Laurana (Milano, 2011), pag. 239, euro 16.50
Tra Brescia, Chiari, Rovato, in pezzettini del Nord leghizzato, c'è un distretto delle disperazione, lo spazio sentimentale e altamente improduttivo riguardo a costruzioni di felicità dove l'esordiente e straordinario Gianfranco Di Fiore, che invece ha radici campane, ambienta il suo perfetto e giustamente non perfezionato "La notte dei petali bianchi". Qui che spedisce il protagonista della disperazione più grande che ci sia. Nella nebbia e l'intransigenza assoluta d'un grigio che scava nei capannoni delle fabbriche e nella testa delle comunità. Individuo per individuo che si mette insieme grazie all'odio sputato verso il migrante. E il nuovo arrivato non può che, in questo romanzo, procurare altra disperazione ai soggetti: con gli abusi e le violenze – importate – dall'estero e che s'accumulano alla violenza di padri italiani di stirpe (utili a distruggere il futuro mentale dei loro figli). Dunque il vigilante Dante, la guardia giurata brava a studiare la notte e i suoi frequentatori, a farsi azzannare prima dall'alcol e poi dal derivato emotivo del bere alcol – sopporta una madre vedova a sua volta battuta dal consumismo disperante. Ma oltre lo bere, il pedofilo e già massacrato dall'infanzia Dante ama pazzescamente la ninfetta Samira, che ha una famiglia musulmana integralista e un padre criminale. Una bambina che stordisce Dante. Con in aggiunta d'un abbandono che a sua volta infierisce sull'uomo. Lo sguardo di Gianfranco Di Fiore entra nelle disperazioni, le racconta aiutato da parole abominevoli e cariche di buio, di struggente bellezza ed elegante leggerezza. Nonostante proprio tutto. I dialoghi fra muti, ovvero i passi dove figlio e madre s'ascoltano senza alla fine dirsi parola alcuna, sono fra i meglio riusciti. La famiglia d'origine del vigilante, quella domestica ovvero e non la più larga ma pur ancora microscopica dei bar infine posto d'elezione di migranti rumeni e albanesi e senegalesi, è il centro del dramma esistenziale del protagonista delle vicende. Che poi solamente riesce a spiegare con la sua stessa presenza/esistenza/inesistenza e finanché inadeguatezza una crisi d'identità più generale anzi solo generale. In questo romanzo sublime si parla di convivenza e sconvenienza, quindi, la convivenza delle solite disperazioni ancor più disperate nel grigio intenso delle fabbriche settentrionali, fra disperazioni. Di sconvenienza quando si deve riflettere sulle possibilità quindi d'un incontro, al di là che sia fra migrante e autoctono, d'incontri in genere. Sui loro lasciti. Un esordio che farà molto parlare. Finalmente. Quest'opera di Di Fiore è destinata a essere letta, apprezzata, commentata. Quasi come fu "Il tempo materiale" di Giorgio Vasta. In più c'auguriamo, d'altronde, che l'autore Gianfranco Di Fiore, questo scrittore che ci consegna dolente e superba opera sia un nuovo riferimento.