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Un’altra notte di cazzate in questo schifo di città

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Un’altra notte di cazzate in questo schifo di città
(Nick Flynn – Mondatori)

Lasciatevi catturare dal titolo come da un pugno nello stomaco a tradimento. Qualcosa che capovolge le prospettive. Leggetelo.

Questo libro ha un titolo straordinario, curiosamente diverso all’interno e nell’ultima pagina “Un’altra notte di cazzate in una città da schifo”, entrambe traduzioni possibili del titolo originale “Another Bullshit Night in Suck City”. Dell’autore si sa poco, io ho preso in mano il libro per il titolo, per la copertina ipnotica, con un disegno che se lo osservi a lungo di schiaccia e ti proietta dentro, per le strade di una città dai colori acidi, con una frase in alto di Michael Cunningham che dice:” Opera d’arte devastante. Ci svela un mondo che conosciamo ma non siamo capaci di capire”.
Ma non l’ho comprato per questo. Risolutivo, nelle scarne note sull’autore, è stato leggere che è un apicoltore fallito. L’ho preso. Ho letto l’avvertenza, non è un’opera di narrativa e i nomi delle persone citate nel testo sono spesso modificati, in particolare quelli di coloro che hanno infranto la legge o che per qualche periodo si sono trovati senza fissa dimora. E’ una storia autobiografica. Dentro dell’autore c’è tutto. Il nome e il cognome, suo e dei suoi congiunti. C’è la storia di una adolescenza terribile, fatta di crudeltà implacabili e di scoperte esaltanti, vagabondaggi, alcol, perdite, ingiustizie sociali. Sembra una autobiografia romanzata ma senza alcuna concessione. Non si concede niente Flynn e non concede niente a una società della quale coglie le incrinature, l’ingiustizia sociale crescente, i dettagli sghembi, che nessuno vede mai.
Nick che vive da precario, nella testa e nel cuore, Nick che trova lavoro come volontario in una casa- rifugio per barboni e senzatetto di Boston e, in un certo senso, benché ci lavori è anche lui uno dei rifugiati. Lo troviamo accanto al mondo dei diseredati che ogni sera affolla le stanze, che viene costretto a denudarsi, a mostrarsi, a mettere da parte i demoni e le ossessioni per seguire iter e burocrazia, quella minima necessaria per avere un letto, abiti puliti, un pasto caldo. Nick è con loro e accanto a loro. Nick che è stato abbandonato da piccolo dal padre Jonathan, e ha seguito la madre nei suoi amori disperati e sfortunati, nel suo arrangiarsi fra mille lavori, fino all’esplosione del dolore che non si contiene, fino al suicidio. Il dolore assoluto, tutto per non piangere, tutto per cercare una anestesia, tutto per essere assente alla vita che lo colpisce al cuore.
Nick che beve e si droga come i poveracci che cercano ricovero al Pine Street Inn, e delle sue bevute troviamo traccia in capitoli- capolavoro: “Un goccio. Un assaggio. Una lacrima. Una sorsata. Dico prima qualità. Liscio. Due dita. Un gocciolo. Un centellino. Un piombino. Dico un altro giro. Fatti forza. Scolane un paio. Buttali giù. Alza il gomito. Finisci la bottiglia. Seccala. Prosciugala. Prepara un drink… Una brocca. Una caraffa. Un orcio. Dico un bicchiere. Dico ancora lo stesso. Dico ricominciamo. Amico mio. Compagno di bevute. Dico dacci dentro… Gozzoviglia. Tracanna. Trangugia. Una boccata. Un beverone. Latte di mamma. Fermentazione casereccia. Gusto chiaro. Alcol di contrabbando. Torcibudella… Adesso sì che ci intendiamo, dico. Lasciati andare.”
Nick da anni riceve lettere da suo padre, che si definisce poeta e che è abituato a tirare avanti con espedienti, miserie, piccole truffe. Ma col grande romanzo da scrivere come progetto. Romanzo che in parte esiste e che spedisce agli editori, esibendo poi con orgoglio le lettere di rifiuto con la firma ” a mano”. In qualche modo questa ossessione letteraria influenza Nick (ricordando moltissimo Thomas Bernhard e il suo nonno scrittore sfortunato che non rinunciava a quella che riteneva la sua missione, e che preferiva costringere la famiglia a lavori umilissimi piuttosto che cercare una qualsiasi occupazione) Nick infatti abbandona il peschereccio cadente che aveva usato come abitazione e torna a studiare per poi arrivare a pubblicare il suo primo libro di poesie. Procedendo parallelamente nella sua crescita come uomo, trovando l’amore, provando a disintossicarsi, e sentendo il percorso parallelo di questo padre che prova ad ignorare ma poi sa che, prima o poi, dovrà ritrovare( e qui gli echi richiamano James Joyce) . Non a caso un capitolo si chiama proprio Ulisse e inizia così: “Sono molti i padri scomparsi. Alcuni se ne vanno, altri vengono lasciati. Altri ancora ritornano affamati e irriconoscibili. Solo il cane li ricorda. Tra quelli che restano, molti si assentano tutto il giorno per rispettare gli obblighi di un mestiere che i loro figli comprendono a stento. Partono per l’ufficio, vanno in negozio, indossano completi celandosi dietro porte chiuse, urlano al telefono, portano tute da lavoro e sfogliano giornaletti pornografici nelle cabine dei pick up. Il falegname, l’elettricista. Si dirigono a casa di sconosciuti, una donna in accappatoio apre la porta, li invita ad accomodarsi, offre loro un tè e una fetta di torta, e insieme parlano del giorno dopo. Vedrà che domani sera non riconoscerà più il suo bagno promettono. Lunedì possiamo cominciare con il tetto. Alla fine, molti restano con le mani in mano tutto il giorno, buttano giù qualche sorsetto di nascosto, alla legnaia. Molti raggiungono in auto i paesi vicini e fanno l’amore con la stessa donna che frequentano di nascosto da anni. Alcuni continuano a sbraitare ai figli anche dalle profondità della tomba, mentre di altri non resta che una fotografia sgualcita.”
C’è tutta la drammaticità, l’acutezza, la normalità negata e la straordinaria maestria letteraria di Flynn in queste righe di malinconica osservazione quasi “fotografica” del quotidiano e della pornografia famigliare. E del necessario bisogno di fare i conti, in un modo o nell’altro con una figura paterna, scomoda, disgustosa, maestosa nella sua capacità di imbrogliare il mondo e di continuare a illudersi, imbarazzante e diversa. E’ una storia struggente, leggibile su piani diversi, un reportage su una America che si preferisce ignorare, una bella storia d’amore, la potente denuncia verso chi tenta di imporre regole e burocrazia anche a chi da quelle regole è stato distrutto e fatto rotolare nel fango, un romanzo coraggioso, una autobiografia scritta magistralmente che descrive atti d’amore troppo rari, strappi, ferite, smorfie, inganni, malavita che sembra migliore della regolare vita di chi si sente perbene, un suicidio che lacera il torace anche al lettore, cicatrici che cercano il tempo per rimarginarsi un pochino e due persone che si cercano, si pretendono, vengono rifiutate, poi si riavvicinano annusandosi per poi, forse, imparare a conoscersi o perdersi ancora. Un libro sublime, indimenticabile che sorride con fratellanza vera a tutti gli obliqui e i drop out. Un’epopea sull’orrore della famiglia e sulla forza della letteratura.

Francesca Mazzucato

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