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Il castello dei destini incrociati – Italo Calvino

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Spesso, si sa, le parole sono fonte di malintesi, talvolta grossolani, mastodontici e persin macabri, talvolta capaci invece di strappare possenti risate agli inconsapevoli fraintenditori.
Ragion, questa, per cui alle creature che popolano queste pagine, Calvino sottrae il dono della parola, lo ripone sotto chiave e zac! Bocche cucite per i protagonisti… Che null'altro posson ora far se non dignitosamente scegliere di “rassegnarsi graziosamente alla perdita della favella” .
Insomma, il romanzo del silenzio, per così dire, sicuro, ma ricordiamoci che il silenzio, dal canto suo, sa essere sapientemente eloquente e le modalità espressive, che non muoiono all'umido incresparsi di due labbra, di certo non soccombono di fronte al linguaggio vocalico defunto.
Ma prima, permettetemi: voi credete nel destino?
Alle sue innumerevoli e svariate (o infinite e illimitate?) variabili possibili?
Alle sue intricate e arzigogolate combinazioni di varianti inaspettate? I suoi giochi, poi, non di rado veramente bastardi…
E del non manifesto, dell'occulto, del destino ignoto appunto, la chiave esegetica che porta al bagliore della comprensione quanto appena citato, non è forse incarnata da ciò che  moltissimo tempo fa, nelle corti medievali, fu un divertissement un po' inquietante alquanto sinistro?
Non è forse contenuta all'interno dello straccio di stoffa scarlatta che la mano affusolata e riccamente ingioiellata di una zingara stringe sul suo grembo di veggente?
Le carte dei Tarocchi…  I pittoreschi Arcani maggiori con i cinquantasei Arcani Minori, Lame di spade, coppe, denari, bastoni legnosi…
Nell'intessere la tortuosa ragnatela narrativa di questo piccolo romanzo, che non si risparmia di confonderci e disorientarci con insistenza, Calvino si lascia sedurre e stregare dalla malia conturbante dei Tarot de Marseille, facendone un uso del tutto insolito; delucidazioni al riguardo nella presentazione del racconto da lui stesso redatta: “Ho cominciato con il mazzo dei tarocchi di Marsiglia, cercando di disporli in modo che si presentassero come scene successive di un racconto pittografico. Quando le carte affiancate a caso mi davano una storia in cui riconoscevo un senso, mi mettevo a scriverla […] “
Et voilà! Ecco svelato come l'arguto Calvino scelse di cucire la trama de “ Il castello dei destini incrociati “.
Ebbene, in codesta surreale magione si trovano riuniti cavalieri, dame, viandanti, principi e sovrani, condannati, tutti quanti, a un forzato mutismo per insindacabile giudizio della penna di Italo – e per questo, certo, attoniti, stupefatti –  tant'è, dalle loro bocche nient'altro che mugolii strozzati e poco piacevoli a udirsi! Ma sapete, fatalità vuol che d'un tratto il castellano sparpagli sul tavolo un mazzo di carte di tarocchi e in men che non si dica volano leste le mani fameliche dei presenti, si avventano voraci sulle carte patinate – nel medesimo istante, i signori qui radunati, sembra siano stati rischiarati dalla medesima illuminazione –  giacché in quelle minute figurine sfavillanti e nel significato correlato di cui ognuna di queste è portatrice, essi si riconoscono, si ritrovano, risalgono ai se stessi che furono.
“ Quel guerriero! Il suo sguardo mesto e incupito, ma sono io!Il Fante di Spade, datemi il fante di Spade! “  – pensa agitato il pover'uomo che in tutto e per tutto ricorda nelle parvenze quel Fante sommesso –
chi invece rivede se stesso nella posa spavalda, nell'arrogante e provocatorio cipiglio del Fante di Denari
chi, ancora, nella risolutezza dell'Eremita, chi nell'equilibrata e sovrumana ponderatezza emanata dalla Giustizia
le carte fungono, in un certo senso, da specchio e dalle combinazioni di ciascuna Lama affiancata alle altre (ogni Tarocco sfuma infatti il proprio significato e ne acquisisce uno specifico e particolare a seconda delle carte che lo accompagnano ) i qui presenti scorgono i propri vissuti, rievocano le proprie storie, par loro, insomma, di poter ripercorrere le travagliate vicissitudini che fin lì li condussero.
Ecco che strada facendo ci imbattiamo nell'Arcano numero 1, il cosiddetto Bagatto, effige di un mago intento ai suoi intrugli, ci ricorda vagamente l'alchimista seduto tra i commensali e il suo è un racconto già udito: come il Faust di Goethe questi, accecato dall'effetto bramoso che sortisce il possesso (era alla ricerca del segreto dell'oro), stringe la mano di Satana in un patto indissolubile; ora, può trasformare in oro il trasformabile e fondare, in qualità di sovrano, la Città Aurea. E come sdebitarsi? Il diavolo desidera le anime, certo, le anime di tutta quanta la città. Ma nessuno degli abitanti possiede un'anima, nemmeno l'alchimista, e come potrebbe essere altrimenti? Chiunque  scelga di stringere un sodalizio con il diavolo al caro prezzo della propria anima, sicuramente, un'anima, non deve averla.
Tocca poi al racconto di un giovane dalle fattezze regali e di bell'aspetto: sostando in un bosco a mezzo del suo peregrinare rimase affascinato, e non mancò di sedurre, una delicata fanciulla. Una volta colto il fiore e consumato l'amore in fugaci attimi idilliaci, il bel giovane se ne andò, abbandonando la bella giovinetta a se stessa.
Ma un momento! L'Arcano della Giustizia fa la sua comparsa schierandosi contro chi l'offesa ha inflitto. La fanciulla è figlia della foresta e la foresta è sacra alla dea Cibele; il giovane non ha soltanto sconvolto la sensibilità femminile, bensì ha scatenato l'ira del divino: s'abbattono le serve di Cibele sul corpo del ragazzo, denudandolo, straziandolo, torturandolo.
 
Ora, punto saliente, non di rado presente nella narrativa di Calvino, è la di lui bruciante passione per la dimensione epica, il mito, e quel che esso ci ha consegnato in eredità; ritroviamo così  la meravigliosa e adultera Elena esasperata dalla guerra che ha scatenato con la sua bellezza e il suo egoismo, intenta a scontare le conseguenze del male provocato, incontriamo l'Orlando dell'Ariosto imbestialito, logorato, fuori di sé, ridotto a una belva feroce senza senno poiché il senno lo smarrì per amor non corrisposto della principessa Angelica, assistiamo alle prodezze di Astolfo, angelo custode di Orlando, che vola nell'opaco regno lunare sede di ciò che gli uomini perdono, siano i sogni notturni di cui al mattino non si serba che un pallido ricordo, siano le soluzioni cui si potrebbe arrivare ma a cui, alla fin fine, non si giunge, siano quelle idee, quei pensieri, che bussano una sola volta alle soglie della coscienza per poi andar, in un lampo, per sempre dispersi nell'incosciente; proprio qui, in un'ampolla, riposa il senno svanito del nostro Orlando e il caro Astolfo, in nome dell'amicizia che li lega, si prodigherà al recupero del suddetto; una volta recuperata la ragione, lo sragionato Orlando riprende a ragionare e finalmente, del non corrisposto amore di Angelica, potrà farsene, serenamente, una ragione.
 
L'universo cui Calvino inneggia nelle sue pagine è il surreale luogo per eccellenza in cui il non-possibile si schiude alle diramate possibilità di divenire effettivamente possibile, di verificarsi, è il luogo in cui l'assurdo dissonante cessa di fare a botte con la ragione e balla armoniosamente con essa, è quel cosmo in cui si intrecciano mescolandosi immaginazione, mito, realtà, irrealtà; specialmente, non è da tralasciarsi che dietro al velo quasi fiabesco,  sovente intessuto di motivi epici, ricamato da Calvino, è presente il selvaggio ritratto di un'umanità che più umana non potrebbe essere, “umani troppo umani“ per così dire, con il loro bagaglio di angosce, disperazioni, peccati, virtuosismi, uomini viziosi, animati ora da buone intenzioni (ma il pavimento dell'Inferno è lastricato di buone intenzione, direbbe Samuel Johnson), ora da sentimenti disinteressati, puri e incondizionati ora infimi, ignobili, sporchi; per questo certo uomini imperfetti e limitati ma appunto, uomini.
Insomma, Calvino non fa nient'altro che riproporre i vissuti e le esperienze di esseri gettati nel mondo e d'altronde, come dimenticarselo, egli è figlio legittimo del '900, un '900 in cui addirittura le filosofie, che per secoli discussero di essenze e trascendenza, ritengono sia giunto il momento di farsi filosofie dell'esistenza e del qui-e-ora; la narrativa calviniana non è da meno, è una narrativa esistenziale, la cui costante è la vita nei suoi toni e nelle sue sfumature più vitali, energiche, umane, sì.
In fondo, pensate, non siamo tutti noi le creature che vivono nel susseguirsi di queste pagine?
Chi non è mai stata una traditrice Elena di Troia? Chi non si è mai sentito, foss' anche una volta soltanto, Orlando? Distruggersi per amore, impazzire per amore.
Chi non ha mai recitato il ruolo che qui spetta ad Astolfo? Sostenere un amico ad affrancarsi dal suo dolore, dar lui una, due, cento mani affinché questi riuscisse a ritrovarsi?
E chi non ha mai fatto il passo più lungo della gamba, provando a sfidare le leggi che ci condannano a essere uomini nel tentativo di una sorta di Babele improvvisata, proprio come l'alchimista? Quanti di voi avranno illuso e incantato per un effimero attimo di amore, lasciando poi l'altro solo con la sua disillusione.
A un tratto, sulla tavola, compare l'Amourex, l'Arcano raffigurante un giovane in mezzo a due donne, questa è la storia dell'Indeciso, l'indeciso che non sa scegliere poiché ogni scelta comporta una rinuncia, è l'altra faccia della medaglia dello scegliere il rinunciare, e l'indeciso non è capace di decidersi al riguardo; cosa vale la pena tenere? Cosa si può buttare alle proprie spalle? Ma non scegliendo, l'indeciso, non è nessuno, così verrà inglobato dal mare, gli abissi dello smarrimento, luogo simbolico della perdita e dell'annullamento di sé.
In quanto detentori della Scelta, è data a noi la facoltà di scegliere di non scegliere, lasciando così la vita a naufragare nella vita, in balia di se stessa, condannandola a viversi, o meglio, non viversi, da sola.
Ma non è la strada giusta questa. Il racconto dell'Indeciso ne è l'emblema lampante.
Calvino, ecco cosa vuol insegnarci: ci sprona a scegliere e, innanzitutto, a scegliere di scegliere.

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