SIGUR RÓS – VON / AGAETIS BYRJUN / ( ) Islanda, 1994. Nascono i Sigur Rós, nello stesso giorno in cui nasce la sorella del frontman Jón þór Birgisson detto Jónsi: la piccola Sigurrós. Il nome, piuttosto diffuso tra le donne islandesi, significa “Rosa della vittoria”. È l’atto di nascita di una band destinata a imprimere a fuoco il proprio nome nella storia del rock: per via delle sperimentazioni elettroniche, dell’elegante post-rock, alla Slint, di certe suite, dell’atipico e ipnotico canto di Jónsi, delle atmosfere sospese e incredibilmente rarefatte che il loro sound sa scolpire. In Islanda, in questi ultimi anni, sono nate interessanti band epigone: i Mùm, i Worm is Green. La matrice – la band madre di questo felice imprinting – sono i Sigur Rós. Fonte d’ispirazione esclusiva dei loro suoni sembra – è una piacevole e romantica suggestione, questa – essere esclusivamente lo spirito della loro misteriosa terra, l’Islanda. Negli ultimi quindici anni, l’isola ha insegnato arte nuova all’Occidente, mostrandosi motore nuovo e inesauribile d’un differente sentiero evolutivo: Bjork e Jónsi e compagni nella musica; Hrafnildur Hagalín in letteratura. Molto difficile non cedere al fascino magnetico che questa nazione e questo popolo vanno esercitando sulla nuova generazione: c’è qualcosa di incantato e di irresistibile nella magia delle loro creazioni artistiche. I Sigur Rós e i Radiohead – le più grandi band contemporanee – si stanno reciprocamente influenzando. È una leggerezza accostarsi a “Kid A” o “Amnesiac” senza aver ascoltato l’appena precedente Ágaetis Byrjun; impossibile, al contempo, non riconoscere una vena yorkeggiante nel canto di Jónsi. Nei primi due album, Von (1997) e Ágaetis Byrjun (1999) i testi sono in islandese, con due interessanti eccezioni: l’eponima Von e Olsen Olsen, cantate in una neo-lingua, ribattezza vonlenska (hopelandic). Lingua padrona dell’intero terzo disco, ( ) (2002). Non esiste una grammatica, né un dizionario per tradurla, s’affannano a spiegare i musicisti islandesi sul loro sito: si tratta di un codice disarticolato, composto da lettere amalgamate per pura questione di suono; pertanto, risultano di norma intelligibili, in stile Cocteau Twins. Il nome della neo-lingua viene appunto dalla prima sperimentazione: il brano Von (parola che significa, appunto, “hope”: speranza). Il canto di Jónsi è difficile da descrivere: è un falsetto assolutamente affascinante, che può ricordare insieme, come accennavo in precedenza, sia lo stile di Thom Yorke dei Radiohead, sia quello di Liz Fraser dei Cocteau Twins. Le influenze (almeno: quelle “dichiarate”) della band sono eterogenee: Jónsi è un fan degli Iron Maiden, il batterista Orri adora i Black Sabbath; nel sito ufficiale, i musicisti ammettono che l’unica comune influenza è Leonard Cohen. Influenza imprevedibile e comunque non ipotizzabile, a dar retta ai primi tre dischi dei geni islandesi: prendiamo nota con discreto stupore di questa rivelazione. Von: per registrare questo disco, la band – vittima di notevoli difficoltà economiche – ha dovuto ridipingere le pareti della sala d’incisione. Era il 1997: noi europei continentali non abbiamo potuto ascoltare questo disco, se non per via di fortunose importazioni, fino alla nuova distribuzione planetaria dell’album (2004). Abbiamo conosciuto i Sigur Rós grazie al secondo e al terzo disco: scrivendo nel 2005, posso avviare la mia analisi a partire dal principio del viaggio di questi splendidi talenti. Von è un album sperimentale, di ruvido rock elettronico. L’incipit è la disturbata Sigur Rós, dieci minuti di ouverture diabolica, prossima al precipizio nel suono puro; sembra di essere stati imprigionati in una torre senza porte, schiaffeggiati dagli spifferi di un vento gelido, mentre tutto attorno s’ascolta soltanto il suono di cristalli. Tintinnando, i cristalli gelano il sangue; progressivamente, irrompono delle grida. Ascoltando questo pezzo mi sono tornate in mente delle sperimentazioni dei Suicide, o del Brian Eno più psichedelico e cupo. Ma non è facile descrivere l’inferno di ghiaccio sprigionato da questo brano, nemmeno per reminiscenze e analogie. Sinceramente, è un pezzo micidiale. Quindi, Dögun (“Alba”): ancora una composizione quasi esclusivamente strumentale, prima deliziosa e onirica apparizione della melodia – è l’incredula gioia del risveglio dal dolore, della liberazione dal male; il canto guida ha la grazia liturgica del coro d’un’abbazia medievale; distende, purifica. È il principio del viaggio. Frammentato da un improvviso scroscio di pioggia, che divide Dögun in due momenti: ecco adesso lontane voci indecifrabili, intervalli, sospensioni totali: distorsioni, e ancora pioggia. Hún Jörð (“Madre Terra”) è inaugurata da chitarra grunge; finalmente ascoltiamo nitida la voce ibrida, d’angelo e di ninfa, di Jónsi. A dar retta alla traduzione, sembra un alter-padre nostro: concluso da un nitido “amen”, previa metamorfosi paganeggiante del primo verso. È una preghiera rock di sette minuti, misticheggiante e psichedelica. Adorabile. La batteria, al principio della seconda metà del brano, ha una ritmica non estranea ad Atrocity Exhibition dei Joy Division. Ecco: la sensibilità gotica e tenebrosa dei Sigur è chiaramente figlia della lezione di Ian Curtis, questo mi sembra sia chiaro. Leit Að Lífi (“Cercando vita”) è un intermezzo strumentale; comincio a sentirmi convinto che le fate abbiano inventato l’elettronica. Questa musica ne è prova. I Sigur Rós cambiano pelle in Myrkur (“Oscurità”): in stile My Bloody Valentine, onirica e sulfurea al contempo. Silenzioso interludio: 18 sekúndur fyrir sólarupprás (“18 secondi prima dell’alba”). Siamo entrati nella seconda parte di questo allucinata e postmoderna dimensione nuova. Dodici minuti di orchestrato delirio lisergico: è Hafssól (“Il sole del mare”): si canta di un sole che si risveglia dal letargo, si rinfresca con delle gocce di pioggia, si balocca delle fiamme, infine è padre di arcobaleni. Suoni davvero eterei. Si riveleranno eccellente sottofondo per diverse nuove sperimentazioni artistiche: invito ogni artista a provare, una volta almeno, a creare mondi con questo innesco. Buon viaggio, sul serio. Fatemi leggere, vedere e sentire tutto, dopo: muoio già adesso di curiosità. Veröld ný og óð (“Un folle e nuovo mondo”): sembra a un passo dallo scratch, è l’ingranaggio d’un’intelligenza artificiale impazzito e senza controllo; usciamo da questo abisso per conoscere la Speranza, Von: primo pezzo della storia dei Sigur cantato in hopelandic. Il battito della batteria è già decisamente famigliare; l’architettura del brano è l’embrione delle splendide creazioni dei successivi album dei geni d’Islanda. Una chitarra pizzicata mentre Jónsi s’inchina al suono puro e inventa: non so se sia dadaismo o poesia nuova, so solo che non ho mai ascoltato niente del genere e vorrei non finisse mai; c’è una dolcezza inesprimibile, e una grazia che soltanto antichi e mai abiurati déi potevano versare. Ecco Mistur (“Foschia”): due minuti e rotti di suoni – daccapo torniamo a essere sospesi in una sorta di casa popolata soltanto d’acqua, di cristalli e di campane. È un incubo. Syndir guðs (opinberun frelsarans) (“I peccati di Dio: rivelazione del redentore”). L’ouverture non può non sembrare la fonte prima della futura Svefn-g-englar – è diafana e diabolica ed angelica allo stesso momento. È nuova musica classica: ha un’intelligenza nuova rispetto al rock, il respiro dell’eternità e conosce le sorgenti prime della psichedelia. Impressionante. Rukrym (significa “Oscurità”, Myrkur: scritto al contrario) è una para-ghost track; è la reprise di Myrkur, come si può intuire, alterata e invertita a dovere. I Sigur non abbandoneranno, nei due dischi successivi, due vezzi già presenti in questo disco: il silenzio totale a spezzare in due parti l’album (è quanto accadrà nel terzo), la ripresa rallentata, invertita o deliziosamente alterata di frammenti d’una canzone presente nello stesso album (come vedremo avverrà nel secondo). Siamo nel 1999, a due anni di distanza dall’esordio. I Sigur Rós pubblicano Ágaetis Byrjun. Il nome significa “A Good Beginning”: un buon inizio. Questo, così vuole una prima versione della leggenda, è quanto dissero alla band quelli che ascoltarono la prima incisione del brano. L’Intro comunica immediatamente all’ascoltatore che sta per accostarsi a un album che manterrà le alchimie elettroniche e il magnetismo dell’esordio. Possibilmente, evolvendo e scintillando di ispirazione nuova: puro dream pop. Pelle d’oca, adesso, ad ascoltare le prime gocce di Svefn-g-englar (“Sonnambuli”), uno dei due singoli tratti da questo album. È una canzone che ha in sé qualcosa di terribilmente lugubre, per la sua stessa barocca maestosità, probabilmente – e non è solo la reminiscenza cinematografica (“Vanilla Sky“) a suggerirlo. Pure, il video aveva una sua diversa dolcezza: probabilmente è rimasto impresso a parecchi tra voi: gli attori erano della compagnia di down del “Perlan Theatre Group”. Danzavano in un prato, sembravano angeli. Il testo, tradotto in inglese, suonerebbe così: “I’m Here Again Inside You / It’s So Good Staying Here / But I Stay A Short While / I Float Around In Underwater Hibernation / In A Hotel Connected To The Electricity Board And Nourishing / Tyoowoohoo / But The Wait Makes Me Uneasy / I Kick The Fragility Away / And Shout I Have To Go / Help / Tyoowoohoo / I Explode Out And The Peace Is Gone / Bathed In New Light / I Cry And I Cry – Disconnected / A Ruined Brain Put On Breasts / And Fed By Sleepwalkers“. Quindi, la sperimentale Starálfur (“Un elfo mi osserva”), costruita su un gioco di commoventi violini palindromi. Flugufrelsarinn (“The Fly Freer”: “La mosca più libera”, credo) sembra uscita dal cilindro dei primi, psichedelici Mercury Rev; ma più intensi ancora, perché rallentati e naturalmente storyteller. Pop lirico e lisergico al contempo, un po’ alla Mazzy Star. Questo album pretende, tuttavia, di liberarsi dal passato: i Sigur si avviano su una strada decisamente personale e promettente, magmatici e inquieti e seducenti. Ny batterí (“Nuove batterie”) è stato il secondo singolo estratto: come la successiva Hjartað Hamast (bamm bamm bamm) (“Il cuore batte: bam, bam, bam”), è costruita con cerebrale lentezza e s’infiamma e ci inonda di scintille, progressivamente, poggiando un crescendo catartico ed enfatico (Scaruffi definisce Ny batterí come un “delicato e sbalorditivo carosello di sonorità”). Viðrar Vel Til Loftárása significa “È un tempo adatto a un bombardamento aereo”. Durante la guerra nel Kosovo, alla tv islandese il tizio delle previsioni del tempo, ironicamente, aveva coniato questa battuta. Che è desolante ed estremamente attuale, pensando a quanto è avvenuto ed avviene sul fronte mediorientale da qualche anno. C’è un pianoforte che lentamente s’impadronisce della scena, disegnando e intessendo, assieme ai violini, un tappeto sonoro elegante e atipico. Dieci minuti che possono restituire ai vecchi cultori dei Pink Floyd la sensazione che il tempo non sia trascorso invano, e che la lezione non sia restata inascoltata. Quindi, Olsen Olsen, in hopelandic: joydivisioniani (magister Hook) e malinconici, i Sigur indovinano una sinfonia postmoderna e pretendono, instancabili, d’essere avanguardia. Celestiale, una volta di più, l’interpretazione di Jón þór Birgisson. Curioso e ludico l’epilogo. Infine, la shoegazing e tenue Ágaetis Byrjun, sempre ospitata nella spettacolare colonna sonora di Vanilla Sky; è un brano intimista, che racconta quel che avvenne alla band a cavallo tra il primo e il secondo disco. Grazie alla provvidenziale traduzione inglese del testo, tratta, come le precedenti, dal fondamentale Always On The Run, possiamo capire cosa sta cantando Jónsi. Racconta di come la band reagì quando, per la prima volta, si radunò per ascoltare Von: s’accorsero che il sound non era all’altezza delle loro aspettative, ma erano tutti d’accordo: avrebbero fatto meglio in futuro, questo non era che un buon inizio: appunto, un Ágaetis Byrjun. Avalon, frammento di Starálfur rallentato, è l’epilogo di questo grande album. Tre anni più tardi, nel 2002, nasce il disco noto, tra gli spiriti rock, come “quello delle parentesine”: ( ) doveva essere registrato in una base dismessa della Nato, nel nord dell’Islanda: la band ha preferito cambiare rotta, dopo accorta ispezione, e rilevare un appezzamento di terreno ad Álafoss, presso Reykjavik. Hanno costruito uno studio, quindi hanno provveduto a spaccare il tetto per trovare l’acustica adatta all’incisione dell’album. L’album è stato proposto in modo piuttosto inconsueto: a voler essere franchi, appare splendidamente espressionista. Nessuna delle otto tracce ha un nome, nessun testo è comprensibile (tutto cantato in hopelandic), la copertina è bianca e ha una macchia al centro; sul retro, dello stesso colore, s’intravedono alberi spogli. Stop. Le sonorità sono eccezionalmente vicine al disco precedente: assieme sembrano costituire un unico corpus, shoegazer, dream pop, psichedelico e malinconico. S’accentua, in questo ( ), la già evidente propensione ai crescendo, e il talento per la sospensione delle atmosfere in una dimensione diafana e misticheggiante. Scriveva il grande Closer, nel 2002, su ciao.com: “L’impressione complessiva è quella di un’opera compatta, un lungo racconto (oltre settanta minuti) che nei vari episodi conosce momenti di estrema delicatezza, all’inizio di ogni brano, per poi crescere di intensità e densità fino a dare la sensazione di un magma che lotta per emergere da sotto una spessa coltre di ghiaccio, un ghiaccio che stranamente trasmette calore. Si attende un’esplosione, si crede che il getto bollente emerga all’improvviso con tutta la forza che abbiamo sentito crescere lentamente e inesorabilmente, ma a volte questo non accade, a volte il suono si ripiega, torna verso una dimensione inafferrabile. Quando invece il getto arriva in superficie, quando il suono si distende e si espande in ogni direzione, allora è una vera liberazione, una festa per i sensi. Non sono in grado di dire se avrei vissuto le stesse sensazioni senza avere goduto dell’esperienza del concerto, credo che ci voglia un po’ di pazienza per ascoltare questo disco, per entrare nella sua logica, per accettarne la lentezza ammaliante. È un disco che può sembrare affascinante ma tutto sommato noioso, soprattutto se ci si ferma sulla soglia, se si ascolta distrattamente e pescando qua e là. Bisogna avere il coraggio di varcare quella soglia, per raccoglierne l’incanto“. Aggiungo poco alle parole del maestro: mi limito ad annotare che anche la quarta traccia di ( ) è originariamente apparsa nella colonna sonora di “Vanilla Sky” di Cameron Crowe. Si dovrebbe chiamare, a quanto pare, Njósnavélin (“La canzone del niente'”). Al termine di questo brano, un intervallo di circa 40 secondi mostra evidentemente una frattura tra le due metà dell’album: una più tenue e una più aggressiva, stando a quanto dichiarano i Sigur nel loro sito. Termino questa lunga – e tuttavia ovviamente e inevitabilmente lacunosa – panoramica sulla storia e sullo spirito d’una band destinata alla gloria, con due grandi speranze: dopo aver ascoltato con immensa soddisfazione il glaciale ed ermetico recente Ep Ba Ba Ti Ki Di Do, mi trovo tra quanti non riescono a immaginare cosa possa significare l’annunciata (e temuta) “svolta leggera” della band. L’auspicio è che si sia trattato soltanto di una grottesca battuta del grande Jónsi. Non dovremmo aspettare ancora a lungo: il nuovo album è in arrivo. Seconda e ultima speranza: essere tra i fortunati che potranno assistere al sussurrato concerto della Rosa all’Auditorium di Roma, quest’estate. Ho l’impressione che si potrebbe trattare d’un’esperienza indimenticabile: nell’attesa, continuerò a varcare la soglia e a godermi l’incanto, come insegnava quel grande maestro. SIGUR RÓS Jón þór Birgisson (Jónsi) – voice, guitar, keyboards. 23/04/1975. Kjartan Sveinsson (Kjarri) – piano, keyboards, guitar, flute. 02/01/1978. Georg Hólm (Goggi) – bass, glockenspiel, keyboards. 06/04/1976. Orri Páll Dýrason (The Animal) – drums, keyboards. 04/07/1977. DISCOGRAFIA ESSENZIALE e BREVI NOTE (), MCA, 2002. Ágaetis Byrjun, Bad Taste, 1999. Von, Sm, 1997. Islanda, 1994. Nascono i Sigur Rós. Fondatori sono gli allora adolescenti Jón þór Birgisson, Georg Hólm e Águst. Quindi si unì alla Rosa Kjartan Sveinsson. Orri Páll Dýrason ha preso il posto del primo batterista della band, Águst, dopo l’incisione del secondo album, Ágaetis Byrjun. Jón þór Birgisson ha fatto parte di altre band: gli Stoned (1992-1993), una band grunge islandese, e i Bee Spiders (1995, con Kjartan Sveinsson). Nel giugno 2000, la band ha suonato a sorpresa in un negozio di dischi di Reykjavik, presentandosi come WHM (“We Hate Music”). Fonte delle informazioni biodiscografiche e dei testi: Sito Ufficiale / Always On The Run. Approfondimento in rete: Sito italiano non ufficiale / Ondarock / Pitchforkmedia.
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