Il matrimonio è come una trappola per topi;
quelli che son dentro vorrebbero uscirne,
e gli altri ci girano intorno per entrarvi.
Giovanni Verga
Il profilo giuridico dell’istituto del
Matrimonio civile (dal latino
mater –madre- e
munus -funzione, servizio ma anche dono, offerta), non è univoco, nel senso che la dottrina distingue il matrimonio come
atto, indicando quel negozio solenne mediante il quale un uomo e una donna assumono l’impegno di stabile convivenza e di reciproco aiuto come “
marito e moglie”, dal matrimonio come
rapporto giuridico, vale a dire l’insieme di diritti e doveri, personali e patrimoniali, che regolano la vita coniugale e perdurano fino al suo eventuale scioglimento
[1]. Dunque, il matrimonio rappresenta un istituto fondamentale dell’ordinamento dello Stato, ovviamente sia nella sua “versione” esclusivamente “civile” richiamata poco sopra, che per quanto riguarda il matrimonio celebrato davanti a “ministri del culto cattolico” (“matrimonio concordatario
[2]”), e “ministri dei culti ammessi nello Stato”, che pur dotato di forti connotati religioso-sacramentali è del tutto equiparato, negli effetti giuridici, al matrimonio civile.
Il Matrimonio tuttavia, come pacificamente ritenuto dalla dottrina, non è un “contratto” in quanto la funzione (cioè la “causa”) di questo
negozio giuridico bilaterale consiste nella formazione del nucleo famigliare, dalla quale derivano una serie di diritti ed obblighi di natura non solo patrimoniale, ma prevalentemente morale, dettagliatamente disciplinati dalla legge (si pensi a conseguenze “perenni” ed “ineludibili” come il dovere di mantenimento o di alimenti da versare al coniuge, dovere persistente anche a divorzio avvenuto). La norma fondamentale in tema la si rinviene nella Costituzione all’art.29: I comma “
La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.II comma “
Il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare.”[3]. L’art.143 del Codice Civile delinea il quadro essenziale dei “Diritti e doveri reciproci dei coniugi”, ponendo a carico di marito e moglie obblighi di assistenza materiale e di contribuzione ai bisogni della famiglia in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo
[4].
Per altro aspetto, negli ultimi decenni si è assistito allo sviluppo, sempre più rilevante nella società occidentale, della “convivenza” quale vera e propria formazione sociale, in quanto con essa si costituisce un autentico “consorzio famigliare” tra due persone, nella realtà dei fatti di persone spesso dello stesso sesso. Il fenomeno della famiglia di fatto rappresenta più di ogni altro l’evoluzione dell’ordinamento giuridico e della società nel suo complesso, considerando che, allo stato attuale della legislazione, non è proponibile una parificazione totale del matrimonio e delle relazioni fattuali. Perciò è stata la Giurisprudenza (degli organi giudiziari di merito, e di legittimità), che ha riconosciuto sempre maggiore spazio nell’elaborazione del “diritto vivente” al fenomeno, costituito da una situazione concreta, scelta da chi intende sottrarsi ai doveri di carattere pregnante connessi al matrimonio e riservarsi, invece, la possibilità di una semplice e rapida interruzione della relazione (con espressione latina si parla spesso di commodus discessus), derivante dai caratteri di precarietà e revocabilità unilaterale “ad nutum” (letteralmente con un cenno), propri della convivenza di fatto; da questo punto di vista appare ormai principio consolidato la piena equiparazione tra convivenze more uxorio eterosessuali ed omosessuali.
Il passaggio da questo riconoscimento alla possibilità di estendere l’istituto matrimoniale anche alle coppie dello stesso sesso, si è posto recentemente all’attenzione della Giurisprudenza italiana, che ha dovuto fornire precise linee guida di fronte al silenzio e inerzia del legislatore
[5]. Infatti, l’art. 29 della Costituzione non menziona esplicitamente la diversità di sesso di coloro che intendo sposarsi (in termine tecnico, “nubendi”), presumibilmente perché all’epoca della sua stesura (tra il 1946 e 1948), per quanto la Carta sia stata scritta con lungimiranza, i costituenti ritenevano tale requisito implicito, al punto da non dover neppure essere espresso nel testo. Per anni, Giuristi, esponenti della dottrina e Magistrati hanno ritenuto che i due requisiti minimi e impliciti del matrimonio, fossero due: la diversità di sesso dei nubendi e la libera volontà di sposarsi da parte di entrambi.
Con la Sentenza della Corte Costituzionale n.138 del 14 aprile 2010, sentenza storica per il nostro Paese, come testimoniato anche dallo straordinario dibattito che ha suscitato nel mondo del Diritto, si è affrontata la complessa e dibattuta questione della conformità con la Costituzione della disciplina del matrimonio prevista dal Codice Civile e legislazione speciale, la quale postula la diversità di sesso fra i coniugi. I Giudici di merito (Tribunale di Venezia e Corte d’Appello di Trento) si erano rivolti alla Consulta affinché si pronunciasse sulla legittimità del comportamento dell’Ufficiale di stato civile del Comune che aveva rifiutato di procedere alle pubblicazioni del matrimonio fra persone dello stesso sesso
[6]. Infatti, il mancato riconoscimento agli omosessuali del diritto di sposarsi, scegliendo autonomamente il proprio coniuge, infrangerebbe uno dei diritti inviolabili dell’uomo riconosciuto e garantito dall’art.2 della Costituzione
[7]. Inoltre, l’esclusione di una coppia omosessuale dal novero dei soggetti idonei a contrarre matrimonio, costituirebbe una ingiustificata discriminazione derivante dal sesso in evidente contrasto con l’art.3 Costituzione
[8]. Ancora, argomentano i Giudici del ricorso, un sistema giuridico che non riconosce un rapporto di coniugio tra omosessuali contrasterebbe con l’art.117, I comma Costituzione, laddove si impone al legislatore di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario ed internazionale
[9], in particolare i diritti individuali sanciti nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e nella Carta di Nizza
[10].
La Corte “delle leggi” delinea un quadro al contempo conservativo per la normativa vigente, ma innovativo per gli sviluppi “de iure condendo”: infatti, pur affermando che la stabile unione di due persone dello stesso sesso rientri nel concetto di “formazione sociale”, di cui all’art.2 Cost. e, pertanto, sia meritevole di tutela attraverso il riconoscimento dei connessi diritti e doveri, sottolinea come non sia mediante la semplice equiparazione delle unioni omosessuali al matrimonio che possa essere concretizzato questo riconoscimento. Per esso è richiesto l’intervento del legislatore con una disciplina di carattere generale che miri a regolarizzare il regime giuridico dei componenti della coppia omosessuale; la questione di legittimità costituzionale viene dichiarata inammissibile.
Altrettanto inammissibile risulta, per la Consulta, la contestazione di legittimità in riferimento all’art.117 Cost., in quanto le leggi ordinarie italiane sul matrimonio non violerebbero alcuna norma internazionale che impone la piena equiparazione tra matrimonio e unioni omosessuali: la CEDU, per esempio, nel sancire il diritto di sposarsi rinvia alle leggi nazionali la disciplina del suo esercizio
[11].
La Corte Costituzionale prosegue il suo iter logico in riferimento anche all’art.29 e 3 Cost., giudicando la questione di legittimità ancora non fondata. La prima norma, infatti, prescinde da ogni considerazione delle unioni di fatto omosessuali ed eterosessuali e la lacuna non può certamente essere superata da un intervento meramente interpretativo; l’art.3 postula un trattamento paritario per tutti i cittadini in situazioni omogenee, e l’unione omosessuale “non potrebbe essere certo ritenuta situazione omogenea al matrimonio”.
Quello che rileva in una sentenza, che rimane pur sempre di rigetto, è che non sembra che la Corte abbia voluto chiudere le porte ad un riconoscimento dei diritti delle coppie omosessuali, avendo più volte ribadito che solo il Parlamento, con la previsione di un’apposita disciplina ad hoc, potrebbe regolare i diritti e doveri dei tanti cittadini italiani che hanno scelto di vivere stabilmente con una persona dello stesso sesso. Di fronte all’evidente vuoto legislativo, dovuto anche al fatto che il problema delle unioni omosessuali non sia stato affrontato dall’Assemblea Costituente, il Giudice Costituzionale investe il legislatore ordinario affinché disciplini un fenomeno tanto diffuso nella nostra società quanto sconosciuto al nostro diritto. Per di più la Consulta sembra voler indicare una direzione precisa che, se da un lato conduce ad un “necessario” riconoscimento di diritti e doveri alle coppie omosessuali, dall’altro esclude che la realizzazione del riconoscimento possa avvenire solo con l’equiparazione di unioni omosessuali e matrimonio.
Ad oltre 4 anni dalla sentenza appena esaminata, il Parlamento italiano non ha compiuto alcun reale passo avanti, mentre la giurisprudenza italiana è andata avanti sulla strada indicata dalla Corte Costituzionale: nel febbraio 2012 il Tribunale di Reggio Emilia ha stabilito che lo straniero che abbia contratto un matrimonio fuori dall’Italia con un cittadino straniero dello stesso sesso, deve essere qualificato quale “familiare”, ai fini del diritto al soggiorno-ricongiungimento in Italia; con sentenza del 15 marzo 2012, la Corte di Cassazione ha affrontato la tematica del diritto di due cittadini italiani dello stesso sesso, che abbiano contratto matrimonio in uno Stato estero, di ottenere la trascrizione del relativo atto nei registri dello stato civile italiano. A questo riguardo la Cassazione detta il principio secondo cui il matrimonio contratto all’estero da due cittadini dello stesso sesso non può essere trascritto in Italia non in quanto “inesistente” ma perché inidoneo a produrre effetti giuridici sul territorio nazionale. In pratica, viene ribadito l’orientamento per cui il requisito della diversità dei sessi, pur se non previsto espressamente quale causa di invalidità del matrimonio, ne sia, tuttavia, un postulato implicito, talvolta persino emergente dal contesto letterale delle norme, come all’art.107, comma 1 c.c. Il diritto fondamentale a contrarre matrimonio, certamente previsto in Costituzione, è tuttavia in essa attribuito a persone appartenenti a sesso diverso, come risulterebbe dall’art.29 Cost. che, anche alla luce dei lavori preparatori, si riferirebbe all’istituto così come inteso dal codice civile.
Anche la Cassazione, poi, ribadisce che la normativa internazionale, che entra a far parte integrante del nostro ordinamento in forza dell’art.117 Cost. ricordato prima, non impone certo ai singoli Stati di garantire con istituti particolari i nubendi dello stesso sesso; a questo punto, però, la Suprema Corte introduce un ulteriore, fondamentale, sviluppo: certamente le norme internazionali impongono ai Giudici nazionali un’interpretazione delle norme del proprio ordinamento quanto più conforme alle norme internazionali/europee, così come interpretate dalle rispettive Corti di riferimento (in altre parole il Giudice italiano deve interpretare le norme italiane, nei limiti in cui il contesto letterale delle disposizioni lo permetta, alla luce dell’interpretazione fornita dalla Corte EDU). Di conseguenza la Cassazione constata che la interpretazione degli art. 12 e 14
[12] della Convenzione EDU da parte della stessa Corte di Strasburgo (Corte EDU) ha subito una forte evoluzione sul tema di cui ci stiamo occupando, mutamento giurisprudenziale che è giunto ad affermare che “
La Corte non ritiene più che il diritto al matrimonio di cui all’art.12 Cedu debba essere limitato in tutti i casi al matrimonio di persone di sesso opposto” (Corte Eur. Dir. Uomo caso Schalk-Kopf v. Austia, n.30141/04, 24 giugno 2010). La Cassazione conclude, di conseguenza, che la differenza di sesso dei nubendi non sia più requisito minimo indispensabile per l’esistenza stessa del matrimonio; esso, tuttavia, rimane in trascrivibile, ma non più per inesistenza dell’atto bensì per inidoneità dello stesso a produrre qualsiasi effetto nell’ordinamento giuridico italiano, considerata l’assenza di una sua regolamentazione in ambito nazionale. Sull’onda di questa decisione del Giudice di legittimità, il Tribunale di Grosseto (ordinanza 9 aprile 2014), ha disposto, per la prima volta nella storia della giurisprudenza nazionale, l’ordine per il comune del capoluogo toscano di trascrivere il matrimonio contratto a New York da due cittadini italiani dello stesso sesso. Ciò in quanto non è previsto nel nostro ordinamento nessuna regola che possa impedire la trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all’estero, non essendo esso contrario all’ordine pubblico
[13], e non è contestato che il “matrimonio estero” sia valido, quanto alla forma, se è considerato tale dalla legge del luogo della celebrazione. A ben vedere, l’ordinanza, che ha avuto discreto risalto nei mezzi d’informazione, impone una trascrizione che funge solo da mera pubblicità dichiarativa e non costitutiva degli effetti del matrimonio, come, “ovviamente”, precisa lo stesso Tribunale toscano. In altri termini, il paradosso della situazione è che, in ogni caso, il “matrimonio” dei due concittadini potrà produrre i suoi effetti tipici solo a New York e negli altri ordinamenti nazionali in cui detto vincolo è riconosciuto
[14].
In conclusione, pare opportuno riportare una notizia anticipata negli ultimi giorni dai media nazionali secondo cui il Parlamento italiano starebbe per esaminare un provvedimento legislativo destinato a regolamentare giuridicamente le unioni tra persone dello stesso sesso; il modello elaborato, con il coordinamento del Governo, sarebbe quello della “civil partnership” tedesco: le coppie omosessuali potranno iscriversi all’ufficio dello stato civile in un apposito registro dedicato alle “unioni” tra persone dello stesso sesso, potendo così usufruire della maggior parte dei diritti e doveri delle coppie eterosessuali sposate: reversibilità della pensione, diritto alla successione in caso di morte e possibilità di assistere il partner in ospedale e/o in carcere, nonché di partecipare ai bandi per l’assegnazione di alloggi popolari; una significativa limitazione viene prevista onde superare le prevedibili resistenze parlamentari: la coppia omosessuale non potrà chiedere l’adozione di un minore, anche se un partner potrà adottare il figlio dell’altro per garantire la continuità relazionale.
Non rimane che attendere le determinazioni del nostro Parlamento…
Spesso il matrimonio assomiglia a due gocce di grasso
che nuotano sull’acqua senza amalgamarsi.
Jean Paul Richter
“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
“La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali…”
KultUnderground n.81-DICEMBRE 2001 “Titolo V: grandi idee ma…”, di Alberto Monari
Cfr. KultUnderground n.3-DICEMBRE 1994: “La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”, di Alberto Monari
[14] Allo stato attuale, due persone aventi lo stesso sesso possono accedere all’istituto del matrimonio in 16 nazioni ossia Paesi Bassi, Belgio, Spagna, Portogallo, Canada, Sudafrica, Svezia, Norvegia, Danimarca, Islanda, Argentina, Uruguay, Nuova Zelanda, Francia, nel Regno Unito (Inghilterra, Galles e Scozia) e Brasile, in diciannove Stati USA (Massachusetts, Connecticut, Iowa, Vermont, New Hampshire, New York, Washington, Maine, Maryland, Rhode Island, New Jersey, Delaware, Minnesota, California, Illinois, Hawaii, Nuovo Messico, Oregon e Pennsylvania oltre alla capitale nazionale Washington, D.C.) e in alcune regioni del Messico. Altri 17 Paesi europei riconoscono varie forme di Unione Civile (fonte Wikipedia).