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Il bovarismo di Flaubert

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Il Bovarismo di Flaubert

Gustave Flaubert con il suo Madame Bovary apre le porte a un nuovo filone letterario, a metà precisa tra l’espressione dell’autore onnisciente di Alessandro Manzoni e il flusso di coscienza interiore di James Joyce.

Madame Bovary è forse il personaggio letterario meglio riuscito di tutta la storia della narrazione. Dotato di caratteristiche tridimensionali la sua essenza ci viene riportata indirettamente, il suo monologo interiore, le sue crisi, le sue sensazioni affiorano da tutti i dettagli, dal portamento, dai gesti, perfino dalle caratteristiche del paesaggio circostante.


Emma Bovary vive tra le pagine e il suo autore si immedesima in lei a tal punto da dichiarare “Je Sois M.me Bovary“, affermazione certo non da poco per un autore del suo tempo.

Non a caso infatti questa creatura fragile ed inquieta permea l’opera a tal punto da meritare come in Anna Karenina, Moll Flanders, Manon Lescaut, ed altri capolavori imperituri della letteratura, il titolo del romanzo.

Madame Bovary ha la caratteristica di invadere tutte le pagine della narrazione, comprese quelle in cui non è presente, la sua emanazione comunque si sente sempre, quando sta per arrivare, e quando è già andata via. La sua famiglia sarà distrutta a causa delle sue sconsiderate azioni, eppure essi l’ameranno fino all’ultima malinconica pagina, così struggente nella sua compostezza.

Nessuno osa condannarla, anche se non l’hanno mai capita.

Perché Emma è l’incarnazione stessa del malessere del nostro tempo, allora appena annunciato, e oggi sempre più dilagante.

Le laceranti contraddizioni tra quello che si possiede e quello che si anela, tra la semplicità della vita quotidiana e gli spasmi violenti della passione, la tendenza tanto precipua dell’animo umano di idealizzare e romanzare gli aspetti banali della propria esistenza, elevandoli verso vette di piacere, autoesaltazione e gloria, assai poco corrispondenti all’atto pratico.

Il Bovarismo, così appena accennato agli inizi del XIX secolo, ha preso oggi materialmente piede, in quella disincantata espressione dello snobismo che ci circonda, del congestionato consumismo, che ci porta a desiderare sempre qualcosa di più e qualcosa di meglio di quel che si possiede, condannando l’uomo all’infelicità perpetua, perso nel desiderio costante dell’irrealizzabile e dell’impossibile.

Così è Emma, che nel tentativo spasmodico di elevarsi socialmente ed economicamente, di raggiungere vette di amore sublime, mai corrisposte, e di vivere costantemente in quella esaltazione isterica che le è propria, spende la propria intera vita fino al consumarsi della tragedia finale, disperdendo al vento quel che è rimasto dei suoi affetti familiari e dei suoi cari.

Eppure non c’è nessuno, nemmeno l’autore, che si senta di condannarla, perché ella è espressione della straordinaria fragilità tipica dell’animo umano, più presente in certi soggetti che in altri, ma sempre terribilmente conosciuta e diagnosticata come una malattia inguaribile, se e quando colpiti, capace di consumarti e di distruggerti senza cure o rimedi possibili.

Vediamo dunque Emma, con una lettera stretta convulsamente in mano, che osserva l’infrangersi di tutte le sue speranze, librandosi sul ciglio di un abbaino, sospesa verso il vuoto, protesa verso la morte, fermarsi a un soffio appena dal suicidio, perché il marito la chiama, la domestica la cerca, “la minestra è in tavola”.

Non c’è forse un altro passo in tutta la straordinaria opera di Flaubert capace di sintetizzare meglio la straordinaria capacità di questo autore così “moderno” di contestualizzare le emozioni del protagonista attraverso una semplice descrizione oggettiva.

Stile e sentimento al servizio della narrazione, in quest’opera immortale del grande Flaubert, dove l’autore si districa in uno stile narrativo inconsueto, traslando continuamente tra le descrizioni oggettive e le focalizzazioni interiori, che da sole descrivono il personaggio, il tutto riportato in uno stile indiretto in terza persona che invece di distaccare, travolge il lettore dentro la scena.

Nei paragrafi di Flaubert è lo stesso paesaggio circostante a parlarci dei sentimenti, sono le condizioni atmosferiche che decidono il mutarsi dei comportamenti, è il succedersi dei dettagli che sancisce il ritmo della disperazione e del dolore. L’autore non narra, non riassume, non racconta, egli “mostra”. Flaubert ci prende per mano e ci conduce verso Emma, ci dice una sola parola “guarda”, e in quell’atto è compreso tutto. Noi vediamo Madame Bovary, sentiamo il suo dolore, la sua ansia, la sua disperazione folle, comprendiamo la genesi e l’epilogo della sua condanna, entriamo dentro di lei e di lei conosciamo il carattere, il coraggio, la follia, l’esaltazione, e la finale quieta, ma sempre indomita rassegnazione, di chi sa che ormai tutto è finito.

“Di fronte, sopra i tetti, la piena campagna si stendeva a perdita d’occhio. In basso, sotto di lei, la piazza del paese era vuota, le pietre del marciapiede brillavano, i segnavento delle case stavano immobili; all’angolo della strada, da un piano inferiore partì una sorta di ronzio a modulazioni stridenti. Era Binet che girava la ruota.

Essa si era appoggiata contro la cornice della finestra della mansarda e rileggeva la lettera con degli sghignazzamenti di rabbia. Ma più ci si fissava, più le sue idee si confondevano. Lo rivedeva, lo risentiva, lo riabbracciava tutto; e i battiti del cuore, che la colpivano sotto il petto come dei grandi colpi di ariete, acceleravano uno dopo l’altro, a intermittenza irregolare. Essa gettava lo sguardo intorno a sé con il desiderio che la terra crollasse ai suoi piedi. Perché non farla finita? Chi mai la tratteneva? Era libera. E avanzò di un passo, guardò il pavimento dicendosi:

– Su! Su!

Il raggio luminoso che saliva direttamente dal piano inferiore tirava verso l’abisso il peso del suo corpo. Le sembrava che il suolo, nella piazza, oscillando si alzava lungo le mura, e che il pavimento si inclinasse in fondo, come un veliero che beccheggia. Essa rimaneva sull’orlo, quasi sospesa, attorniata da uno spazio enorme. L’azzurro del cielo invadeva la sua persona, l’aria circolava all’interno della sua testa vuota, non le restava che cedere, che lasciarsi prendere; e il ronzio della ruota non finiva, come una voce furiosa che la chiamava.

– Moglie mia! Moglie mia! gridò Charles.

Essa si fermò.

– Dove sei? Vieni!

L’idea che veniva di scampare alla morte rischiò di farla svenire dal terrore; chiuse gli occhi; poi rabbrividì al contatto di una mano sulla sua manica: era Félicité.

– Il signore la aspetta, signora; la minestra è in tavola.”

Vediamo come una narrazione in terza persona, spassionata e impersonale, distaccata e razionale ci mostri attraverso le sole descrizioni, i rumori e i gesti, le condizioni interiori del personaggio. Non un solo pensiero ci viene riportato direttamente, tutto filtra, come in un caleidoscopio, attraverso le mille luci della ribalta, perché in quel momento, sola sopra il vuoto, sospesa sul davanzale della mansarda, Emma è nel suo palcoscenico, e sta per chiudere la scena.

I rumori che giungono dall’esterno, la vita che scorre fuori, nella piazza del villaggio, sotto di lei, nel vuoto che la separa dall’annullamento, le quotidiane attività familiari dentro casa, il marito che la chiama, la minestra che è in tavola, la domestica che sale a cercarla, tutto questo riflette contro Emma e come in un gioco di specchi ci riporta l’immagine tridimensionale delle sue sensazioni, della sua fragilità, della presa di coscienza del suo completo fallimento.

Emma ha scoperto che il mondo non era quello che lei sognava, che la realtà non era l’apparenza, che i voli pindarici non l’hanno portata dove voleva, ma anzi le hanno sottratto anche quel poco o tanto che aveva, e che non sapeva apprezzare.

Ma naturalmente è troppo tardi, e il Romanticismo Nero di Flaubert si tinge di foschia nell’epilogo goticheggiante da tragedia epica.

Sola nello spazio e nel tempo, sospesa sopra il nulla della sua esistenza, incapace di comunicare con la realtà circostante, la protagonista in questa scena magistrale si libra a mezz’aria, tra il concreto pragmatismo del villaggio, la quiete degli affetti familiari, e il ripetersi quieto e monotone delle attivitià quotidiane.

Così sta per morire, Madame Bovary, sola ed incompresa, in questo mondo parallelo che non l’ha toccata, mentre il segno del suo passaggio rimane indelebile nelle vite di quelli che l’hanno conosciuta e, anche se per poco, profondamente amata.

E non sarà un piatto di minestra, questa volta, a fermarla.

Sabina Marchesi

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