Vorrei scivolare dolcemente nell’oblio.
Vedo che il mio nome compare anche nelle parole crociate,
e ne soffro.
Licio Gelli
Il diritto all’oblio
[1], in altre parole il diritto di una persona a essere completamente dimenticata attraverso la rimozione del proprio nome da ogni mezzo o archivio di informazione pubblica, è stato tradizionalmente ricompreso tra i diritti della personalità, destinati cioè a garantire un equilibrato sviluppo fisico e morale dell’individuo, in quanto aventi ad oggetto attributi essenziali della persona umana
[2]. I diritti della personalità sono caratterizzati dall’indisponibilità, in quanto al soggetto non è consentito, salvo eccezioni, alcun potere dispositivo su di essi, dalla irrinunciabilità, in quanto non sono possibili atti dismissivi (es. cessione), dalla imprescrittibilità, in quanto non si estinguono per il non uso o per mancata difesa.
Tra i diritti della personalità assume grande rilevanza il diritto alla riservatezza
[3], nell’ambito del quale è stato individuato il diritto di coloro che, dopo un periodo o un momento di notorietà, vogliono rientrare nell’anonimato; in particolare quando la notorietà ha avuto, in passato, rilevanza penale (in relazione a notizie di indagini, condanne penali o ad altri episodi di cronaca), il
diritto all’oblio è stato definito da una parte della dottrina anche come “diritto al segreto del disonore”.
In ogni caso con la recente Sentenza della Corte di Cassazione (n.5525 del 5 aprile 2012), la giurisprudenza di legittimità ha raggiunto una tappa avanzata nella ricostruzione del diritto all’oblio come presente nel nostro ordinamento
[4]. Infatti, fin dal 1958 (Cass. 13/05 n.1563) e ancora 40 anni dopo nel 1998 (Cass. 9/04 n.3679), i Magistrati supremi avevano dato legittimazione a questa figura come autonoma situazione giuridica degna di riconoscimento, fondata sull’art.21 della Costituzione
[5]. In particolare si focalizzava l’attenzione sulla diffusione di notizie obsolete e non più attuali in rapporto alle esigenze di cronaca giudiziaria (una informazione che indichi il sig. Mario Rossi come responsabile del furto di una mela o dell’omicidio del proprio vicino di casa non può essere riproposta quotidianamente sui giornali, quando la vicenda abbia perso il pubblico interesse e non sia più attuale. Inoltre, nessun reinserimento sociale sarebbe possibile per l’ex malvivente se la comunità viene posta nella condizione perpetua di collegare il nome di questi al suo passato criminoso, rendendo di conseguenza impossibile la funzione rieducativa della pena come previsto dall’art.27 della stessa Costituzione
[6]). Tuttavia la prima e più recente delle sentenze menzionate ha il pregio di analizzare il rapporto fra il diritto all’oblio e i nuovi strumenti di diffusione delle notizie, internet in primo luogo. La Corte sancisce l’illegittimità della divulgazione di una notizia non più attuale e non puntualmente aggiornata rinvenibile dall’archivio web di un quotidiano; la divulgazione on-line comporta, come noto, una sorta di “intrappolamento” della notizia all’interno della rete, di conseguenza risulta necessario bilanciare correttamente l’interesse pubblico all’informazione con l’interesse del singolo privato a “essere dimenticato”, imponendo che le notizie vengano contestualizzate e aggiornate. Il soggetto cui appartengono i dati personali oggetto di trattamento e memorizzati in Internet, nell’esercizio del suo diritto all’oblio e controllo a tutela della propria immagine sociale, potrà dunque pretendere non solo la contestualizzazione e l’aggiornamento ma anche la
cancellazione dei medesimi, avuto riguardo alla finalità della conservazione nell’archivio e all’interesse che la sottende. Così nel caso specifico deciso dalla Cassazione, in cui l’indagato era stato successivamente
prosciolto dall’accusa (si trattava di un amministratore locale coinvolto in una delle inchieste del filone c.d. “Tangentopoli”),il comando della magistratura è stato categorico: il giornale online ha dovuto
cancellare la pagina contenente il nome dell’interessato.
Viene anche individuato nel provider, ossia nel fornitore dell’accesso alla rete ed ai relativi servizi, la figura responsabile dell’aggiornamento e della contestualizzazione delle informazioni, con la precisazione che lo stesso non risponde delle notizie divulgate tramite una testata telematica, qualora fornisca semplicemente la connessione alla rete, alla pari del gestore telefonico che non potrà certamente essere ritenuto responsabile per gli illeciti commessi dagli utenti nelle loro personali comunicazioni. Il quadro cambia nel caso in cui il provider non si limiti solo a fornire la connessione, ma anche ulteriori servizi come il caching (attività di raccolta temporanea di dati per rendere maggiormente efficace il successivo inoltro ad altri destinatari che ne abbiano fatto richiesta) o l’hosting (attività di memorizzazione di informazioni fornite dal destinatario del servizio e costituzione di uno spazio apposito sul server per siti o pagine web). In questi casi, il provider è responsabile qualora venga provato che conosceva l’attività o l’informazione trasmessa.
Per altro aspetto il motore di ricerca viene considerato mero mezzo tecnico in grado di reperire notizie nella rete ma non responsabile della circolazione ed immissione delle stesse nel web, un intermediario che si limita ad offrire un sistema automatico di reperimento delle informazioni, non certo tenuto a rispondere della permanenza delle notizie accessibili dal pubblico, trovandosi queste ultime nell’archivio del titolare del sito, unico obbligato a gestirle correttamente.
Ancor più di recente la Suprema Corte è tornata sul tema del diritto all’oblio con la sentenza del 26 giugno 2013, n. 16111, specificando ancora meglio la necessità di bilanciamento tra diritto di cronaca e diritto alla riservatezza dell’individuo, entrambi di rango costituzionale. L’essenzialità dell’informazione e l’interesse pubblico alla notizia sono, indubbiamente, elementi idonei a sacrificare il diritto alla riservatezza dell’individuo a favore del
diritto di cronaca: il “diritto all’oblio”, infatti, trova un limite solo quando sussista un interesse effettivo ed attuale alla diffusione delle informazioni, nel senso che il nuovo accadimento (nel caso di specie il ritrovamento di un deposito di armi nella zona di residenza di un ex-terrorista
[7]), deve trovare un diretto collegamento con le vicende al quale lo si vuole riconnettere, rinnovandone l’attualità; in caso contrario l’improprio legame tra le due informazioni si risolve in un’illecita lesione del diritto alla riservatezza, poiché manca la concreta proporzionalità tra la causa di giustificazione (il diritto di cronaca) e la lesione del diritto all’oblio.
Dunque, al di là della giurisprudenza che ne riconosce l’esistenza, non esistono leggi che definiscano il diritto all’oblio, né norme che impongano dei precisi tempi di permanenza delle notizie sul web. La Commissione Europea ha proposto, il 25 gennaio 2012, una riforma globale per la tutela della privacy degli utenti sul web che dovrebbe modificare le Direttive già vigenti (da recepire con normative interne ad ogni Stato membro), e introdurre anche un Regolamento, direttamente applicabile al pari di una legge ordinaria nazionale. I fornitori di servizi online sarebbero obbligati a passare dalla regola dell’opt-out (i dati dell’utente, a meno di una sua esplicita richiesta, appartengono al fornitore) a quella dell’opt-in (i dati appartengono solo all’utente, è lui a decidere come usarli); la proposta, ancora in fase preparatoria, ha raccolto da subito molte critiche secondo le quali la normativa toglierebbe alla rete la sua essenza originaria: Internet è ormai divenuto un enorme archivio di informazioni, unico nel suo genere, in cui tutto si conserva e nulla si dimentica. E se è vero che vivere in un mondo che nulla dimentica appare quanto meno discriminatorio per l’onore e la reputazione di persone che, pur avendo riportato anche una condanna penale divenuta definitiva, a distanza di molto tempo hanno pagato il proprio debito con la società, è altresì vero che imporre la cancellazione di pagine o dati su internet significherebbe aprire le porte ad una censura generalizzata della rete. Consentire la cancellazione di certe parole potrebbe portare alla ricerca infinita di nuove parole da cancellare?
Come e a che livello (nazionale o comunitario) disciplinare legislativamente la situazione giuridica del diritto all’oblio? Sarebbe opportuno, invece, per la giurisprudenza richiamare una clausola generale (diritto all’anonimato, alla riservatezza, alla piena reintegrazione sociale ecc.), idonea a ricomprendere nel suo raggio di azione tutti gli interessi emergenti, per mezzo della quale poter decidere caso per caso quale risarcimento o comportamento imporre al mezzo di diffusione delle informazioni, sia esso giornale cartaceo o testata/blog web, a fronte della richiesta dell’individuo a suo dire danneggiato? Il dibattito rimane aperto…
La coscienza umana in realtà è omogenea.
Non c’è oblio completo, nemmeno nella morte.
David Herbert Lawrence