I ragazzi del coprifuoco
(Giuseppe D’Agata – Dario Flaccovio Editore)
“I ragazzi del coprifuoco”, il nuovo romanzo di Giuseppe D’Agata, è una pagina forte e personale sulla Resistenza. Il romanzo prende avvio in un ospedale dove il protagonista incontra dopo anni di lontananza il comandante del battaglione partigiano nel quale si era arruolato da ragazzo. Il comandante, detto “Mistico” (soprannome ottenuto per l’abilità al tavolo da biliardo e rimasto per tutti a indicare questo personaggio carismatico), è ora afflitto da un male incurabile.
La malattia e la guerra sono due facce della stessa medaglia, con entrambe non si può non lottare, con entrambe si deve credere nella vittoria. Due uomini a confronto, ai quali la guerra ha rubato la giovinezza. Nel romanzo passato e presente si intrecciano in un’alternanza continua. Nei loro incontri del passato i due non parlano mai, ma la guerra e la morte sono lì tra loro evidenti e tangibili e il ricordo non può non tornare all’inverno durissimo del 44 e alla liberazione nella primavera del 45. Il protagonista, medico, scrittore e partigiano ripercorre le tragiche vicende della adolescenza, gli anni della guerra e della resistenza a Bologna, quando si era “arruolato nell’esercito favoloso e misterioso dei partigiani“, a fare la staffetta e l’attacchino, a “tappezzare Bologna di manifestini” durante il coprifuoco, mentre la ferocia più estrema dilagava nelle strade della città. La narrazione rivive le operazioni notturne, la clandestinità, la ricerca del rischio, la speranza della vittoria, anzi la certezza della vittoria, perché per sopravvivere non si poteva fare altro che credere nella vittoria. In una Bologna distrutta dalle bombe, tra le macerie di interi quartieri, si vive, si lotta, si sfida la prudenza. Non si combatte solo contro il fascismo, ma anche contro la paura e l’indifferenza dei cittadini. Le azioni notturne passano inosservate di giorno, quando la gente passa frettolosa e apparentemente distratta per timore delle spie, dei delatori e delle retate sempre più frequenti. Allora tutto sembra inutile. I ragazzi sentono di dover fare di più. Molti scelgono di fiancheggiare gli alleati, salire in montagna e fornire “braccia forti e amiche degli americani“, che già hanno liberato Firenze. Nelle imprese dei giovani partigiani, spesso privi di preparazione adeguata, non c’è nulla di eroico, nessuna esaltazione. I partigiani si schierano dall’unica parte possibile, combattono per la libertà; che altro avrebbero potuto fare?
Gli adolescenti si oppongono con la lotta, ma non solo. Gli stessi svaghi giovanili, diventano un modo per opporsi alla tirannia e alla violenza. Allora si ascolta musica jazz, musica della speranza, e si fumano sigarette americane, che hanno l’aroma della liberazione. Il jazz antitetico allo spirito della dittatura, diventa la musica “all’altezza della guerra, che esplode come le bombe e le cannonate… I fascisti lo odiano, perché capiscono che c’è ben altro dentro: la libertà di improvvisare e di inventare la musica significa libertà di improvvisare e di inventare la vita. Una sfacciata, esagerata libertà“. La partigianeria e la voglia di vincere, per il protagonista ormai diciottenne nel 45, assumono un forte valore esistenziale. La lotta contro l’oppressione e il totalitarismo è la lotta per salvare la propria giovinezza, la propria dignità di uomo, i propri principi morali. Essere antifascisti significa salvarsi nel presente e al tempo stesso significa salvare il proprio futuro, il diritto alla libertà, alla vita, al di là di ogni eroismo. L’essere partigiano diventa esperienza quotidiana che dà un senso alla vita nel periodo di guerra, tra la distruzione, i rastrellamenti, le impiccagioni sulla piazza principale della città.
Nonostante la realtà dei partigiani sia anche fatta di confusione, disorganizzazione, azioni improvvisate e sostenute solo dall’entusiasmo giovanile (“Quale battaglione poi? Otto dieci persone e un garzone di macellaio. E un partigiano messo kappaò dalle cambiali. Roba da ridere. Giornalini contro mitra, contro corde che ci impiccano ai lampioni. Un poco di musica è quanto possiamo fare “) si arriva alla liberazione. Ma la vittoria, a metà tra storia (fatta di ideali traditi) e finzione narrativa, sfuma in beffa nel bellissimo finale del romanzo, perché “vincere davvero è molto difficile” (” La liberazione che avevo appena fatto in tempo ad assaggiare, il pane della gloria subito l’avevano fatto marcire, l’avevano fatto diventare veleno “…).
Il romanzo di Giuseppe D’Agata è una vicenda umana e sociale di grande tensione, che mai scade nel sentimentalismo e nel patetismo. Una pagina di storia, priva di retorica, che non tralascia momenti antieroici di una resistenza vissuta nella quotidianità. Un romanzo toccante, un libro potente e sobrio, capace di dare vita a personaggi veri, sinceri, nelle loro contraddizioni e nei loro valori, lontani dalla retorica dell’ideologia.
Stefania Gentile