Si è appena conclusa la stagione romana dell' Odin Teatret presso il Teatro Vascello di Monteverde con lo spettacolo dal titolo La vita cronica, eccezionale melting pot di tradizioni popolari e introspezione, dedicato ad Anna Politkovskaya e a Natalia Estemirova, entrambe giornaliste e attiviste russe assassinate rispettivamente nel 2006 e nel 2009.
Come sempre il teatro di Eugenio Barba va a toccare tutti i mondi possibili della comprensione e della ricerca umana per analizzarli, stigmatizzarli, accettarli e riscriverli in una koinè che è esplosiva e minimale allo stesso tempo. Barba, si sa, è uno sperimentatore di antropologia e un attento chirurgo dell'anima sociale della storia. La vita cronica è una pièce teatrale che attraversa e rielabora le migliori poetiche teatrali della tradizione, dalla tragedia greca alla dissoluzione dell'io di Beckett, ma tutto questo assume una connotazione, si potrebbe dire, ulteriormente rivoluzionaria. Tutte le arti infatti, contemporaneamente, si intersecano urtandosi e poi integrandosi per poi urtarsi ancora in un meccanismo di osmosi ondulatoria provocatorio e mai catartico (al termine dello spettacolo gli attori non escono a ringraziare ma scompaiono silenti lasciando il pubblico plaudente alle prese con la propria capacità di riflessione anche leggermente torturante). Il titolo anticipa già ciò con cui lo spettatore dovrà scontrarsi ovvero la rappresentazione della vita come “malattia cronicizzata”, degenerativa. La visione è quella di un mondo marginale di identità multietniche, proprio come la formazione della stessa Compagnia dell'Odin, che in un immaginario e non troppo lontano futuro post-atomico, resiste in condizioni disperate e di follia inseguendo le chiavi esistenziali, reali e simboliche, che consentano di accedere alla conoscenza e all'incontro con l'altro e dunque alla sopravvivenza, ma rappresentano anche un'architettura di illusione momentanea, di scacco incombente. E' teatro d'azione e d'interazione che vola sull'incubo e lo sa trasformare in vitalità ma soprattutto è la rappresentazione della fantasia, della musica, del gioco coreografico, del canto che si fa persino evocazione cinematografica sfiorando la poetica di Kusturica e in controluce anche quella di Kaurismaki. Una giostra coloratissima di personaggi tra cui una rifugiata cecena, un musicista pop-rock, un avvocato danese, saltellano con veemenza su un palco dalla doppia quinta raccontando la propria storia e utilizzando oggetti del quotidiano banali e kitsch che si relazionano agli attori quasi animatamente. Nessuno è davvero protagonista ma la narrazione, sebbene assurda, si snoda intorno alla figura di un ragazzo alla ricerca del padre che si aggira tra un manichino, una porta scardinata che carica sulle sue spalle in attesa dell'entrata giusta, una cassapanca/bara, dei ganci da mattatoio appesi, carte da gioco, ali celesti di peluche, un tozzo di pane. Non mancano altresì spari in aria e scene pirotecniche di guerra proprio perché l'estremizzazione drammaturgica va di pari passo con l'esasperazione temporale che connota i conflitti di ogni tempo e spazio e li avvicina nella simultaneità del contesto geografico. Sulla scena esplode l'identità di un'umanità sbandata per l'assenza di riferimenti e così saltano anche i generi, i confini. Femminile e maschile si intrecciano ambiguamente, si sdoppiano, si alternano senza comunicare. Un sogno sconcertante.