunto, lo sguardo di questo Burroughs è lo sguardo di chi veda inesorabilmente il proprio corpo sottrarsi al proprio controllo. E ne rimanga esterrefatto, e ne voglia, ne debba capire la causa. Per rimanere in vita. Per sottrarsi alla follia.

 

La droga è un’equazione cellulare che insegna al tossicomane verità di validità generale. Io ho imparato molto ricorrendo alla droga: ho veduto la vita misurata in pompette contagocce di morfina in soluzione. Ho provato quella straziante privazione che è il desiderio della droga e la gioia del sollievo quando le cellule assettate di droga la bevono dall’ago. Forse ogni piacere è sollievo. Ho appreso lo stoicismo cellulare che la droga insegna al tossicomane. Ho veduto una cella di prigione piena di tossicomani in preda alle sofferenze per la privazione della droga, silenziosi e immobili ciascuno nella sua individuale infelicità. Sapevano quanto fosse inutile lamentarsi o agitarsi. Sapevano che, fondamentalmente, nessuno è in grado di aiutare il prossimo suo. Non esiste chiave, non esiste segreto in possesso di qualcuno e che possano essere ceduti.

Ho imparato l’equazione della droga. La droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. la droga non è euforia. È un modo di vivere.[vi]



[i] P.P.Pasolini, La droga: una vera tragedia italiana, in Lettere luterane, Einaudi, Torino 1976, pp. 86-89, 90.

[ii] Fernanda Pivano, Prefazione a W. Burroughs, Il pasto nudo, Sugarco, Milano 1980; Fernanda Pivano, Introduzione a William Burroughs, La scimmia sulla schiena, BUR, 1998.

[iii] Vito Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Bari 1969.

[iv] Gèrard Georges Lemaire, William Burroughs: una biografia. La mappa di una scrittura, Sugarco, Milano 1983.

[v] Vito Amoruso, La letteratura beat americana, Laterza, Bari 1969, cit. pag. 4.

[vi] William Burroughs, La scimmia sulla schiena, BUR, 1998, pag. 34

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