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Le nostre assenze

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Intervista a Sacha Naspini
 
Ho cercato più volte di trovare una definizione per l'ultimo romanzo di Sacha Naspini, Le nostre assenze (Elliot – 2012). L'unica che, alla fine, mi convince più di altre non attiene alla sostanza dell'opera e alle vicende narrate ma all'incedere del ritmo narrativo: un romanzo in crescendo. Il crescendo riguarda la vita del protagonista, a partire dall'infanzia trascorsa in Italia fianco a fianco con un bambino (Michele) che appartiene a una famiglia povera inserita in un contesto di disagio e che viene da lui considerato alla stregua di un parassita. Il romanzo prosegue con una parentesi in America segnata dal desiderio di consumare una vendetta, e infine nell'ambito protetto e ritirato di un esilio autoinflitto nel quale cercare la protezione che, nella vita, il protagonista si è dovuto guadagnare con la forza. Lascio l'analisi del romanzo alle parole di Sacha Naspini, uno scrittore che dimostra come la qualità possa andare a braccetto con una produzione sempre più prolifica.
 
 
I N T E R V I S T A
 
La lettura di Le nostre assenze mi ha fagocitato in maniera ipnotica, facendomi scendere insieme al protagonista lungo le spire di una vita che stritola e che costringe l'anima a dirigersi sempre più verso il basso. Pensi che non valga la pena narrare storie più rassicuranti?
Penso che bisogna raccontare storie che valga la pena leggere. E ancora: non dare in pasto ai lettori qualcosa che si aspettano. Ormai mi sembra il nodo cruciale di quest’epoca: cosa vuole la gente? E glielo danno. Il più delle volte si tratta di prodotti che hanno a che vedere con la distrazione pura, detta anche “intrattenimento a lieto fine”. Niente di disprezzabile, certo. E poi senti continuamente dire che a causa della crisi, le guerre nel mondo, gli stupri e i debiti da pagare, almeno quando si legge un libro che entri una ventata di conforto. Tutto comprensibile. Ma personalmente mi sembra poco onesto replicare a oltranza un plot che fa così: alla fine tutto si aggiusta. Il compito delle arti (tutte) non è quello di rassicurare, ma di scuotere, in ogni sua accezione.
 
Quindi per te cos’è, scrivere?
Di certo non si limita al fatto di costruire un “giochino da risolvere” – che non è male, anzi, ma il cuore di un’opera non può sempre battere lì. Insomma, mi sembra un’occasione sprecata. Se fai solo quello, per me sei uno che intrattiene e basta, senza boati nel sottosuolo. Invece mi interessa sapere se sai piegare la parola, quanto sai dire senza dirlo, e come. E mi interessa vederti in movimento, senza startene lì a ripetere la solita canzone che ormai tutti conoscono. Voglio vederti andare per la tua strada, anche, cercando di rendere giustizia a quell’immaginario lucido e delirante insieme, dal quale non sai salvarti, neanche per un secondo, ma che per te è tutto, e nonostante tutto. Possono pisciarti contro in centomila, ma tu vai avanti lo stesso, magari fischiettando tranquillo, le mani in tasca, e con la tua bella tigre famelica ancorata sulla schiena (tanto per citare Bukowski). È una stronza, quella, non ti dà tregua un momento. Tu la proteggi e ci lotti senza fine. Tutto un gioco per capire chi rende schiavo chi. Così nel frattempo cerchi di dirlo con le parole, con una storia. E l’unico obiettivo che hai, è che le tue pagine siano fiammeggianti. Insomma, qualcosa del genere.
 
Non è la prima volta in cui presenti la famiglia non come il fulcro positivo della società ma come l'origine dei mali che affliggono i protagonisti dei tuoi romanzi.
Ci sono storie in cui vale la pena raccontare l’humus dove si forgia il carattere di un personaggio, altre no. Le nostre assenze è una di queste, anche perché la suggestione alla vita del protagonista prende una certa piega lì, al centro di tutta una serie di accadimenti. Per il resto, la famiglia è un posto importante per tutti: prendono corpo i primi legami cruciali, è là dentro che l’occhio si abitua ai colori del mondo. Ma ovviamente la famiglia può anche essere una fogna a cielo aperto. Una fabbrica di malintesi, rancori, silenzi, attacchi di panico alle tre di notte e tutto il resto.
 
Non ho mai amato particolarmente i "romanzi della vita", in cui si stipa un'esistenza in poche centinaia di pagine, anche perché mi danno l'impressione che arrivati all'ultima riga le vite dei protagonisti abbiano consumato tutti i momenti degni di essere raccontati, condannandoli a un oblio che non auguro a me stesso. È una sensazione che, a posteriori, ritrovi in Le nostre assenze?
Amico mio, se hai una vita da stipare in poche centinaia di pagine reputati fortunato. Ci sono persone che se ne vanno lasciandosi dietro un foglio bianco. E poi, stando alla tua domanda, bisognerebbe estendere il concetto a ogni opera dell’arte, dalla notte dei tempi a oggi. Ogni libro, film, statua, dipinto o canzone per l’estate è un po’ un’istantanea, dove si racconta “quello che vale la pena raccontare”. Magari è roba che resta in piedi per secoli, ma quando vai a ficcarci il naso dentro, si narra sempre quell’istante lì, con quella voce. Il dopo è oblio puro, come dici tu. Da millenni, per esempio, uno dei finali più loffi ma tuttora in voga è il classico “e vissero tutti felici e contenti”, tanto per abbozzare. Insomma, chi se ne frega di quanti figli ha avuto Biancaneve: quello che vale la pena raccontare è altrove, e arrivederci. È morta quindici mesi dopo per una peritonite? Il pubblico sbadiglia. Ne Le nostre assenze racconto i primi trentacinque anni del protagonista, i suoi inferni, le sue conquiste a perdifiato. Poi ciao, ognuno per la sua strada. Si è ritrovato in altri casini? Ha sposato una bella donna? È diventato pazzo a cinquantadue anni? Ha fatto un viaggio avventuroso a Praga? Non ci interessa. Soprattutto a me.
 
Il mito dell'America contraddistingue maggiormente le generazioni precedenti rispetto alla tua e a quella del protagonista del romanzo. Ma in più occasioni è proprio lui a lamentarsi che l'America tanto sognata gli è stata portata via.
L’America nel libro significa tante cose. Il classico “sogno americano” è sicuramente tra le ultime.
 
"Cercavo quel momento da anni. Adesso che lo vivevo mi lasciava quasi indifferente". Sono così le vendette consumate troppo fredde?
Non è solo il fuoco esaurito di una vendetta. Il punto è darsi molto a una determinata cosa, nel frattempo la vita scorre ma il tuo dito della mente punta sempre quell’orizzonte preciso. Be’, può capitarti di raggiungere l’obiettivo. Se non sei uno bravo, rischi lo sgomento fulminante. Lo svuotamento. Può capitarti di avvertire un tonfo che significa “E ora?”. Almeno, questo è ciò che a un certo punto della storia accade al personaggio principale del libro. Ha fatto una lunga corsa, dove si è dato totalmente – tra l’altro compiendo scelte definitive, mandando a puttane un sacco di roba. D’un tratto si trova a tagliare il traguardo. È come se capitasse per caso al centro di una festa in suo onore, ma non gliene frega più niente. Perde il nord, ogni riferimento. Per capirci: possono essere cazzi.
 
"Ricominciare tante volte una vita e sentirlo sempre come un tentativo goffo". Quella di cui parli è l'inquietudine che deriva dai problemi irrisolti o un malessere insito nella natura stessa dell'uomo? Il protagonista de Le nostre assenze mostra i tratti dell'inettitudine alla vita?
È la condizione successiva a quella di cui abbiamo appena parlato: dover ricostruire un senso, cercare un nuovo obiettivo convincente – e sentito. Allora prendono il via tutta una serie di tentativi (spesso poco ragionati, schiavi di un istinto spiazzato). Credo che a tutti siano capitati momenti così. Ti ritrovi col castello di sabbia distrutto, sulle prime fa stomaco l’idea di rimetterne su un altro, ma non hai altra scelta. Alla fine sarei quasi dell’idea che il talento alla vita – o l’inettitudine – sta molto in quanto riesci a fregartene dell’eventualità di un terremoto improvviso. Voglio dire: l’immobilità, il correre al riparo anzitempo. Il protagonista del libro, a un certo punto ha un momento di questo tipo, di crisi totale, in cui si tiene (anche obtorto collo) fuori dal gioco per una decina d’anni. È un animale brado, prosciugato. Ma poi torna.
 
Si può dire che tu abbia un'anima piuttosto bohémien che ti ha spinto in giro per il mondo e a tenere un certo atteggiamento verso la vita. Tuttavia ti riconosci nel desiderio di un giovane di cercare un esilio, di "invecchiare là, in qualche paesino sperduto, solco dopo solco scavato sulla faccia?".
Cos’è che si può dire? M’hai fatto ridere.
Comunque sì, a volte ci penso – come tutti, credo. E mi piace l’idea di dovermi scegliere un posto dove trascorrere gli ultimi colpi di vita. Ovviamente, quel che vedo nelle mie proiezioni sfrenate, non te lo dirò mai.

 

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