Malombra di Antonio Fogazzaro, 1881
Dopo Madame Bovary e Anna Karenina, Marina di Malombra è in assoluto uno dei personaggi femminili meglio riusciti della storia della letteratura mondiale, e sicuramente il personaggio femminile di maggiore suggestione ed incisività del panorama letterario italiano di ogni epoca e genere.
Dotata di una bellezza travolgente, di una personalità conturbante, e di uno spessore quasi diabolico, Marina di Malombra domina letteralmente su tutto il romanzo. Anima tormentata e confusa, vittima delle sue stesse passioni, incapace a vivere fino in fondo le pulsioni impetuose del cuore e dell’intelletto, rimane una figura indimenticabile e vigorosa, capace di lasciare traccia imperitura del suo passaggio nella mente di ogni lettore.
Forte nonostante la sua fragilità, questa donna vive da protagonista il suo destino fino all’ultima pagina. Sebbene sia in qualche modo succube degli eventi, è il suo animo fiero e indomito la tematica centrale del romanzo, un animo che non si piega all’eterna dicotomia tra concretezza e fantasia, dimostrando l’evidente incapacità di adeguarsi a una realtà che tutto sommato non riesce ad accettare.
È questa pulsione interna che spinge una donna ribelle ed orgogliosa a correre irrefrenabile verso una fine annunciata, scandendo le tappe di un viaggio inevitabile verso la follia. Tutto il resto, l’affresco sociale dell’epoca, dettagliato e convincente, la furia della natura, descritta in maniera mirabile, la caratterizzazione dei personaggi di contorno, ognuno dei quali è un piccolo capolavoro, fungono da mera cornice allo snodarsi delle confusioni mentali di questa unica, assoluta ed indiscussa interprete di uno dei romanzi meglio riusciti di tutti i tempi.
Pubblicato nel 1881, non fu la prima prova letteraria di Fogazzaro, in quanto preceduto da Miranda del 1874 e dalla raccolta di poesie Valsolda del 1876, ma risultò sicuramente l’opera che contribuì a farlo conoscere ed amare dal grande pubblico, forse ancora di più di quello che viene universalmente identificato come il suo successo maggiore, Piccolo Mondo Antico, di epoca ancora successiva.
In Malombra in effetti, a ben guardare, sono visibili molti segnali precognitori di quella che sarà poi la dicotomia tipica del Novecento letterario. I temi favoriti dall’autore in tutta la sua produzione, cioè quelli del mistero, del misticismo, della follia, dell’opera consolatrice della religione, della ragione contro la dottrina, del mondo reale contrapposto alla sfera spirituale e sovrannaturale, si evidenziano particolarmente qui in questo romanzo, annunciando di fatto la poetica che sarà poi caratteristica del filone della Scapigliatura e del Decantentismo.
Ma Malombra, non bisogna dimenticare, esce praticamente in contemporanea con I Malavoglia di Giovanni Verga, e rappresenta, per il Verismo, la raffigurazione, diciamo “aristocratica”, della realtà contemporanea, contribuendo a fornire uno dei maggiori affreschi sociali e culturali dell’epoca che mai siano stati tracciati.
Aderente dunque ai canoni della Scapigliatura Milanese, ma anche Verista, e soprattutto Gotico, si tratta di un romanzo sorprendentemente attuale, antesignano per certi versi anche del posteriore fenomeno del Romanticismo, in quanto qui protagonista indiscusso è l’animo umano, con tutte le sue complessità e contraddizioni.
Tipici del Romanticismo sono infatti gli incessanti contrasti, e confronti, tra passionalità dei sensi e sentimento religioso, tra pulsioni emotive e rigida morale, tra desideri ardenti e costumanza sociale.
Le lacerazioni dell’animo che, impotente dinanzi allo svolgersi degli eventi, non riesce in alcun modo a conciliare i diversi aspetti della vita, quello materiale e quello spirituale, l’incapacità di aderire agli schemi precostituiti di perbenismo all’interno di una costituzione sociale che va facendosi sempre più restrittiva, l’aspirazione artistica ad elevarsi sopra ed oltre le abituali consuetudini, l’illusione di essere sempre migliori e diversi da quello che si è, il tentativo pervicace ed estremo di valicare gli ultimi confini, andando oltre e sempre più avanti. Tutto questo fa di Malombra una pietra miliare del canone Romantico, grazie all’esasperazione della soggettività della protagonista, avvicinandosi a grandi passi al Decadentismo.
Solo le opere veramente mature come questa, possono recare al loro interno i germi e le ramificazioni di correnti letterarie tanto diverse tra loro e che comunque si fondono perfettamente in un compendio armonico, conferendo al romanzo tutte le connotazioni del moderno Thriller Psicologico.
La storia, nota a tutti, è di quelle che non si possono davvero dimenticare.
Condita egregiamente di tutti gli ingredienti classici della narrazione, inserita in un contesto sociale adeguato e ritrattistico come un vero affresco sociale dell’epoca, innestata in un’ambientazione naturalistica selvaggia e brutale che drammatizza gli eventi, contiene la giusta dose di misticismo e spiritismo, tesa a sottolineare la raffinata atmosfera sensuale, al limite estremo di un sofisticato erotismo mentale, la reazione esasperata al positivismo dilagante dell’epoca, e i sapienti accenni al paranormale palesati oltre la falsa maschera della maledizione di famiglia e della possessione isterica.
Ambientata in Lombardia, in un lugubre castello posto sulle rive del lago di Como, luogo incantatore e maliardo per eccellenza, che fu tanto caro anche al Manzoni, la vicenda narra di Marina di Malombra, di nobili natali, costretta a vivere in una sorta di malinconico esilio dallo zio Cesare d’Ormengo, che conta di trattenerla con sé fino al momento delle sue nozze, ancora tutte da decidere.
Di temperamento ribelle, portata alla malinconia, votata agli eccessi, Marina vive come una reclusione forzata questo suo isolamento e vaga per le stanze del maniero in preda a vere e proprie crisi mistiche o depressive.
Nel corso di questi suoi vagabondaggi erranti rinviene, casualmente, in un cassetto segreto di un antico scrittoio, delle reliquie appartenute alla sua ava, Donna Cecilia, madre di Cesare d’Ormengo e dunque nonna, anche se indiretta, di Marina.
Si tratta di una ciocca di capelli, di un medaglione, e di un memoriale, nel quale la sventurata donna narra della sua triste storia. Colpevole di adulterio nei confronti di un giovane e maliardo ufficiale di nome Renato, ella fu costretta a vivere segregata, o forse sepolta viva, nelle stanze più isolate del castello, fino a morirne.
Leggendo le memorie, sfiorando il medaglione, avvicinando la ciocca di capelli ai suoi, Marina crede di rivivere la stessa sorte, di essere quindi in qualche modo muta protagonista di una specie di passaggio del testimone ideale tra lei e la sua antica e sfortunata ava.
Ossessionata da questo pensiero fisso Marina si convince di essere la reincarnazione vivente di Donna Cecilia e di essere predestinata a subire lo stesso fato.
Quasi invasata e in preda a progressivi stati di allucinazione la Marchesa di Malombra perde definitivamente i contatti con la realtà quando conosce Corrado Silla, giovane studioso del quale si era già invaghita nel corso di un carteggio segreto, e di cui solo in un secondo tempo riconosce l’identità.
Una volta appurato che è proprio lui il focoso amante intellettuale del quale si era infatuata per iscritto, dopo il primo entusiasmo iniziale, i loro rapporti si raffreddano notevolemente allorquando Marina, ingiustamente, lo sospetta essere, in qualche modo, figlio illegittimo dello zio Cesare, e dunque interessato a chiederla in matrimonio solo per rientrare in possesso del patrimonio di famiglia, e non per vero amore.
Tra equivoci e risentimenti la situazione si fa sempre più tesa fino a che Corrado, sconvolto dagli atteggiamenti deliranti di Marina, abbandona Como per Milano, dove crede di trovare conforto nell’affetto di una fanciulla molto più cauta, remissiva e religiosa, anche lei in certa misura legata agli interessi del Castello di Malombra.
Sconvolta dall’abbandono, Marina Crusnelli di Malombra perde definitivamente la ragione e attenta alla vita dello zio, apparendogli improvvisamente la notte in camera e fingendosi lo spettro vendicatore di donna Cecilia.
Colto da malore Cesare D’Ormengo versa in fin di vita e un telegramma, firmato Cecilia, richiama urgentemente Corrado al maniero.
Sarà però il preludio non di una benefica riconciliazione bensì il pretesto per aggravare ulteriormente la tensione, fino al drammatico epilogo finale. Marina uccide con un colpo di pistola a tradimento il suo amato bene, e poi fugge nelle acque tempestose del lago a bordo di una piccola imbarcazione a remi.
Da questo viaggio simbolico, sballottata tra i flutti delle sue passioni mai domate, travolta dalle onde del suo spirito confuso e tormentato, in preda alla bufera della sua possessione satanica inutilmente mascherata da insana follia, e infine annegata nella sua incapacità totale di adeguarsi alla vita, l’emblematica Marina di Malombra non farà mai più ritorno, lasciando il lettore perplesso sulla riva, intento a meditare sulle eterne problematiche della psiche umana.
Sintesi estrema del malessere crescente dell’epoca Romantica, il romanzo rimane il capostipite di un filone letterario che non conosce tramonti in quanto analizza qualcosa che mai interamente potrà essere spiegato, a dispetto di tutti gli studi scientifici, parapsicologici, psichici, metafisici e religiosi che l’uomo potrà compiere.
Rimane da segnalare la caratterizzazione del personaggio di Corrado Silla, in cui molti hanno ritenuto di intravedere una sorta di autobiografia dello stesso autore. Considerato inetto ed incapace, perché dedito agli studi letterari, ardente ma cauto, animato da nobili sentimenti in apparente contrasto con le modalità sociali vacue ed ipocrite che lo circondano, Silla è vittima dei suoi tempi, anche lui un predestinato solitario e malinconico, costretto a soccombere davanti alle intemperie della vita.
Antesignano, dunque, dell’eroe decadente e romantico e personaggio sorprendentemente attuale che sintetizza l’imminente crisi dell’individuo del Primo Novecento, schiacciato tra spiritualismo e materialismo, tra religione e positivismo, tra intelletto e realtà.
“Pareva a Silla che se fosse possibile rappresentare una generazione con un uomo solo, come altri ha fatto per la umanità intera, la generazione presente verrebbe raffigurata in un uomo colto, acuto di mente e basso di animo, attivo, ambizioso, doppio, sensuale senza passione, forte di molta fede in se stesso, vantatore, malato d’umori vaganti che lo molestano sempre a fior di pelle e talvolta gli minacciano i visceri”.
Una menzione particolare va infine per le splendide qualità narrative di Fogazzaro che sa rendere, come fece anche Flaubert in Madame Bovary, il paesaggio e l’ambiente circostante veramente partecipi degli eventi, non già come spettatori, ma piuttosto come attori o un comprimari.
In maniera tale che il lago, le montagne, la fitta vegetazione, siano non solo cupi testimoni del dramma di Malombra ma vi prendano attivamente parte, recitando il ruolo loro assegnato con fosca teatralità, così come accade del resto per la inquietante brughiera e il vento selvaggio in quel Cime Tempestose di Brontiana memoria.
L’unica piccola lacuna che si può imputare a questo autore è il signorile distacco con cui usa abitualmente ritrarre la fascia “bassa” della popolazione. Nei romanzi di Fogazzaro, infatti, forse proprio a causa della sua provenienza “aristocratica”, le fasce umili vengono descritte sempre con un evidente senso di disagio. Evidentemente lo scrittore non si sentiva su un terreno abbastanza solido, come invece poteva sentirsi il Verga, nel descrivere stati d’animo, usi e abitudini della servitù, dei contadini o del popolo, e quindi, istintivamente, ripiegava su una sorta di bonario umorismo, che ne stemperava i toni, e le conseguenti, inevitabili, implicazioni sociali.
Riecheggiando le tematiche che furono poi tipiche di Oscar Wilde e di Edith Warton, risulta particolarmente indovinata la satira delle vacue passioni umane, dei facili intrighi amorosi, dei languidi piaceri della società bene, e delle raffinate ipocrisie mondane dei salotti, che qui fungono solo da fondale per la vicenda, ma che comunque non mancano di fare di questo romanzo uno dei più riusciti affreschi sociali dell’epoca.
In alcuni passaggi di sublime lirica poi Fogazzaro, tanto per dimostrare ancora una volta la sua attualità, tende a richiamare alla memoria gli eroi solitari e disincantanti, amari e malinconici dei più moderni Italo Svevo e Pirandello, dove non sarebbe difficile attribuire a un sempre più spaesato Zeno Cosini un brano di pessimistica considerazione come questo:
“La striscia nera della gente a piedi moveva lenta, assaporando l’ora dolce, l’aria pura, odorata di primavera e di eleganza, il rumor soffice delle carrozze, musica della ricchezza indolente, piena d’immagini tentatrici. E le signore, negli equipaggi di gala, passavano e ripassavano sotto la nebbia verdognola dei grandi platani, come Dee infingarde, fra gli sguardi ardenti, la curiosità invidiosa del pubblico, blandite da questi acri vapori d’ammirazione, fiso l’occhio al di sopra di essi, in qualche invisibile. Quel moto lento e molle, quella stanca inquietudine umana pareano consentire col nuovo turbamento, con le nascenti passioni della terra.”
Così, meditando sulla grottesca compattezza della folla di fronte al singolo, della umana, o disumana, capacità della massa di soffocare l’individuo e di renderlo ogni giorno di più simile allo sparuto simulacro di un essere umano, senza più volontà né pulsioni, privo di spirito e di autonomia, Fogazzaro si avvicina al nostro mondo, al disagio dell’uomo contemporaneo e alla crisi mistica dei valori che caratterizza il ventesimo secolo, riaffermando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, che nei grandi classici si può sempre trovare adeguato riscontro e insospettabile attualità.
Sabina Marchesi