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Dietro gli occhi della tigre

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Osserviamo una foto, la foto di una tigre. Non c’è nulla di più oggettivo d’una macchina fotografica nel riportare la realtà, ci troviamo di fronte alla perfetta riproduzione del maestoso felino. Possiamo ammirarne l’acceso manto arancione, gl’occhi scintillanti, i denti digrignati in un ringhio minaccioso, nessun dettaglio viene tralasciato dall’occhio meccanico che si cela dietro il tecnologico dispositivo.
Eppure manca qualcosa. Nonostante il fedele realismo l’immagine è fredda, insensibile, ci lascia indifferenti, non comunica con noi.
Proviamo allora a muoverci nel mondo dell’Arte; troviamo un disegno, in grafite, raffigura anch’esso una tigre. Certo, ora i tratti saranno meno dettagliati, l’immagine avrà perso di realismo, ma almeno sentiremo il calore che si cela dietro la mano dell’artista.
Possiamo ancora scrutarne il muso solenne, la fila di denti acuminati, i baffi vibranti nell’etere; riconosciamo ancora nei tratti riprodotti l’idea del felino, ne udiamo quasi il ringhiare profondo.
Vediamo l’animale, ne percepiamo la vita, tuttavia continuiamo a osservare l’immagine di una tigre, non una tigre vera e propria.
Qualcosa continua a mancare… forse. Oppure qualcosa è di troppo.
Il vero problema, l’ostacolo che ci impedisce di percepire una tigre e non la sua immagine, è che nella foto, così come nel disegno, c’è troppo dell’uomo e troppo poco della tigre.
Quando guardiamo un animale, una pianta o un oggetto, essi non si presentano come meri fenomeni, ma si svelano nella loro essenza, è questo a renderli vivi, reali.
Per l’antico principio, risalente alla filosofia classica, secondo cui è il simile a conoscere il simile, per riuscire a rappresentare una tigre e non la sua immagine bisogna smettere di essere uomo e diventare tigre.
Franz Marc compie questa straordinaria metamorfosi quando dipinge la Natura selvaggia.
Basta guardare la sua versione del felino, ne “La tigre”, per trovarsi di fronte alla vera essenza del predatore; la sua figura è spigolosa, il manto è ridotto a un chiaro-scuro di colori, i dettagli sono ridotti all’essenziale. Ciò nonostante, occorre soltanto osservare quegli occhi scintillanti che risaltano nella buia foresta per provare un brivido silenzioso salire lungo la spina dorsale, per poter dire, finalmente: ecco, una tigre.
La razionalità, il pensiero logico, persino la vista, tutto ciò che rientra nei limitati schemi mentali tipici dell’uomo deve eclissarsi e lasciar spazio all’essenza stessa della Natura.
Come dirà egli stesso riferendosi a un altro quadro, “Il capriolo”, per rappresentare l’animale soggetto del dipinto non basta disegnare un capriolo, occorre che la Natura intorno “diventi capriolo”.
Lo stesso ragionamento si applica al dipinto della tigre. I suoi tratti spigolosi ma fluenti, aggressivi ma eleganti si riflettono nell’ambiente circostante, cosicché ogni cosa nel quadro trasuda la potenza e il vigore della tigre.
L’atto pittorico diviene quasi un’esperienza mistica, in cui il pittore abbandona il Sé per approdare a diversi gradi di coscienza. Crolla la visione antropocentrica, non basta l’occhio umano per conoscere poiché la vera realtà è totalmente estranea alle nostre elucubrazioni mentali; la vera realtà è primordiale, illibata, selvaggia, molto più simile alla natura stessa degli animali, perciò per conoscerla dobbiamo recuperare la loro innocenza, la loro semplicità.
Ma questo tipo di esperienza non rimane limitata all’atto di dipingere, al contrario Marc rende partecipe l’osservatore di questo nuovo punto di vista, ponendolo davanti alla tigre ma allo stesso tempo dietro gl’occhi della tigre, unica prospettiva da cui la fioca luce della Verità assume un significato più ampio.

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