Wilkie Collins Il Grande Innovatore del Romanzo Poliziesco
“tutto quello che c’è di buono e di efficace nella narrativa poliziesca moderna lo si può già trovare nella Pietra di luna. Gli autori più recenti hanno introdotto l’uso delle impronte digitali e di bagatelle dello stesso genere, ma in sostanza non hanno realizzato alcun progresso rispetto alla personalità o ai metodi del sergente Cuff”.
È il 1868 quando la classica detective novel stile inglese ripiega verso il romanzo giudiziario con il capolavoro di uno scrittore molto prolifico, cresciuto alla scuola Dickensiana, i cui principi di ispirazione canonici sono stati fusi con il gusto per l’orrido e il sensazionalismo francese della scuola di Balzac nella realizzazione di un’opera che è spesso, a ragione, considerata la pietra miliare del romanzo poliziesco.
William Wilkie Collins nato nel 1824 e morto nel 1889, esordisce letterariamente nel 1856 scrivendo una serie di articoli a sfondo poliziesco per la rivista Household Words.
Cresciuto alla scuola di Dickens, Collins torna da un viaggio in Francia, compiuto assieme al suo ispiratore e maestro, recando sotto il braccio un libro che sarà destinato a cambiare non solo la sua vita ma anche l’intero corso letterario del genere mistery, la Recueil des causes célèbres di Maurice Mejean, che riportava in una raccolta tutti i principali casi giudiziari di cronaca nera compresi tra il 1807 e il 1814.
Tecnicamente il primo romanzo di Collins risale al 1860, ispiratogli da un fatto personale realmente accaduto e improntato agli influssi balzachiani, La Signora in Bianco è un complicatissimo romanzo a tinte forti, che in sostanza preclude a quello che sarà poi il suo capolavoro definitivo, La Pietra di Luna, del 1868.
Favorito inizialmente dall’incondizionato appoggio di Dickens, che lo pubblicò a puntate sulla sua rivista All The Year Round, il romanzo era comunque destinato a rifulgere di luce propria avviandosi presto ad essere considerato in assoluto non solo la pietra miliare che segnò una svolta epica nel genere classico della detection novel, ma addirittura uno dei Must di riferimento dell’intera letteratura gialla di tutti i tempi.
È di Tomas Eliot la dichiarazione che “tutto quello che c’è di buono e di efficace nella narrativa poliziesca moderna lo si può già trovare nella Pietra di luna. Gli autori più recenti hanno introdotto l’uso delle impronte digitali e di bagatelle dello stesso genere, ma in sostanza non hanno realizzato alcun progresso rispetto alla personalità o ai metodi del sergente Cuff”.
E in effetti vanno tecnicamente riconosciuti a Collins dei grossi debiti di riconoscenza da parte del genere poliziesco di ogni epoca e tempo per aver introdotto, tutti insieme e per la prima volta, dei parametri rivoluzionari, poi diventati veri e propri costanti punti di riferimento per tutta la produzione successiva.
Sono sue insomma le linee guida del genere poliziesco, sapientemente tracciate nel suo capolavoro, e poi assurte a dogma della letteratura di genere.
Fu lui infatti, per la prima volta a introdurre in un romanzo la sospensione vigile del lettore in attesa dei sorprendenti sviluppi della storia, l’intreccio romantico sentimentale a corredo dell’intrigo di base, il gusto per certi aspetti umoristici che intervengono a spezzare il ritmo serrato della narrazione, la serie di eventi misteriosi a catena che uno dopo l’altro vengono svelati al lettore fino alla culminante risoluzione finale.
Suoi sono allora tutti i punti di riferimento costanti della letteratura gialla, senza i quali, da allora in poi, non sarà più possibile scrivere un romanzo poliziesco.
Influenzato dunque dalla lettura delle cronache giudiziarie dell’epoca, letteralmente affascinato dalla capacità camaleontica che i fatti hanno di mutare d’aspetto a seconda delle varie testimonianze rese, Collins ha la straordinaria intuizione di affidare la presentazione della storia non a un narratore onnisciente, o a un personaggio protagonista, ma bensì, a rotazione, a tutti i testimoni coinvolti nei fatti, chiamandoli uno dopo l’altro ad esporre la loro personalissima versione dell’accaduto.
In questo modo, oltre a rivoluzionare totalmente i canoni narrativi, Collins si assicura anche un duplice vantaggio, da un lato il romanzo fruisce di tutti i meccanismi che sono tipici della cronaca giudiziaria, e dall’altro l’enigma risulta ancora più intricato dalle testimonianze rese che, logicamente, sono parziali e di parte.
Mentre infatti il protagonista assoluto e il narratore onnisciente in genere sono perfettamente a conoscenza della dinamica di tutti gli eventi che si sono verificati nel corso della storia, i testimoni invece, possono rendere conto solo di quanto è accaduto alla loro presenza, e quando riferiscono gli accadimenti lo fanno influenzati dalle loro opinioni e dai loro tornaconti personali, distorcendo la realtà e filtrando le informazioni nella maniera più opportuna.
Ecco dunque che il romanzo non ha più dei protagonisti, che possono risultare simpatici o antipatici, ma dei comprimari, ognuno dei quali recita il suo ruolo sulla scena, richiamando a pieno diritto l’immedesimazione del lettore, che avrà così a sua disposizione una ricchissima serie di personaggi, tutti chiamati prima o poi a deporre in prima persona, tra cui scegliere.
Il lato intellettuale della sfida poi diventa ancora più stimolante proprio perché le informazioni arrivano a brandelli, perché i testimoni sono faziosi e di parte, perché ognuno rapporta quel che gli pare e come gli pare, e perché le lacune nelle testimonianze sono sempre tali da rendere per il lettore la competizione letteraria una vera e propria gara contro il tempo, fino all’ultimissima pagina.
Questi dunque i canoni di base di uno dei romanzi polizieschi più innovativi della storia della letteratura, che riassume in sé i germi e i fondamenti di tutta la produzione successiva del genere Mistery.
Negli articoli successivi approfondiremo le caratteristiche e la trama di un’opera che non può mancare nella libreria di un vero appassionato, e la straordinaria caratterizzazione del Sergente Cuff, che è l’antesignano di tutti i moderni detective creati nel secolo successivo, e fino ai giorni nostri, dallo straordinario ingegno di tanti autori di gialli e polizieschi che tutti, indistintamente, hanno pagato il doveroso tributo all’opera geniale di William Wilkie Collins.
Sabina Marchesi
Il Gotico Verghiano e la Suspense Narrativa
Risale al 1877 la novella di Giovanni Verga Le Storie del Castello di Trezza, pubblicata all’interno della raccolta Primavera e Altri Racconti.Come la definisce giustamente Sergio Campailla, tra tutte le novelle del Verga questa è in assoluto, la più complessa ed emblematica, la meglio rappresentativa di quello che sarà poi identificato come il “gotico verghiano”.
Il filone del romanzo popolare italiano, molto in voga nel primo novecento, trae direttamente le sue radici dalla fusione del romanzo tradizionale d’appendice con il feuilleton francese e il romanzo gotico inglese.
Una delle primissime produzioni italiane in tema di Romanzo Popolare è da attribuirsi a Luigi Natoli, con la sua opera I Beati Paoli, pubblicata a puntate su Il Giornale di Sicilia nel periodo compreso tra il 1909 e il 1910.
Uscito originariamente sotto lo pseudonimo di William Galt, i Beati Paoli è un romanzo di fortissima tradizione popolare, ampiamente illustrato da Umberto Eco nel suo saggio “I Beati Paoli e l’ideologia del romanzo popolare”.
È con Luigi Natoli che il romanzo popolare italiano inizia a pagare il suo doveroso tributo agli influssi neri del romanzo gotico inglese, portando anche alle porte di casa nostra la tradizione del romanzo d’appendice, tanto tipica del classico Feuilleton francese, naturalmente contaminandola, come è giusto che sia, con il retaggio e il gusto nostrani.
Si tratteggiano così i canoni tipici del genere.
Suggestioni ancestrali, antiche maledizioni, tenebrose leggende, turpi segreti, corsi e ricorsi storici, stirpi segnate dal destino, contaminazioni tra il mondo reale e quello sovrannaturale, mefistofelici influssi degli spiriti, implicazioni inespresse della morte, luoghi maledetti e misteriosi, sotterranei, anfratti, nascondigli, rupi, castelli, grotte, e angoli di natura incontaminata dove il panorama selvaggio e il brutale isolamento fanno da sottofondo alle gesta malvagie del cattivo di turno.
È il momento in cui la disciplina classica del filone storico si fonde felicemente con l’ideologia del romanzo popolare, dando origine a un genere letterario di grande attualità e di imperituro successo.
Non a caso nello stesso periodo del tardo Ottocento e primo Novecento moltissimi autori italiani, anche di insospettabile levatura, non disdegnarono affatto di cimentarsi in questo campo, in testa tra tutti due grandi nomi del nostro panorama letterario come quelli di Antonio Fogazzaro e Giovanni Verga.
Risale al 1877 la novella di Giovanni Verga Le Storie del Castello di Trezza, pubblicata all’interno della raccolta Primavera e Altri Racconti.
La trama risulta imperniata attorno ad un’antica leggenda siciliana, ambientata in un castello nel piccolo paesino di Trezza.
La guida del luogo sta narrando ai turisti la triste storia di donna Violante, andata infelicemente in sposa a un rozzo e arrogante barone locale, tale Garzia d’Arvelo.
Soffocata dalla turpe rudezza del marito, non amato e indesiderato, la giovane donna volge le sue attenzioni verso il paggio di corte, Corrado.
Culmine della passionale vicenda d’amore è il sacrificio di quest’ultimo che, per non essere colto in fragranza di adulterio, e per non compromettere definitivamente la sua amata, non esita a gettarsi dalla torre del Castello, pur di non essere colto in un luogo dove mai avrebbe dovuto trovarsi.
Sacrificio d’amore, e di onore, reso inutile dal dolore di donna Violante, che la notte stessa, perseguitata dal rimorso, risolve di gettarsi anch’essa nel vuoto, dandosi la morte.
A lungo nel paese si narra delle apparizioni del fantasma di Donna Violante che ancora torna sul luogo del misfatto a piangere dolorosamente l’amore perduto.
La visita al castello finisce, la comitiva di turisti torna all’aperto attraversando un ponte levatoio, tra la guida Luciano, e la bella Matilde, moglie infelice di Giordano, scaturisce qualcosa di indefinibile, vengono attraversati da corrente improvvisa.
Probabilmente posseduti dai fantasmi della sfortunata coppia di amanti, e comunque fortemente impressionati dalla vicenda, i due si fanno cogliere in atteggiamento sospetto dal marito della donna che, voltatosi all’improvviso a metà del ponte, li scorge in indecorosa intimità.
Ma Luciano e Matilde non faranno nemmeno a tempo a godere del loro subitaneo innamoramento perché, scossi da un improvviso richiamo dell’uomo, precipiteranno nel vuoto, cadendo nel precipizio sottostante lo stretto ponte levatoio e soggiacendo così al medesimo destino dei protagonisti della leggenda che aveva ispirato la loro improvvisa, subitanea, e impossibile passione.
Come la definisce giustamente Sergio Campailla, tra tutte le novelle del Verga questa è in assoluto, la più complessa ed emblematica, la meglio rappresentativa di quello che sarà poi identificato come il “gotico verghiano“.
Una storia fantasy di insospettabile modernità, destinata a rimanere impressa nell’immaginario collettivo assai più di tutto il resto della sua produzione letteraria, grazie proprio alle tenebrose suggestioni di antichi castelli, di terre lontane, struggenti e isolate, di insoliti destini, di fantasmi e revenants amorosi che la rendono perfettamente riproponibile e attuale anche ai nostri giorni.
È qui inoltre che Verga attua il suo realismo più spinto, introducendo per la prima volta in letteratura la classica “sospensione di giudizio” del narratore, attuata interamente allo scopo di lasciare indefinito l’esilissimo confine tra la spiegazione razionale e l’influsso soprannaturale, che l’autore, giustamente non poteva e non voleva superare, andando a rischio di rinnegare, facendolo, tutta la sua produzione letteraria parallela appartenente al filone del Verismo.
Ecco che così, sorprendentemente, il Verismo Verghiano riesce a fondersi col Gotico, nulla togliendo all’attendibilità di un autore che fu uno dei meglio rappresentativi della nostra cultura storica e popolare.
Non fornendo né suggerendo spiegazione alcuna al fenomeno narrato, Giovanni Verga pone di fatto le basi di tutta quella che sarà poi la produzione Fantasy della generazione letteraria successiva.
Per dirla con lo studioso Tzvetan Todorov l’essenza stessa del genere “fantastico” risiederebbe tutta qui, in questa palpitante esitazione del mostrare senza mai spiegare, dell’indicare una strada possibile, ma non percorribile, senza mai prendere dichiaratamente posizione in merito.
Fato ineluttabile o tragica coincidenza? Malinconico destino o mera casualità? Oscura maledizione o semplice congiuntura dei fatti?
Che sia il lettore a decidere, Giovanni Verga, da perfetto Verista, anche quando è Gotico, non indica mai il suo partito, illustra la realtà così come gli si presenta, e che ognuno ci veda quel che vuole vedere, consegnando intatto all’eredità dei posteri l’augusto bagaglio di quel magnifico meccanismo narrativo che oggi noi chiamiamo Suspense.
Sabina Marchesi