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Babelfish – Gino Pitaro

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Babelfish segue I giorni dei giovani leoni a distanza di qualche anno, inserendosi in un percorso in cui autore e testo entrano sempre più in sinergia e  cimentandosi altresì con la misura tutt'altro che semplice del racconto breve. Babelfish infatti, uscito da pochi mesi per le edizioni Ensemble e già in ristampa, è una raccolta di 6 racconti apparentemente autonomi l'uno dall'altro ma con un' organicità sotterranea tuttavia visibile.
Pur mantenendo una scrittura che stilisticamente si può definire tradizionale, con questa seconda opera, Gino Pitaro sembra liberarsi da ogni traccia di presunto autobiografismo che si trasforma in archivio biografico di spunti garantiti e puntelli storici ma per riproporre una tessitura d'invenzione narrativa davvero nuova, appropriandosi interamente della scena fantastica e della sua ricostruzione anche in chiave realistica. Babelfish è un testo che integra appunto, fantasia e realtà, tracce di esperienza ricreate ad hoc e voli pindarici che annodano e impastano in modo visionario, centrifugandoli con sapienza, mondi diversi e globalizzati.
Se ne I giorni dei giovani leoni la visione del protagonista si muoveva all'interno di un'Italia che tra retaggi post-bellici e anticaglie etiche non riusciva mai a conformarsi alla misura dell'individuo rendendolo difficilmente collegabile con il contesto di riferimento, in Babelfish, protagonisti diversi e molto più sfaccettati sul piano della caratterizzazione, si muovono all'interno di un mondo dove la dispersione e lo scacco alienante delle grandi città, si espande universalizzandosi.
 
Da Pamplona a Londra, da Ginevra a Singapore, giochi prospettici che avvicinano e allontanano i personaggi, sembrano ricorrere, anche involontariamente, al mondo del cinema. Numerose infatti le fonti ispirative, prima fra tutte quella che rimanda a The others nel racconto Holly, che descrive con grazia foscoliana il rapporto tra vivi e morti, tra fantasmi e corpi reali. Nel racconto ambientato a Singapore intitolato Sakura invece, oltre a giocare metaforicamente con il tema nipponico delle farfalle, sembra proporsi un richiamo alla Madame butterfly di Cronenberg, già rivisitazione della versione pucciniana di una storia tragicamente morbosa tra un'orientale e un occidentale. Singapore è vista dal nostro autore come cuspide culturale e geografica, luogo di confluenza tra l’est e l’ovest del mondo, affascinante mescolanza di provenienze e di scambi, un luogo-non luogo “dove tutto fluisce e dove niente si trattiene” . E a proposito di Oriente e mondo interconnesso, questo approccio narrativo sembra avere molte comunanze anche con alcuni testi cinesi post-moderni che inquadrano la globalizzazione in una sfera di profonda contraddittorietà laddove ci si unisce allontanandosi, si percepisce mancanza di solidarietà perché ognuno è protagonista di se stesso e per se stesso eppure singolarmente si è sempre in tanti, si twitta e si chatta, si caricano profili, foto e avventure sui social, ci si wozzappa continuamente. Ma il mondo reale è sempre presente e a tratti diviene preponderante.
 
Dunque Babelfish, osmotica babele di culture e linguaggi, è un libro sulle stravaganti, misteriose e impercettibili contaminazioni che la globalizzazione rende possibili da un lato, aumentando il numero delle relazioni umane, ma difficili e impraticabili dall'altro, restituendo all'individuo solitudine e dispersione.
La narrazione si dispiega di fatto come un ossimoro: il mondo diventa un piccolo villaggio ma al contempo si percepisce nella sua grandezza. Ma Babelfish è innanzitutto viaggio nella fantasia, nello spazio che in quanto  occidentali ci pervade e ci proietta in luoghi "altri" ma ancor più è un viaggio nell'inconscio, immaginario collettivo di un Occidente che vive di fantasmi non riappacificati e di fraintendimenti comunicativi, linguisticamente e soprattutto culturalmente colonizzato da cibo e produttività orientali. Tuttavia, un po’ come lo sguardo dei cosiddetti “migrant writers”, il nostro autore non è mai deluso o stigmatizzante nei suoi incontri né tantomeno superficiale, è curioso e aperto semmai, tant’è che a proposito dell’idea di sentirsi “estraneo”, lo sentiamo esprimersi così: “Essere “estraneo” vuol dire molto: significa essere carta bianca, cogliere il sapore di mille opportunità senza occhi addosso e senza sguardi, senza il peso di convenzioni sociali acquisite.” Da leggere!

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