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Nessuno sa quando il lupo sbrana – Maddalena Capalbi

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Ed. La vita felice, 2011

È uno di quei libri che restano a lungo su un comodino o una scrivania per cause varie, dopo una prima lettura, talora veloce, ma che non ti lasciano e che di tanto in tanto si sente il bisogno di riavere tra le mani. Così mi è capitato col volumetto della Capalbi, colpita subito dal contenuto ustionante ma anche dalla capacità dell'autrice di tenere a bada tale magma ribollente, in modo che il verso, sempre lucido, non perdesse mai l'eleganza formale. Una sorta di verismo poetico, simile a quello che i padri narratori, da Zola a Verga, impiegarono anche di fronte a spettacoli di indubbia difficoltà.
Mi sono domandata quale generosità o talento o grazia permette ad alcuni di essere così valenti nel confrontarsi con se stessi e ancora più abili nel rendere esplicita la propria sofferenza, che nel nostro caso ha l'ineccepibile qualità dell'arte.
In realtà, a ben leggere, il libro è il resoconto di uno straniamento. Sembra che l'autrice torni sui suoi passi quasi per verificare il senso della propria vita e per mettere a posto definitivamente ciò che le è capitato. Vuole sapere, ora che è donna e il tempo ha frapposto la sua distanza dal passato, quale nesso di causalità esiste tra la sua odierna maturità e le atmosfere conflittuali e disperanti che l'anno accolta alla nascita.
Secondo la psicologia pare che nell'essere umano funzioni proprio così. Confrontandoci con le nostre ferite e i nostri drammi, continuiamo con tenacia a rivivere e a immedesimarci nella condizione del disagio nel disperato tentativo di sanarlo, soprattutto quando la lesione è grave perché i capisaldi della nostra crescita, le figure parentali, non hanno occupato il posto che loro toccava. Tornare indietro per capire serve più di tutto a conoscere noi stessi attraverso le forze -positive o negative- che hanno fatto di noi quello che siamo.
Maddalena Capalbi sente dunque bisogno di affrontare il mondo che è girato intorno a lei durante l'infanzia e mentre si avviava a farsi donna, offrendoci uno spaccato preciso della sua famiglia, della casa e di altre figure contigue. Lo fa con una vasta gamma di sentimenti, compreso il desiderio di vendetta, e l'analisi è talmente accurata da non sottocere neanche particolari intimi e brutali, come in una seduta psicanalitica.
Mi nascondo/ anche dalle parole feroci che ho letto:/ non sono figlia dell'amore.
Già il titolo del libro dà l'idea di uno squarcio, di sangue vivo che sgorga e forse in quel pronome indefinito nessuno si cela l'ipotesi che alla fine tutte le vite per destino di specie siano complicate.
Il libro in verità è libro di solitudini, non solo quella dell'autrice che ha dovuto imparare a crescere, formandosi la sua visione del mondo e dei sentimenti da sola. Ha avuto compagne solo tensioni e passioni devastanti, attraverso le quali imparare la vita: di chi sono- mi chiedo?/ di quale paesaggio?
Sono descritti nel libro almeno tre mondi, il suo e quello dei genitori, che non comunicano, segnati ognuno a proprio modo. Come monadi impermeabili, ogni parola, ogni gesto attiene all'ambito di ciascuno e in questa guerra mai dichiarata si trova in mezzo la più giovane e più fragile.
La potenza della poesia, sia per chi scrive che per chi legge, è la prossimità del verso con l’io profondo, col nodo iniziale dell’emozione, spesso squarcio e pena, che definiscono e conducono la marcia della vita. Maddalena Capalbi si pone in questo ambito di autoascolto, toglie ad uno ad uno i veli che coprono la sensibilità, in una sorta di messa a nudo del proprio essere. È palesamento che richiede coraggio: un dono di sé che deve fare i conti con le leggi del pudore.
Ho nominato la psicanalisi perché il procedimento è lo stesso. Un ritorno all’indietro, alla cerchia familiare, alle luci, ma soprattutto alle ombre tra le quali si acquatta anche nel ricordo il lupo in punto di sbranare.
Si sa che la poesia è autoriparatrice al punto che Anne Sexton, che soffriva di un problema serio dell'anima, fu proprio incoraggiata dal suo psichiatra su quella strada. Chissà che sublimare nell'arte la propria vicenda non possa fungere da medicamento in ogni circostanza e quindi anche nel nostro caso.
Il libro si compone di due parti in forma poematica. Nella prima, l’autrice è al centro della narrazione, rivelando un’acuta percezione della durezza del reale, incarnato nei familiari. Denso è il confronto con la madre, anche lei impietosamente tratteggiata senza partecipazione.
Solo di rado il ritorno al tempo trascorso porta sapore di liquirizia e odore di panni stesi ad asciugare nel giardinetto col melograno e il nespolo al centro.
Nella prima parte la poesia è tanto vivida da assumere tratti di teatralità. In questa i personaggi si muovono su una scena, con compiti e intenti molto concreti. Allo stesso modo la parola si staglia sulla realtà, senza per questo rinunciare alla sua accuratezza.
Interessante è anche la seconda parte, dedicata ai giovani, che dovrebbero indicare il futuro e la speranza. Invece, mi pare che l'autrice tratteggi i giovani ancora una volta in un contesto di isolamento e abbandono, foreste pietrificate, nel quale il giallo non è il tocco del sole ma il respiro soffocato di un oceano di corpi. L'istantanea sembra rimandare una posa statica, come se l’autrice traesse la foto di una generazione che non si sa se manterrà i toni vivaci della realizzazione e della libertà.
Dal punto di vista stilistico la Capalbi è abile tessitrice di versi che fanno della naturalezza il loro canone.
Inutile cercare lessemi titolati. Il linguaggio è quotidiano ma ben elaborato. Non si notano forzature e artifici stilistici, così che il tono colloquiale e sommesso, la cadenza lenta rendono ancora più conturbante la lettura del testo.

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