Thanatos e Letteratura Un altro dei temi privilegiati in letteratura, dopo la malattia comunemente intesa come morbo fisico o follia psicologica, è la morte, che insieme al suo contrapposto, Eros, l’Amore, ha generato pagine e pagine di rara intensità.
Nell’antica mitologia greca Thanatos, il Dio della morte, è rappresentato nei panni di un uomo anziano, sinistro e barbuto, a volte alato, che avanza con le forme celate in un nero mantello. Eros e Thanatos sono eternamente contrapposti nelle culture antiche come anche in letteratura, venendo a identificarsi con il ciclo continuo della vita e della morte. Eros genera, crea, avvicina, riscalda e unisce, Thanatos distrugge, disperde, frammenta, allontana e separa per sempre ciò che è stato unito. Moltissimi autori si sono lasciati incantare da questo tema profondo della Morte, comunemente intesa sotto le sue varie forme, dando risalto a varie angolazioni di quello che è in fondo il momento supremo della vita di ogni uomo, che va incontro alla fine della sua esistenza, o è chiamato ad assistere, impotente, a quella dei suoi cari. Uno dei poeti per eccellenza, che insieme al Leopardi, ha fortemente improntato le sue opere alle tematiche della dipartita, è Ugo Foscolo, che già nel 1803 con il suo sonetto Alla Sera inizia a sviluppare quello che sarà poi il trionfo materialistico Dei Sepolcri. L’aldilà, il nulla eterno, la sepoltura delle esequie, la dipartita dei propri cari, sono tutti temi struggentemente affrontati dal Foscolo sull’onda del filone settecentesco dei poeti inglesi “sepolcrali”. Ma ben lungi dal rivestire tale evento di connotazioni mistiche e romantiche, il Foscolo lo materializza, riducendolo a quello che è realmente, la fine di un percorso naturale, il termine di un ciclo vitale, che va accettato, in virtù della ben nota legge che tutto quel che nasce è destinato a morire, nell’evolversi naturale della materia, dove tutto si trasforma in un mutamento continuo. Uniche consolazioni umane in questo processo di rassegnazione sono secondo il poeta le pietre miliari del ricordo e della memoria, che, sole, si frappongono tra l’essere umano e la sua miseria. Opponendo la perpetuazione del ricordo tra i vivi, Foscolo annulla la morte, e la rende accettabile per coloro che rimangono, perché solo l’oblio è la vera fine, solo l’annullamento conduce alla miseria, solo il nulla non sopravvive, mentre la memoria ed il ricordo rendono l’uomo immortale ed eterno. «Ahi su gli estinti / non sorge fiore, ove non sia d’umane / lodi onorato e d’amoroso pianto» «I monumenti inutili a’ morti giovano a’ vivi perché destano affetti virtuosi lasciati in eredità dalle persone dabbene» Anche Alessandro Manzoni, nei Promessi Sposi, rappresenta il suo credo nei confronti della morte, praticamente lungo tutto il romanzo, dove i personaggi si pongono diversamente nei confronti di questo evento, e spesso si contrappongono alle opinioni nutrite in proposito dall’autore. Manzoni affida la funzione della grande mietitrice alla grande pestilenza del diciassettesimo secolo, fenomeno ciclico che metaforicamente depura la terra e punisce l’umanità in flagranza di reato. Non concordando con tutto con questa visione biblica di punizione e castigo, l’autore tuttavia non si lascia trascinare, come in altri punti, ad esprimere una sua propria visionde della morte, ma preferisce affidarne l’interpretazione ai diversi modi dei protagonisiti di affrontare questo tema. Ed ecco che per taluni la peste è come “una scopa”, che ripulisce la terra, per altri è “un castigo” divino, per altri ancora, in determinati casi, è “una misericordia”. Il fatto che l’autore non si pronunci mai direttamente la dice lunga sul credo manzoniano, proprio da parte di uno che non si peritava troppo di esprimere direttamente il suo parere, quando gli pareva che fosse il caso. Sulla tematica della morte invece affida le sue sensazioni a frasi sparse, disperse nel filo narrativo, che in ogni caso sono estremamente rivelatrici. “Tutto è bene quel che finisce bene”. «”È stata un gran flagello questa peste; ma è stata anche una scopa; ha spazzato via certi soggetti, che, figlioli miei, non ce ne liberavamo più”» «Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso, perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli lontani; e che quando vengono, per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utile per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente, c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia» E non si può affrontare la tematica della morte senza pensare al Leopardi, autore morbosamente attratto dall’altenarsi nella vita dell’uomo della morte e del dolore. Nella concezione Leopardiana, tipicamente estremista, la morte non è solo un male a cui bisogna rassegnarsi, ma, vista in contrapposizione con il dolore, la malattia, e le pene dell’esistenza, arriva ad assumere addirittura connotazioni positive, come una sorte di miglioramento rispetto allo stato abituale dell’uomo, una liberazione dai laceranti dolori dell’animo. Per Leopardi la morte è un punto di arrivo, una soluzione finale, una meta verso cui tendere, un traguardo indolore e quieto, che rappresenta la fine di ogni tormento. «In te, morte, si posa / Nostra ignuda natura, / Lieta no, ma sicura / Dall’antico dolor» «La esistenza non ha in niun modo per fine né il piacere né la felicità degli animali» «L’esistenza è un male per tutte le cose che compongono l’universo» Anche la letteratura francese riporta classicissimi esempi di autori letteralmente ossessionati dalla morte. La fine di ogni cosa. Honoré de Balzac ad esempio in tutte le sue narrazioni ci rappresenta un ordinamento sociale talmente negativo che la morte non poteva non trovarvi il suo posto nello scalino massimo della scala gerarchica. I personaggi di Balzac sono talmente biechi, oscuri, negativi, ed arrivisti, che la loro spietata lotta per la sopravvivenza, a scapito gli uni degli altri, non può che condurre alla fine delle loro stesse esistenze. Ecco che la morte diventa il premio, non ambito, ma necessario, del terribile antagonismo sociale. Nel mondo di Balzac la rettitudine, l’onestà, il sentimento, la generosità, l’altruismo, pur se presenti e sublimati, rappresentano valori marginali, destinati ad essere soppressi ed emarginati, nelle lotte intestine dei vari personaggi. E’ il trionfo dell’arrivismo sociale, l’affermazione dell’apparenza, il predominio del potere. Ed è nel momento culminante, quello della morte, che i personaggi apprendono dolorosamente come la loro intera vita sia stata spesa alla ricerca dei valori sbagliati, come la loro ossessione per l’arrivismo e la glora, il potere e il denaro, si ritorca al fine su di loro, negandogli perfino il conforto di una quieta dipartita, accompagnata dall’affetto dei propri familiari. Ecco che Rastignac, giovane e imparziale osservatore di Papa Goriot, è l’unico ad imparare la lezione, quando Goriot , dopo aver speso una vita intera da piccolo borghese, alla ricerca ossessiva dell’approvazione della società, dopo aver sistemato entrambe le figlie in un ambiente mondano superiore alle loro possibilità, ottiene in cambio solo di morire solo, esiliato in un ostello, sopraffatto dai balli e dai fasti mondani. «”Il denaro procura tutto, perfino le figlie. Oh! Il mio denaro, dov’è? Se avessi dei tesori da lasciare, mi curerebbero, mi assisterebbero. Le sentirei, le vedrei. […]. Hanno tutt’e due un cuore di pietra. Il mio amore per loro era troppo grande per essere ricambiato. Un padre deve essere sempre ricco, deve tenere i propri figli a freno come cavalli infidi”» Per Emile Zola, invece, la morte assume diverse connotazioni a seconda delle opere. In alcune la tematica della dipartita ha una rilevanza tale da assurgere a metafora e condanna della società dell’epoca. E’ il caso di Nanà, romanzo del 1880, che racconta la storia di una mantenuta talmente bella e passionale, da incarnare il mito stesso della vita sociale e mondana del periodo storico di appartenenza. Nel Secondo Impero, sotto Napoleone III, la morte di Nanà, dopo una vita intera di clamori ed affermazioni, viene scandita al grido che sancisce al tempo stesso la fine dell’Impero e l’imminente conflitto franco-prussiano, che anticipava la prossima rovinosa sconfitta di Sedan. In questa metafora socio-politica, Nanà è la Francia dai costumi gaudenti e corrotti, una prostituta d’alto bordo che dopo aver lungamente vissuto, compiacendosene, nel peccato e nella dissoluzione, è condannata ad essere sconfitta. «Il gelo del cadavere le riprese, e smisero di parlare tutte insieme, imbarazzate, messe nuovamente di fronte alla morte, con la sorda paura della malattia. Sul boulevard il grido risuonava, roco, lacerante: “A Berlino! A Berlino! A Berlino!” […]. Nanà restò sola, col viso all’aria, nel chiarore della candela. Era un carnaio, un ammasso di pus e sangue, una palettata di carne marcia, buttata là, su un cuscino» Scapigliatura e realismo insieme incarnano in Camillo Boito il mito della morte, affrontata in maniera al tempo stesso romantica e positivista. Nel 1876, la piccola novella Il Corpo, ci riporta la bellissima storia di una fanciulla di nome Carlotta, e di un artista di lei perdutamente innamorato. Carlotta è la sua musa ispiratrice, la sua modella, la sua incarnazione del bello. Ma al tempo stesso la ragazza è perseguitata dalle attenzioni di un losco figuro, un medico, uno scienziato, un anatomista, che è attirato dalle sue fattezze bellissime, per carpire ad esse la natura materiale e fisica di tanta perfezione. Carlotta muore, scivolando in un fiume, il suo corpo recuperato dall’anatomista viene sezionato per studiare la fonte della sua materiale bellezza, ed ecco il predominio brutale della scienza, il trionfo del materialismo sull’arte. Non esente da un certo romanticismo nero che trascende verso il gotico, in cui il senso macabro della morte si fonde con l’orrido in un connubio indissolubile. «S’ella avesse amato uno spirito, l’amerebbe tuttavia, non foss’altro nella memoria; ma ell’ha amato una manifestazione fuggevole della materia, ed è naturale che, l’oggetto della passione cangiando figura, la passione svanisca.. Io amo invece questo corpo mille volte più adesso che prima, giacché contribuisce ad accostarmi al vero. Insomma, la sola cosa effettiva, la sola cosa reale, è la scienza. Il resto è illusione o fantasmagoria» Il grande scrittore russo Lev Nikolaevic Tolstoj affida invece alla tematica della morte la risoluzione delle contraddizioni di tutta una vita, quando, nel racconto datato 1886, La morte di Ivan Ilic, affida al protagonista una sentenza spietata nei confronti dell’ipocrisia e delle menzogne del contesto sociale dell’epoca. Ecco che il giovane Ivan Ilic, spesa una vita in osservanza dei principi e dei meccanismi di etichetta, di osservanza e servilismo sociali, di carrierismo e di sudditanza, arriva al punto da trovarli giusti, razionali, motivati, al punto quasi da trarre un sottile piacere dalla loro ossessiva meccanicità. Diventa uno squallido funzionario interamente votato al compiacimento dei suoi simili e dei propri superiori, in un annullamento totale della sua stessa esistenza. E’ solo in punto di morte, dopo lunga e dolorosa malattia, che scopre l’inutilità di tutti quei piccoli riti sociali, l’assurdità di certe convenzioni, la futilità della sua intera vita. La morte dunque si presenta come un angelo liberatorio e anche come un messaggero di pace, assumendo un ruolo affrancatorio nei confronti della rigida etichetta che lo aveva asservito per tutta la sua esistenza, ecco che con la morte è veramente libero di essere finalmente se stesso, e può liberarsi dalla maschera. «”Forse, non ho vissuto come dovevo…Ma se ho sempre fatto tutto secondo le regole?” disse a se stesso e cacciò via immediatamente, come qualcosa di assolutamente impossibile, quell’unica soluzione dell’enigma della vita e della morte» «E quando gli veniva di pensare che tutto questo succedeva perché non aveva vissuto come doveva […], subito si ricordava di aver vissuto sempre secondo le regole, e scacciava quella strana idea» Marcel Proust ne Alla Ricerca del Tempo Perduto, fa della morte un elemento separatore, che divide e lacera, capace di lasciare un vuoto, di generare un dolore lancinante. In un’interpretazione tipicamente classica di questo tema. Ma l’autore ce ne fornisce un’altra, molto più vivace ed originale, decisamente irriverente, all’interno del Volume La Prigioniera, nella rappresentazione della morte di Bergotte, lo scrittore. Egli muore, ahimè, piuttosto banalmente di una costipazione di stomaco. Cos’altro si può immaginare di meno nobile ed eroico? Eppure viene a mancare in una galleria d’arte, mentre osserva criticamente dei quadri. Ed è questo lato artistico che lo nobilita. L’uomo, fatto di sola carne, finisce miseramente, per ua banale indigestione, ma l’artista, composto di spirito, vive e sopravvive imperituro a se stesso, nella memoria, nella consacrazione e nel ricordo. L’uomo perde la sua dignità nelle sue espressioni mortali, si compenetra fino ad annullarsi nelle sue miserie quotidiane, ma l’artista invece, è capace di riscattare se stesso attraverso le proprie opere, garantendosi l’immortalità e la gloria. «Lo si seppellì, ma durante tutta la notte funebre, dalle vetrine illuminate, i suoi libri, disposti a gruppi di tre, vegliavano come degli angeli dalle ali spiegate e sembravano, per colui che non c’era più, il simbolo della sua resurrezione»
Sabina Marchesi