KULT Underground

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Come un laccio blu

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Questoracconto è un piccolo omaggio alla bella e brava scrittrice Sabina Marchesi, lamia “cream”-inologa di fiducia, colei che, anziché peripezie inbalera, fa delle ottime perizie balistiche e mi insegna con cognizione di causaquali ossicini (umani, mica di seppia!) spezzare per scrivere storie piùnere del nero (questa volta di seppia ci sta).
Hovoluto dare l’occasione al mio Sauro di interagire con Olga, l’audacecentralinista erotica già protagonista di Sexy Thriller, il romanzo di esordiodi Sabina, scritto a due mani con la grande Claudia Salvatori per AlibertiEditore.
 
 
Iltecnico della compagnia telefonica stava trafficando sulla centralina,impegnato a collegare e scollegare fili mentre le linee, diabolicamente,continuavano a tacere. Irritata dal contrattempo Olga uscì sul terrazzino afumare una si­garetta, incurante del divieto che campeggiava a lettere cubitalisulla parete. Disagio su disagio, irritazione che si aggiungeva a irritazione.Però non era male quel tecnico, sotto le maniche arrotolate della camicia siintravedeva un certo tono muscolare e l’atteggiamento dell’uomo, intento al suolavoro, suggeriva una sorta di quieta consapevolezza delle proprie capacità.Non si affannava, non cedeva al nervosismo, sembrava totalmente calmo e padronedi se stesso, pur nel panico generale che, ormai, cominciava a impadronirsi delCall Center. Il fumo azzurrognolo saliva in morbide volute serpeggianti, l’ariafrizzante temperava di blu il cielo sgombero da nubi, illuminando quell’angolodi periferia di una luce promettente. Ma di uomini promet­tenti invece in gironon ce n’erano. Fatta eccezione per la guardia giurata, giù al portone, e peril parcheggiatore abusivo che vigilava sulle loro macchine, non c’era nessunaltro. Ecco perché, per un solo breve momento, perfino il tecnico dellacompagnia telefonica le era sembrato inte­ressante. Ma che ora si sbrigasseperché quello che Olga bramava davvero era che il collegamento fosseripristinato per poter tornare nel suo personalissimo mondo dove il sottilefilo di una voce poteva dipanare per lei sensuali spi­re di magia e passione.

* * *

–Dunque mi faccia capire bene. Lei gestisce un Call Center erotico dove sonoimpiegate, su tre turni diversi, almeno novanta ragazze. Vuol sapere da me seuna di queste in­frange il regolamento spingendosi a dare appuntamento a unodei suoi clienti. E pretende che io indaghi solo parlandoci al telefono?
–Per forza, è naturale. Mi pare proprio l’unico sistema possibile. Vede, lanostra sede si trova in una zona periferi­ca, l’affitto è ragionevole e tuttointorno ci sono solo uffici e capannoni. È chiaro che un via vai come quelloche gene­riamo noi, su tre turni, non può passare inosservato, ma la gentecrede che ci occupiamo di sondaggi e merchandi­sing. Se a qualcuna delleragazze venisse in mente di dare appuntamento a qualcuno, la nostrariservatezza andreb­be a farsi benedire in un attimo e io dovrei impiantare tut­toda capo da un’altra parte. Si tratta di un lusso che non posso propriopermettermi.
–Via, non credo che darebbero un appuntamento proprio nel piazzale davanti allavostra sede, non crede?
–Naturalmente no, nessuna di loro è così sciocca. Sanno bene i rischi cui vannoincontro, probabilmente scegliereb­bero come luogo del convegno un localepubblico, che a loro potrebbe anche apparire sicuro. Ma il tipo di uomo che sirivolge a un telefono erotico può anche essere peri­coloso. Qualcuno capace diseguirti fino a casa o al lavoro, per intenderci.
–Va bene, ma cos’è che l’ha messa in allarme in particola­re? Insomma, perché hadeciso di rivolgersi a me proprio adesso, mi pare che la vostra attività sia inpiedi da parec­chio tempo. Che cosa è cambiato ultimamente?
–Lei.
–Lei?
–Lei, è cambiata. Ma non le dirò il suo nome. Voglio che lo scopra da solo.
–Aspetti, mi faccia capire bene. Lei ha in mente dei so­spetti precisi suqualcuna delle sue ragazze ma non mi vuol dire chi è? Guardi che se noncondivide le sue informazioni con me partiamo male. Anzi, non partiamo affatto.Se sospetta di qualcuna in particolare me lo deve dire.
–No, non le dirò nulla, questo è l’assegno.

* * *

L’assegnoera ragguardevole. Praticamente parlava da solo, ma il lavoro nel contempo sirivelò piuttosto noioso. La maggior parte delle ragazze con cui ebbi a che fareesibiva al telefono un repertorio di piacevolezze erotiche piuttostoprevedibile, di una banalità disarmante. Oltretutto la parte del maschiofrustato non faceva per me. Non che loro se ne accorgessero, di psicologia nesapevano pochino, non appena credevano di aver intuito generi e preferenze par­tivanoin quarta con il solito copione di ansiti e sospiri, in­frammezzato da qualchesconcezza da saloon di quart’or­dine. Poi trovai lei. E capii subito quello cheil mio cliente intendeva dire. “Lei” era diversa.

* * *

Latesta reclinata all’indietro, gli occhi che inseguivano una macchia sulsoffitto, la pelle bianca della gola che palpitava a ogni parola, mentre lavoce roca e sensuale sembrava uscire direttamente dalle sue viscere, piuttostoche dalla bocca. Olga diventava sempre così, quando dall’altra parte trovavaqualcuno che sapeva come condurre il gioco. Allo­ra le fantasie dell’altrodiventavano le sue, il mondo che l’uomo voleva evocare era quello in cui anchelei avrebbe voluto vivere, le regole si uniformavano, gli scopi si sovrap­ponevano.Era allora che Olga voleva, disperatamente vo­leva, che il sogno diventasserealtà. E per far sì che questo accadesse, c’era un sistema solo.

* * *

Luile aveva dato appuntamento, anzi: le aveva “comanda­to” di andare là. E lei,docile, si era lasciata manovrare come una bambola. E come una bambola si erapreparata per l’occasione. I lunghi capelli dorati coi boccoli raccolti altisulla nuca, a scoprire il tatuaggio di una rosa che, col suo tralciorampicante, dalla sommità del seno si allungava verso la spalla lasciata nudadal top di raso color bronzo. Oro e bronzo: come la statua di un idolo paganoda conquistare.
Albar si erano appena intravisti, lei sapeva già quello che sarebbe successo. Illuogo dell’appuntamento, del resto, non lasciava adito a dubbi. Il Lounge Bardello Sheraton Hotel. Sapeva che ci sarebbe stata una chiave, una stanza daraggiungere, una scena da recitare, un copione da se­guire. L’avevano già fattotante di quelle volte al telefono che avrebbe saputo eseguire ogni passaggioanche dor­mendo, ma in quel momento invece non dormiva. Stava fremendo in ognisingola fibra del suo essere. Sarebbe sta­to quello giusto?

* * *

Perlunghi giorni mi ero interrogato su cosa avrei fatto quando sarebbe giunto ildunque. Per giustificare il mio compenso era sufficiente dimostrare che lei, edero certo che fosse proprio quella “lei” che il mio cliente sospettava, miaveva dato un appuntamento. Però poteva non bastare, se non si fossepresentata. E infatti ciò che mi ero ripro­messo di fare era essenzialmentequello: verificare che si presentasse all’appuntamento, scattare un paio difoto col cellulare per procurarmi le prove e poi dileguarmi, silen­zioso nellanotte, come il bastardo che ero. Ma quando la vidi davvero, qualcosa scattòdentro di me. Si era descritta per telefono, con quella sua voce roca cheinvece di allon­tanare gli uomini sembrava avvicinarli. Bionda, florida, benmessa, lunghi boccoli biondi, un tatuaggio che, da solo, era tutto unadichiarazione d’intenti. Ma non pensavo mai che fosse così. Camminava su unpaio di sandali alla schiava dorati, che le si attorcigliavano come serpenti super la ca­viglia ben tornita, portava un paio di pantaloni di raso co­lorbronzo così aderenti da sembrare calze, un top color oro che le lasciava scopertele spalle e uno spolverino por­tato con noncuranza, sciallato sulla schienacome fosse il kimono di una geisha. Oro e bronzo, un tripudio di abbon­danza edi calde promesse. Non so cosa mi prese, ma le passai davanti come se fossi ildio Pan, allungandole un fo­glietto con su scritto: “30 minuti, camera 18,laccio blu”. Avevo preso la camera in via precauzionale, non pensavo davvero diusarla, e quando le lasciai la chiave con quel folle biglietto non pensavonemmeno che la usasse lei. Vo­glio dire, me lo auguravo, ma non ci speravoproprio. Inve­ce, quando salii, trenta minuti dopo, lei aveva eseguito tut­toil nostro copione, passo dopo passo, esattamente come lo avevamo progettatoinsieme, giorno dopo giorno, du­rante quelle telefonate così roventi eimprobabili che an­cora oggi mi chiedo se ci siano state veramente.

* * *

Ilcursore lampeggiava sullo schermo, indicando la modali­tà della chiamata: “SSE:Simulazione Sesso Estremo”, una delle specialità di Olga che da qualche tempo,se possibile, sembrava essersi calata ancora di più nella parte. Il capo­turnoguardò con un filo di preoccupazione il visore, era uno dei clienti abitualiche, negli ultimi giorni, puntuale come un orologio, alla stessa ora,richiedeva i servizi della migliore tra le sue ragazze. Proprio quella che lopreoccu­pava di più. Si mise in cuffia, per ascoltare la conversazio­ne.
“Sonoin ginocchio davanti a te. Ho un sacchetto di plastica intorno alla testa, illaccio con cui lo stai stringendo è blu. È il tuo colore preferito, ricordi?Blu è la corda con cui mi hai legato i polsi dietro la schiena, prima dipiegarmi davanti a te, la faccia a terra, per aspettare la mia punizione.Mentre mi strattoni il collo senza pietà, trasformando il laccio in una garrotache mi impedisce il respiro, sento il tuo ginoc­chio che mi spinge sullaschiena, come quello di un caccia­tore sopra la preda. Stai per soffocarmi, loso, forse mori­rò, forse no. Ma questo dipende solo da te. Sarai solo tu adeciderlo. Sono nuda, inerme, semplice creta tra le tue mani. Ti appartengo, labocca premuta contro la plastica che lentamente mi sta uccidendo. Un respirosolo, ti pre­go… regalami un respiro.”
Olgasembrava trasfigurata, mentre recitava la sua parte, quasi posseduta dallafinzione. Ma stava recitando sul se­rio, oppure viveva quella scena nella suamente come se fosse vera?
Ilcapoturno scosse la testa e staccò le cuffie. Preferiva non sentire altro.

* * *

30minuti, camera 18, laccio blu“.
Hoaspettato che quei trenta minuti trascorressero con un bicchiere in mano albanco del bar. Le mani sudate, la gola serrata, il cuore a mille. Mio malgradoero intrigato, mor­talmente curioso, dilaniato tra dubbi e interrogativi. Equando la vidi alzarsi, la chiave serrata nel pugno, lo sguar­do rapito e ilpasso elastico, mentre si dirigeva rapida ver­so la hall, non riuscii aresistere. Volevo salire in camera, solo per vedere cosa avrebbe fatto, magiurai a me stesso che non avrei varcato la soglia.
Fudura, ma mantenni fede al giuramento, anche se rimasi impietrito sulla portaper diversi minuti, prima di richiude­re silenziosamente l’uscio e ritornaresui miei passi. La de­cisione forse più difficile della mia vita, ma non me nesono mai pentito.
Leiera lì, nel mezzo della stanza: aveva fatto tutto da sola e aveva speso benequei trenta minuti. La corda e il laccio blu, evidentemente li aveva già prontiall’uso, riposto con cura nella borsetta. Era nuda. Aveva avvinto il suo corpoin un delizioso sistema di nodi che le serravano la carne, un sofisticato intrecciodi cappi e legamenti che la cingeva tut­ta, come una vittima sacrificale su unaltare pagano. Un lavoro piuttosto complicato, visto che l’aveva fatto da sola.Si era perfino legata una corda al collo e aveva infila­to le mani in un altrocappio predisposto dietro la schiena. Mentre aprivo la porta ammirai la suacompostezza e il suo diabolico autocontrollo, sapeva che ero lì eppure nem­menouna singola fibra del suo corpo si muoveva. Perfetta­mente immobile come unidolo di pietra, solo il respiro af­fannoso sollevava il suo seno rigogliosoche svettava pre­potente di mezzo alle corde. Era bendata, non poteva ve­dermi,ma ero certo che percepisse la mia presenza. Si era collocata di fronte allaporta, nel mezzo esatto della stan­za, pronta per offrirsi a me in tutta la suapassiva sottomis­sione. Dovevo solo fare un paio di passi per raggiungerla estringerle quel laccio blu al collo per entrare in quel para­diso di passioneche tante volte mi aveva promesso, ranto­lando.
Nonne feci niente. Richiusi la porta lentamente, tornando sui miei passi, sapendoche mi avrebbe odiato per il resto della sua vita e che se avesse potuto,forse, mi avrebbe uc­ciso per quello che le stavo facendo. O meglio: per quelloche non le avevo fatto.

* * *

Tregiorni dopo consegnai il mio rapporto. Consigliai al mio cliente di stareattento. La reputavo un elemento pericolo­so. Il suo sguardo rassegnato, mentremi compilava un se­condo assegno, mi confermò che lo sapeva già. Ma non potevaallontanarla perché era il suo elemento migliore, mi disse. A malincuore dovevacomunque correre quel ri­schio.
Nontrascorse più di qualche mese che la notizia uscì sui giornali. L’avevoscampata bella. Mentre leggevo la crona­ca dei fatti me la figurai con gliocchi della mente. Nuda, bellissima, ebbra di sangue, a cavalcioni della suavittima che colpiva, colpiva e colpiva, in ampie traiettorie ellittiche mentreil coltello, prima di affondare ancora in quella pol­tiglia sanguinante che unavolta era stata un uomo, schiz­zava tutto intorno limpide gocce rotonde comeperle scar­latte. Se avessi varcato la soglia, quel giorno, ora al posto dellavittima avrei potuto esserci io. Mai esca era stata più promettente. Maiingranaggio più pericoloso era stato messo in moto. L’idolo di pietra si eraanimato, pretenden­do di riscuotere un prezzo equo, in cambio di tanta dedi­zione.Il tributo a una dea che portava ancora al collo, come un vessillo di vittoria,quell’incredibile laccio blu che per molte notti, ancora, sarebbe tornato aperseguitarmi.

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