Amico mio, se in questa vita non diventi pazzo,
significa che non sei normale.
antico proverbio africano
Ogni persona possiede la “capacità di agire”, che la dottrina giuridica definisce come l’idoneità del soggetto ad acquistare ed esercitare da solo, con il proprio volere, diritti soggettivi e ad assumere obblighi, o, in altre parole, “è l’attitudine a creare, modificare, estinguere uno o più rapporti giuridici da parte di un soggetto di diritto”. Il minore di diciotto anni è capace giuridicamente, ma incapace di agire in senso giuridico, poiché la legge lo presume incapace di occuparsi dei propri interessi; infatti la
capacità giuridica si acquista con la nascita mentre la
capacità di agire si acquista a 18 anni, con il raggiungimento della maggiore età
[2]. Fino a diciotto anni la di capacità di agire è tutelata dai genitori i quali sono i rappresentanti legali del minore. I genitori, infatti, compiono per il figlio minorenne, tutti gli atti di ordinaria amministrazione necessari e, se si tratta di atti di straordinaria amministrazione (es. vendere e comprare immobili, accettare eredità ecc…), devono anche chiedere l'autorizzazione al Giudice Tutelare (art. 320 del Codice Civile), Magistrato monocratico, designato, in particolare, ad avere competenza sulla concessione di “
tutele” e “
curatele”, nell’ambito di ciascun Tribunale.
Generalmente la capacità di agire si conserva fino alla morte, tuttavia può accadere che intervengano durante il corso della vita, o siano presenti fin dalla nascita, circostanze tali da rendere una persona incapace di provvedere autonomamente ai propri bisogni e, quindi, di gestire i propri rapporti giuridici. In quanto tale, il soggetto incapace deve necessariamente essere protetto e gli si devono impedire quegli atti con i quali potrebbe danneggiare la sua persona e il suo patrimonio.
La legge distingue una incapacità di agire “assoluta” (o totale), che deriva oltre che dalla minore età, anche dalla “interdizione”, e una incapacità di agire relativa (o parziale), che deriva dalla “inabilitazione”
[3]. I due istituti di tutela indicano uno
status che viene dichiarato al termine di un preciso iter e stabilito dal Giudice Tutelare, che nomina rispettivamente un
tutore o un
curatore[4]. L'
interdizione, prevista nei casi di infermità assoluta, ha come conseguenza la limitazione totale della capacità di agire. Il tutore, che deve comunque rendere conto al Giudice, sostituisce nel compimento di tutti gli atti la persona interdetta. L'
inabilitazione è ammessa nelle condizioni di parziale infermità mentale o in altre situazioni che possano essere lesive degli interessi e del patrimonio personale e familiare (ad esempio, dipendenza da alcool, droghe, mancanza di controllo delle proprie sostanze economiche). All'inabilitazione si è fatto ricorso anche per la tutela di persone sorde o non vedenti, in particolari situazioni di disagio. Il Giudice nomina dunque un Curatore: gli atti che eccedono l'ordinaria amministrazione possono essere compiuti dall'interessato solo con l'assistenza del Curatore. Questo non è “rappresentante legale” ma deve materialmente firmare gli atti di straordinaria amministrazione insieme all'inabilitato, valutando la loro opportunità preventivamente con il Giudice
[5].
A questi due strumenti giuridici per la tutela legale e patrimoniale “duratura” del soggetto incapace, se n'è affiancato un terzo, quello dell'
amministrazione di sostegno, introdotto nel Codice Civile, con la legge 9 gennaio 2004 n. 6
[6]. Il nuovo istituto risponde all’attesa di quella parte, non trascurabile, della società che deve far fronte a problemi che investono l'intero nucleo familiare per la presenza di persona non pienamente in grado di provvedere a se stessa; inoltre si è voluto assecondare quel diffuso sentimento che considera la
interdizione come una specie di marchio che distrugge la dignità della persona, e la riduce al rango di “cosa totalmente soggetta alla volontà di altri”. La malattia che è all'origine del giudizio quasi scompare, di fronte alla sensazione della perdita di dignità e di valore di una persona sfortunata ma, non per questo, meno amata. Per cui il valore dell'istituto quale strumento giuridico previsto a protezione dell'incapace, non alla sua emarginazione, assai spesso si perde, per esser visto piuttosto come ulteriore sanzione che esclude il soggetto dal consorzio degli altri, almeno apparentemente, normali. Questo sistema tradizionale aveva un grave limite, cioè quello di non prevedere “vie di mezzo” tra una totale privazione di capacità di compiere qualunque atto giuridicamente valido, e una sorta di capacità quasi piena, salvo che per certi atti per i quali occorreva ed occorre una speciale assistenza. La linea di confine era incerta, non essendo sempre facile distinguere tra capacità piena, semipiena e totalmente esclusa. D’altra parte, il limite grave dell’
inabilitazione era il suo essere strumento di pura conservazione patrimoniale, soprattutto inteso ad evitare pericoli di dispersione, non quale mezzo capace di consentire una gestione oculata e redditizia del patrimonio.
In ogni caso sono sempre stati numerosi i
“…casi in cui il soggetto è incapace a provvedere a se stesso senza che versi in stato di infermità mentale. Basti pensare alle situazioni che si producono nello stato terminale della vita, all’isolamento di persone socialmente deteriorate, alla cecità totale o parziale, ai portatori di handicap fisici, ai lungodegenti, ai carcerati, a episodi di alcoolismo non gravissimo, a forme di prodigalità per scarsa dimestichezza col mondo delle operazioni economiche, a situazioni di vita disordinata, a certa incapacità senile, e similmente. Tutte queste situazioni, quando non si traducano in vera e propria infermità di mente, o rimangono legalmente prive di ogni forma di assistenza, o la possono ottenere solamente forzando gli istituti dell’interdizione o dell’inabilitazione…”
[7].
La
ratio del “nuovo” Istituto è quella di “
tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente” (art.1 L.6/2004), che siano di più semplice e veloce applicazione rispetto alle comuni pratiche dell'interdizione o dell'inabilitazione. Vale la pena sottolineare che i tre istituti sono fra loro incompatibili: chi è interdetto non può essere inabilitato o avere l'Amministrazione di sostegno
[8].
In pratica, il Giudice Tutelare, venuto a conoscenza (per apposita richiesta o altra segnalazione), che una persona si trova in stato di difficoltà e compiuti i necessari accertamenti, può nominare con Decreto (emesso entro 60 giorni), un Amministratore di sostegno. La richiesta può essere avanzata dallo stesso soggetto beneficiario oppure dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, dagli affini entro il secondo grado, dal tutore, dal curatore o dal Pubblico ministero; particolare importante: i “responsabili dei servizi sanitari e sociali” direttamente impegnati nella cura e assistenza della persona, ove a conoscenza di fatti tali da rendere opportuna l'apertura del procedimento concernente l’Amministrazione di sostegno, sono tenuti a presentare al Giudice Tutelare relativa istanza (art. 406, III comma, C.C.).
Il ricorso deve indicare le generalità del beneficiario, la sua dimora abituale, le ragioni per cui si richiede la nomina dell'Amministratore di sostegno, il nominativo ed il domicilio – se conosciuti dal ricorrente – del coniuge, dei discendenti, degli ascendenti, dei fratelli e dei conviventi del beneficiario. Il Giudice Tutelare deve sentire personalmente il soggetto cui il procedimento si riferisce recandosi, ove occorra, nel luogo in cui questa si trova e deve tener conto, compatibilmente con gli interessi e le esigenze di protezione della persona, dei suoi bisogni e delle sue richieste, precisando che in caso di mancato colloquio, il Giudice decide comunque sul ricorso (art.407 C.C.). Allora si pensi al caso in cui l’assistito sia contrario alla misura. Un'ampia dottrina ha sostenuto che l'interrogatorio dell'interdicendo, nel caso analogo della procedura di interdizione, deve considerarsi vera e proprio condicio juris per l'accoglimento della domanda, tanto da farci ritenere che il legislatore della legge n. 6/2004 si sia “dimenticato” di introdurre una disposizione di cui si sarebbe avvertito il bisogno: quella di prevedere il potere del Giudice all'accompagnamento coatto dell’incapace “recalcitrante” nei soli limiti necessari per sentirlo e valutare la situazione.
Assunte le necessarie informazioni e sentiti i soggetti coinvolti, il Giudice tutelare dispone, anche d'ufficio, gli accertamenti di natura medica e tutti gli altri mezzi istruttori utili ai fini della decisione (art. 407 III comma C.C.)
[9]. Il Decreto di nomina dell'Amministratore di sostegno deve contenere l'indicazione, tra le altre cose, dell'oggetto dell'incarico e degli
atti che l'Amministratore di sostegno ha il potere di compiere in nome e per conto del beneficiario; se la durata dell'incarico è a tempo determinato, il Giudice Tutelare può prorogarlo con decreto motivato pronunciato anche d'ufficio prima della scadenza del termine (art.405 C.C.).
Ai sensi dell’art.408 del Codice Civile, la scelta dell'Amministratore di sostegno avviene con esclusivo riguardo alla cura ed agli interessi della persona del beneficiario. Esso può essere designato dallo stesso interessato – in previsione della propria eventuale futura incapacità – mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata. Nella scelta, il Giudice Tutelare preferisce, ove possibile, il coniuge (che non sia separato legalmente), la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, il parente entro il quarto grado ovvero il soggetto designato dal genitore superstite con testamento, atto pubblico o scrittura privata autenticata
[10].
Secondo l’art.409 del Codice Civile il beneficiario dell'Amministrazione di sostegno conserva la (piena) capacità di agire per tutti gli atti (esattamente indicati nel Decreto di nomina), che non richiedono la rappresentanza esclusiva o l'assistenza necessaria dell'Amministratore di sostegno. Il beneficiario può, in ogni caso, compiere gli atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana, ciò significa che l'Amministrazione suppone che il soggetto abbia conservato (e mantenga) una qualche “capacità naturale” che gli consenta il compimento di questi atti “elementari”.
Il successivo art.410 C.C. dispone che nello svolgimento dei suoi compiti l'Amministratore di sostegno deve tener conto dei bisogni e delle aspirazioni del beneficiario, dovendo, inoltre, tempestivamente informare il beneficiario stesso circa gli atti da compiere e il Giudice Tutelare in caso di dissenso da parte dell’amministrato; il che vuol dire che il “sostenuto” deve essere in grado, almeno, di comprendere ciò che gli si prospetta e di poter esprimere un dissenso.
L'Amministratore di sostegno non è tenuto a continuare nello svolgimento dei suoi compiti oltre dieci anni, ad eccezione dei casi in cui tale incarico è rivestito dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dagli ascendenti o dai discendenti. Ovviamente il Giudice Tutelare può convocare in qualunque momento l'Amministratore di sostegno allo scopo di chiedere informazioni, chiarimenti e notizie sulla gestione dell'Amministrazione di sostegno, e di dare istruzioni inerenti agli interessi morali e patrimoniali del beneficiario.
Per concludere, qualche interrogativo sorge in relazione ai poteri dell’Amministratore e alla scelta di affidare al Giudice Tutelare la individuazione degli atti che l'Amministratore ha il potere di compiere in nome e per conto dell'amministrato (articolo 405 V comma n. 3, e 409 I comma C.C.). Agire in nome e per conto di altri significa averne la rappresentanza. Secondo i principi generali la rappresentanza è conferita dalla legge o dall'interessato. Qui invece è conferita dal Giudice Tutelare, per negozi di volta in volta individuati, anche assai rilevanti dal punto di vista patrimoniale, per di più nei confronti di persona che non è totalmente incapace, e al di fuori di qualsiasi controllo del Tribunale collegiale. Se si tratta di persona non totalmente priva di capacità di giudizio, sia pure nell'ordinario, perché escluderla del tutto dalla partecipazione a decisioni che la riguardano? E con quale autorità un soggetto – terzo, come va di moda dire, ma in realtà primo, ossia gestore in prima persona degli interessi del minorato – decide di questioni che attengono al patrimonio di questa persona sostituendosi a lei, facendola davvero diventare oggetto di diritto piuttosto che soggetto? E degli eventuali danni che una cattiva gestione le abbia cagionato, chi ne risponde? Ancora maggiore è la perplessità se si considera che l'Amministrazione può essere disposta anche nei confronti di persona del tutto integra intellettualmente, e solo fisicamente minorata. A qual titolo costei può venire espropriata del diritto di decidere da sola delle proprie sorti e sostanze?
Per quanto riguarda l'ambito dei poteri dell'Amministratore, l'articolo 404 C.C. parla della impossibilità dell'infermo di provvedere ai “propri interessi”, e più volte la Giurisprudenza ha affermato che l'espressione non va intesa come limitata ai soli interessi “patrimoniali” (all’articolo 405 IV comma, si parla di interventi urgenti anche per la “cura della persona”).
Se l'Amministrazione viene disposta nei confronti di persona pienamente capace (solo con difficoltà temporanee), nessuna autorità potrà imporre interventi terapeutici senza il suo consenso. Violare questa libertà di non curarsi, garantita dalla Costituzione, integra il delitto di violenza privata in concorso, se del caso, a quello di lesioni. Altrettanto certo deve essere il principio che in nessun caso può considerarsi sintomo di “debolezza mentale” il rifiuto della cura. Chi non si vuol curare, o si vuol curare con metodi che la scienza ufficiale non approva, esercita un suo “sacro” diritto di libertà.
Ma il problema è più grave e delicato quando esso riguarda persone affette da “fragilità mentale”. Ribadendo che nell’Amministrazione di sostegno il presupposto è che la capacità di intendere e/o volere non sia totalmente esclusa, ogni trattamento medico presuppone, a sua volta, l'accettazione dell'intervento da parte dell'infermo. Al di fuori dei casi Trattamento Sanitario Obbligatorio
[11], la libertà di non curarsi è legge inderogabile, e nessun Giudice Tutelare potrà ordinare, in assenza di specifiche previsioni che lo consentano, pratiche mediche deliberatamente rifiutate dal paziente.
Poiché l'ispirazione ideale di questa legge, sta nel porsi come “strumento di servizio” per i deboli e i meno capaci, è bene che essa non possa divenire di fatto, contro il suo spirito e la sua volontà, strumento di prevaricazione e di violenza proprio verso chi vuol proteggere.
Le persone credono di essere libere,
ma sono solo libere di crederlo.
Jim Morrison
Originariamente gli art. da 404 a 413 regolavano l’istituto dell’affiliazione ed erano stati abrogati dalla l. 4/05/1983, n.184 (Diritto del minore ad una famiglia), che a sua volta ha dato origine all’affidamento temporaneo dei minori. L’affiliazione creava un vincolo assistenziale tra affiliante e affiliato, che comportava l’obbligo per il primo di educare ed istruire il minore.
La l. 6/2004 nell’introdurre il nuovo istituto piuttosto che aggiungere nuovi articoli all’interno del Codice, ha utilizzato la numerazione degli articoli che risultavano abrogati, con una razionalità nella tecnica legislativa non sempre consueta, per il legislatore italiano.