(nota[1])
Una Costituzione dovrebbe essere breve e oscura.
Napoleone
La prima “costituzione” scritta dell’Italia unificata, fu lo Statuto del Regno di Sardegna concesso da Re Carlo Alberto di Savoia-Carignano[2] il 4 marzo 1848, esteso successivamente a tutti i territori annessi al Regno di Piemonte e Sardegna il 17 marzo 1861, giorno in cui fu pubblicata (dopo essere stata votata “per acclamazione” dal Parlamento di Torino) la legge, ad articolo unico, con cui si sanciva che il Re Vittorio Emanuele II assumeva per se e i suoi successori il titolo di “Re d’Italia”[3].
Come accennato sopra, lo Statuto era una carta costituzionale “ottriata” (dal francese “octroyée“), ossia concessa unilateralmente dal sovrano che, autolimitando il proprio potere, preveniva qualsiasi moto insurrezionale o peggio “rivoluzione” popolare, non mettendo in questione il fondamento del potere saldamente nelle sue mani[4]. Infatti, le condizioni politico-sociali di quel 1848 descrivono una situazione di grande fermento delle popolazioni in tutti gli Stati italiani e in particolare di “moti” promossi, già da qualche anno, dalle classi borghesi, nelle principali città del Regno di Sardegna, a causa dei quali Carlo Alberto aveva assunto una serie di provvedimenti di stampo liberale: nel 1837 aveva emanato un codice civile, cui seguì un codice penale nel 1839; nel 1847 riformò la disciplina della censura, permettendo la pubblicazione di giornali politici; creò, poi, una “Corte di Revisione” (ossia di Cassazione) per assicurare una certa uniformità della giurisdizione nello Stato, riducendo le competenze dei vecchi senati e pubblicando il codice di procedura penale basato sulla pubblicità del dibattimento[5].
All’inizio del 1848 giunse la notizia che il 12 gennaio Palermo era insorta innalzando il vessillo tricolore, tanto che il Re Ferdinando II di Borbone doveva annunciare da Napoli (29 gennaio) la concessione di una costituzione. Il Granduca di Toscana fu subito costretto ad imitarlo: annunciò la costituzione l’11 febbraio, la pubblicò il 17 seguente. Anche il Papa, dopo avere fatto studiare dai suoi teologi come conciliare i diritti della Sede apostolica con il potere democratico, creò una costituzione il 4 marzo con tre Camere: Deputati, Senatori, Cardinali.
Quando a Torino incominciarono le acclamazioni al Re di Napoli, i Ministri di Carlo Alberto riconobbero l’urgenza della concessione “ormai fatale”[6], durante un Consiglio del 3 febbraio 1848. Tutti (in particolare il Ministro dell’Interno Borrelli che pose il Re di fronte all’alternativa o di concedere lo Statuto o di nominare altri ministri che affrontassero la rivoluzione), furono concordi nel ritenere necessaria la concessione della costituzione. Carlo Alberto rispose di “non voler ostacolare in nessun modo la felicità del suo paese” ed ordinò che si preparasse un abbozzo di costituzione[7]; Nei giorni seguenti il Consiglio dei Ministri sedette ininterrottamente per discutere gli articoli dello Statuto. Il Re partecipò ai lavori discutendo minutamente. E’ del Re il testo del primo articolo: “La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato. Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi“.
Altra caratteristica importante dello Statuto era la sua flessibilità; in altre parole in esso non era previsto un procedimento particolare per la sua modifica, potendosi quindi agire attraverso una semplice legge ordinaria. Questo aspetto permise al testo costituzionale di adattarsi alle modificazioni istituzionali e sociali intervenute in Italia nel corso dei cento anni della sua applicazione, ma anche di essere svuotato delle sue caratteristiche liberali durante il regime fascista (1922/1943). Lo Statuto, secondo Zagrebelsky, era espressione del “patto difensivo” tra le forze tradizionalmente conservatrici (monarchia, nobiltà, clero) e la borghesia, unite contro la minaccia di una “rivoluzione sociale”. Lo Statuto legò alle nuove istituzioni i conservatori illuminati e i riformisti moderati, isolando le ali estreme (sia quella reazionaria sia quella radicale): fu una operazione “riformatrice di centro”.
Lo Statuto (oltre che “concesso” e “flessibile” anche “breve”), era composto di soli 84 articoli, dal testo essenziale e lapidario. I primi ventitre articoli dettavano le disposizioni relative alla Corona; la persona del Re (“sacra ed inviolabile” secondo l’art.4[8]), era al centro del sistema, ad essa erano attribuiti “poteri forti”; l’art.2 dispone, innanzitutto, che: “Lo Stato è retto da un Governo Monarchico Rappresentativo. Il Trono è ereditario secondo la legge salica“[9].
Secondo l’art. 5: al Re “capo supremo dello Stato” è attribuito in via esclusiva il potere esecutivo; art. 6: il Re nomina tutte le cariche dello Stato (compresa la nomina e revoca dei Ministri, art.65); art. 9: il Re convoca le due Camere, può prorogarne le sessioni, e può sciogliere la Camera dei Deputati; art. 33: il Re nomina i Senatori e l’Ufficio di presidenza del Senato (art.35); secondo l’art. 68: la giustizia è amministrata in nome del Re che nomina i giudici.
Gli articoli dal 24 al 32 riconoscono i diritti e doveri dei cittadini: i diritti “teoricamente” sanciti dallo Statuto erano, oltre alla libertà religiosa (anche se in termini di “tolleranza” dei culti diversi dal cattolicesimo, come indicato all’art.1), l’eguaglianza giuridica (Art. 24. – Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni determinate dalle Leggi), la libertà individuale (Art. 26. – La libertà individuale è guarentita. Niuno può essere arrestato, o tradotto in giudizio, se non nei casi previsti dalla legge, e nelle forme ch’essa prescrive), inviolabilità del domicilio (Art. 27. – Il domicilio è inviolabile. Niuna visita domiciliare può aver luogo se non in forza della legge, e nelle forme ch’essa prescrive.), libertà di stampa (Art. 28. – La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Tuttavia le bibbie, i catechismi, i libri liturgici e di preghiere non potranno essere stampati senza il preventivo permesso del Vescovo), diritto di proprietà privata (Art. 29. – Tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili. Tuttavia quando l’interesse pubblico legalmente accertato, lo esiga, si può essere tenuti a cederle in tutto o in parte, mediante una giusta indennità conformemente alle leggi.), libertà di riunione (Art. 32. – E’ riconosciuto il diritto di adunarsi pacificamente e senz’armi, uniformandosi alle leggi che possono regolarne l’esercizio nell’interesse della cosa pubblica. Questa disposizione non è applicabile alle adunanze in luoghi pubblici, od aperti al pubblico, i quali rimangono intieramente soggetti alle leggi di polizia)[10].
I diritti che venivano ufficialmente sanciti erano però sistematicamente subordinati alle leggi, che venivano invocate come limite ai diritti stessi. In altre parole i diritti non valevano in modo uguale per tutti, ma coloro che disponevano del potere di fare le leggi, di fatto potevano modificare l’attuazione, il riconoscimento, l’esercizio dei diritti in modo diseguale per alcune categorie di sudditi. La società progettata dallo Statuto era perciò, per così dire, a due strati: aperta per coloro che appartenevano alle classi dominanti, mentre era chiusa per le classi subalterne. La classe dominante era, ovviamente, costituita dal limitato numero di cittadini che potevano votare. La composizione del corpo elettorale piemontese risultava di 80.000 votanti su 4.900.000 abitanti, ossia di 1 elettore ogni 69 abitanti. A ogni deputato corrispondevano circa 300 elettori. Questo permetteva un contatto personale molto intenso tra gli elettori e il candidato: la campagna elettorale poteva in pratica svolgersi nei salotti, dal momento che si trattava di convincere un numero molto ristretto di persone, considerato che la legge elettorale prevedeva potessero votare per la Camera solo i cittadini (maschi), di età superiore ai 21 anni e con reddito che comportasse il pagamento di tasse di ammontare superiore alle 40 lire dell’epoca. Il sistema non poteva restare stabile, proprio a causa della limitatissima base di consenso su cui poggiava (circa il 2% della popolazione totale). In conseguenza dell’unificazione italiana, avvenuta 13 anni dopo l’entrata in vigore dello Statuto, fu indispensabile allargare la base del suffragio modificando la legge elettorale a più riprese (1882, 1912, 1919, 1946).
Lo Statuto albertino si ispirava all’esempio parlamentare inglese, e considerava perciò tre principi (“monarchico”, “aristocratico” e “democratico”) cui corrispondevano tre organi (il Re, il Senato, la Camera dei deputati-artt. dal 33 al 64). I tre organi esercitano collettivamente il potere legislativo: non si aveva perciò una separazione netta dei poteri (Legislativo, Esecutivo e Giudiziario), in quanto il Re esercitava il potere esecutivo attraverso i Ministri, ma anche quello legislativo, in quanto convocava e scioglieva le Camere e aveva il potere di “sanzione delle leggi”, istituto diverso dalla “promulgazione presidenziale”, attualmente prevista dalla Costituzione italiana del 1948, perché con essa il Re valutava il merito dell’atto e poteva rifiutarlo se riteneva la legge non rispondente all’indirizzo politico perseguito dalla Corona.
Di fatto il Parlamento si limitava a fare le leggi (collettivamente tra Camera e Senato, con l’apporto del Re e la sua sanzione). Nella prassi Carlo Alberto cercò di far si che il proprio Governo avesse la fiducia del Parlamento (pur non essendo questa formalmente richiesta dallo Statuto), sostituendolo quando questa fosse venuta meno[11]. A partire dal 1852, in particolare (con l’avvento di Camillo Benso di Cavour, come capo della maggioranza parlamentare), nei periodi di crisi, fu il sostegno della Camera dei deputati a imporre il reincarico di formare il Governo allo stesso Cavour, rispetto all’aspirazione del Re di sostituirlo. Ecco che venne prevalendo, nella prassi applicativa, un sostanziale riconoscimento da parte del Re che il “suo” Governo dovesse godere della fiducia parlamentare e si passò, quindi, ad un sistema di tipo “parlamentare”. Ben presto la vita politica del Piemonte, e poi del Regno d’Italia, si sviluppò secondo uno schema bipartito, Re + Senato da una parte e Camera dall’altra, in quanto per il Senato, di nomina regia, non era previsto un numero massimo di membri. Quando le posizioni del Senato si discostavano da quelle del Sovrano, era sufficiente per quest’ultimo nominare una “infornata” di nuovi senatori, naturalmente a Lui fedeli[12].
L’evoluzione che si ebbe comportò che il Re fu, gradualmente, considerato più quale rappresentante dell’unità statale che come capo “effettivo” dell’esecutivo. Inizialmente, infatti, i Ministri erano considerati come singoli collaboratori del Re, senza riconoscimenti ufficiali delle loro riunioni in organi collegiali. Non era nemmeno prevista la figura del Presidente del Consiglio dei Ministri, e ciascuno di loro poteva essere sostituito se veniva meno il rapporto fiduciario con il Re[13].
Non vi era netta separazione dei poteri nemmeno riguardo all’ordine giudiziario (artt. da 68 a 73), in quanto, dato che la “Giustizia emana dal Re” (art.68) , Egli nominava i Giudici ed aveva il potere di grazia. A garanzia del cittadino stava il rispetto del Giudice Naturale previsto dalla legge e il divieto della istituzione di Tribunali straordinari, la pubblicità delle udienze e dei dibattimenti. Prima dello Statuto il Re aveva il potere discrezionale di nominare, promuovere, spostare e sospendere i suoi magistrati. Ora veniva introdotta qualche garanzia in più per i cittadini e per i Giudici, i quali dopo tre anni di esercizio, avevano garantita l’inamovibilità.
L’articolo 73 escludeva di fatto, poi, la possibilità di considerare il precedente giurisprudenziale come “principio guida” per le decisioni successive. L’interpretazione della norma era affidata esclusivamente al “potere legislativo” statale (dunque al Re o al Parlamento, c.d. “interpretazione autentica”). L’indipendenza formale del potere giudiziario veniva ad essere, nei fatti, condizionata dal Governo il quale aveva alle sue dipendenze il Pubblico Ministero. La magistratura rappresentava quindi non un potere, ma un ordine direttamente soggetto al Ministero della Giustizia.
Come appare evidente, dunque, da un lato lo Statuto conteneva norme che ancora risentivano dell’ordinamento di provenienza, una Monarchia di fatto “assoluta” ma preoccupata di “auto conservarsi” mediante riconoscimenti di diritti e facoltà alla compagine sociale, soprattutto degli strati più bassi, alla soglia dell’età contemporanea[14].
Dall’altro contiene norme, concetti e prassi che sono trapassate quasi inalterate, nel testo dell’attuale Costituzione Repubblicana, elaborata esattamente cento anni dopo lo Statuto, nel 1948 (dal giuramento del Re/Capo dello Stato di rispettare lo Statuto davanti alle Camere riunite, alla sua irresponsabilità per gli atti controfirmati da un Ministro, alla durata di 5 anni della legislatura della Camera, dall’esame delle leggi articolo per articolo e con votazione finale prima dell’approvazione, alla “riserva di legge” per tutte le tasse[15], all’uso dell’espressione “pacificamente e senz’armi” per la libertà di riunione dei cittadini, ecc.)[16].
Una delle chiavi di lettura più significative della storia d’Italia è proprio quella che pone al centro l’esigenza, per la classe politica liberale e borghese degli anni quaranta e cinquanta del 19° secolo (artefice della unità nazionale), di conglobare e integrare nel neonato stato le classi sociali popolari, che alla realizzazione dell’unità non avevano partecipato[17].
Lo Statuto fu approvato definitivamente il 4 marzo 1848 ed il Re lo firmò: “I ministri uniti, commossi, guardavano il Re che firmava tutto raccolto, calmo e sereno come un uomo che adempie coscienziosamente un grande dovere”. Quando tutti i ministri ebbero firmato, il conte Borelli si inginocchiò davanti al Re e gli baciò la mano. Tutti gli altri ministri procedettero pure a quello che era l’ultimo rito di una secolare tradizione.
Si chiudeva la storia della monarchia assoluta dei Savoia, incominciava la storia della monarchia costituzionale in Italia[18].
Veniamo da molto lontano e andiamo molto lontano! Senza dubbio!
Il nostro obiettivo è la creazione nel nostro Paese
di una società di liberi ed eguali,
nella quale non ci sia sfruttamento
da parte di uomini su altri uomini.
Palmiro Togliatti
[1] Utili contributi alla trattazione sono stati assunti da Wikipedia, www.ariannascuola.eu, www.quirinale.it, L’Universale, la Grande Enciclopedia Tematica, ed. Garzanti, Vol.II Diritto, Francesco Cognasso, I Savoia, dall’Oglio editore 1971.
[2] Nell’immagine il ritratto di Carlo Alberto Amedeo di Savoia detto “il Magnanimo” (Torino, 2 ottobre 1798 – Oporto, 28 luglio 1849), Re di “Cipro e Gerusalemme” conte di Barge, settimo Principe di Carignano e Re di Sardegna dal 1831 al 1849. Alla nascita le sue possibilità di salire al trono erano praticamente nulle in quanto settimo principe di Carignano, un ramo secondario della famiglia. In quel momento infatti sul trono di Sardegna si trovava da poco Carlo Emanuele IV, che, pur non avendo avuto figli, aveva due fratelli: i futuri Re Vittorio Emanuele I e Carlo Felice. Tuttavia, dopo alterne vicende famigliari, influenzate anche dal passaggio dell’epopea napoleonica sull’Europa, l’ultimo regnante del ramo principale Savoia morì senza lasciare eredi maschi, e ciò permise l’incoronazione di Carlo Alberto.
[3] Regno d’Italia, dunque, fu il nome assunto dallo Stato sardo quando, in seguito all’annessione da parte di quest’ultimo del grosso dei territori degli stati preunitari (Regno Lombardo Veneto, Ducato di Parma e Piacenza, Ducato di Modena e Reggio Emilia, Granducato di Toscana, Stato Pontificio, Regno delle due Sicilie), si ebbe l’unificazione politica della penisola italiana. Non vi fu, quindi, la costituzione di una nuova entità statuale, ma un semplice cambio di denominazione del precedente Stato sardo. Il Regno cessò di esistere nel 1946, quando la forma di stato fu mutata in Repubblica, in seguito al referendum istituzionale del 2 giugno 1946.
[4] Una costituzione può nascere in due modi: può esser deliberata da un’apposita assemblea costituente o elargita dal sovrano, in questo caso prende il nome di ottriata.
[5] Vedi KultUnderground-n.177-aprile2010, “C.S.C. Corte Suprema di Cassazione” di A. Monari, rubrica Diritto.
[6] Cfr. Cognasso op. cit. pag.584 e ss. Carlo Alberto era legato da un giuramento fatto anni prima al suo predecessore Carlo Felice, di conservare intatte le basi della monarchia assoluta dei loro avi.
[7] Una dichiarazione di principi, che saranno alla base dello Statuto, venne proclamata al popolo l’8 febbraio 1848.
[8] In base all’art. 4 le azioni di governo del Re erano insindacabili. Il Ministro era l’unico responsabile delle conseguenze di leggi e atti del Governo, per questo era prevista la sua firma accanto a quella del Sovrano (art. 67).
[9] La legge salica (Lex Salica, chiamato anche Pactus legis Salicae) è un codice fatto redigere da Clodoveo I re dei franchi (481-511) attorno al 510 riguardante la popolazione dei franchi Salii, così chiamati perché abitavano la regione prossima alla riva del fiume Sala (oggi IJssel, attraversa gli odierni Paesi Bassi). Il titolo 59.5 della legge dispone: «Nessuna terra (salica) può essere ereditata da una donna, ma tutta la terra spetta ai figli maschi». La disposizione (dopo essere stata dimenticata per secoli) fu utilizzata anacronisticamente durante dispute all’interno delle famiglie regnanti a partire dal XIV secolo, come argomento contrario all’ascesa al trono delle figlie femmine.
[10] Significativa nell’ottica del liberalismo moderato che ispira lo Statuto, la disposizione dell’art.31 per cui: “Il debito pubblico è garantito. Ogni impegno dello Stato verso i suoi creditori è inviolabile”.
[11] Questo portò nel giro di un anno alla formazione di quattro gabinetti (governi) diversi, senza alcun voto di fiducia
[12] Art. 33. – Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età, di quarant’anni compiuti, e scelti nelle categorie seguenti:
1° Gli Arcivescovi e Vescovi dello Stato; 2° Il Presidente della Camera dei Deputati; 3° I Deputati dopo tre legislature, o sei anni di esercizio; 4° I Ministri di Stato; 5° I Ministri Segretari di Stato; 6° Gli Ambasciatori; 7° Gli Inviati straordinarii, dopo tre anni di tali funzioni; 8° I Primi Presidenti e Presidenti del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti; 9° I Primi Presidenti dei Magistrati d’appello; 10° L’Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione, ed il Procuratore Generale, dopo cinque anni di funzioni; 11° I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni; 12° I Consiglieri del Magistrato di Cassazione e della Camera dei Conti, dopo cinque anni di funzioni; 13° Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati d’appello, dopo cinque anni di funzioni; 14° Gli Uffiziali Generali di terra e di mare. Tuttavia i Maggiori Generali e i Contr’Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività; 15° I Consiglieri di Stato, dopo cinque anni di funzioni; 16° I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro presidenza; 17° Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di esercizio; 18° I membri della Regia Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina; 19° I Membri ordinarii del Consiglio superiore d’Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio; 20° Coloro che con servizi o meriti eminenti avranno illustrata la Patria; 21° Le persone, che da tre anni pagano tremila lire d’imposizione diretta in ragione de’ loro beni, o della loro industria.
[13] Per lo Statuto i Ministri erano tutti uguali tra loro: quando si riunivano fuori della presenza del Sovrano, per mantenere l’ordine e facilitare le decisioni, veniva scelto tra essi e nominato dal Sovrano stesso, un Presidente c.d. del Consiglio dei Ministri. Lo spazio e il ruolo del Primo Ministro non apparivano determinati una volta per tutta la legislatura, configurandosi come oggetto di una quotidiana prova di forza con il Re; quasi dovesse esserci una negoziazione permanente il cui esito veniva a essere in larga misura determinato dalla personalità complessiva del Premier, dal suo saper alternare la fermezza sugli obiettivi politici alla duttilità degli umori di corte. Ma la fermezza fu una dote che riguardò solo tre Presidenti del Consiglio su 29, avvicendatisi alla guida di 75 governi in 61 anni (dal 1861 al 1922, nomina di Benito Mussolini): Cavour, Crispi e Giolitti. Si accreditò l’idea che non fosse necessario costruire presidenze del Consiglio permanenti, visto che la continuità istituzionale era già garantita dalla presenza del Re.
[14] Curiosa quanto “aristocratica”, relativamente alle origini della Casata Savoia, la norma prevista nell’art.62 dello Statuto: “La lingua italiana è la lingua officiale delle Camere. E’ però facoltativo di servirsi della francese ai membri, che appartengono ai paesi, in cui questa è in uso, od in risposta ai medesimi”.
[15] Art. 30. – Nessun tributo può essere imposto o riscosso se non è stato consentito dalle Camere e sanzionato dal Re.
Cfr. art.23 Costituzione della Repubblica italiana.
[16] Vedi KultUnderground-n.8-maggio 1995, “La libertà di riunione e associazione” di A. Monari, rubrica Diritto.
[17] Carlo Alberto volle che nell’annunzio della concessione dello Statuto dell’8 febbraio 1848 vi fosse anche la riduzione del prezzo del sale a favore delle classi più umili, quasi a voler fare intendere che l’avvento dello Statuto era un beneficio per il popolo.
[18] È da notare come lo Statuto non fu mai qualificato con il termine costituzione, ritenuto troppo impegnativo dalla monarchia, e come, dalle intenzioni espresse dal Sovrano, esso dovesse intendersi come una Legge fondamentale, rigida, «perpetua ed irrevocabile» (dal testo del Preambolo dello Statuto).