La crisi drammatica in cui è precipitata la Jugoslavia dopo il 25 giugno 1991, con la dichiarazione di "dissociazione" di Slovenia e Croazia e la successiva disgregazione del paese, ha risvegliato molti "fantasmi" di un passato europeo che si credeva tramontato per sempre. Al di là del caso della Germania Democratica per la prima volta dal 1945 si è dissolto uno stato europeo. Ma le circostanze in cui ciò è avvenuto e la mancanza di un accordo politico fra le parti interessate hanno scatenato una violenza incontrollabile, alterando in modo imprevedibile consolidati equilibri del paese. E’ così esplosa la prima grande crisi europea dopo la caduta del comunismo e la fine della guerra fredda. Lo stesso ordine internazionale del vecchio continente è stato messo a dura prova a causa della delicata collocazione geografica della Jugoslavia, situata in una delle aree più tormentate ed arretrate. Crocevia di popoli e culture differenti, collocata nel punto di incontro tradizionale fra occidente ed oriente, per secoli sottoposta al dominio di Austria, Ungheria, Venezia, zona di inediti esperimenti politici ai tempi di Napoleone, luogo europeo di contatto fra le tre grandi religioni monoteiste (la cristiana, l’ebraica e la mussulmana) la Jugoslavia è stata per tutto il novecento un paese delicato e cruciale per gli equilibri internazionali.
Ultimamente si è tornati a tremare per la pace nella Ex Jugoslavia a causa della situazione del Kosovo che affonda le sue radici in un tumultuoso passato: nonostante le cifre che vedono una maggioranza di Albanesi i Serbi non hanno mai rinunciato a considerare il Kosovo terra loro, anzi la "più serba" di tutte le regioni. Durante la seconda guerra mondiale, dopo lo smembramento della Jugoslavia monarchica il Kosovo fu ammesso con un semplice decreto del governo italiano al regno di Albania la cui corona era attribuita a Vittorio Emanuele III.
Dopo la sconfitta della Germania il Kosovo tornò a far parte della Jugoslavia. Venne il momento del regime di Tito che diede vita a una federazione composta ufficialmente da sei repubbliche, ma il Kosovo dovette accontentarsi di essere riconosciuto come "provincia autonoma", inserita nella Repubblica Serba. Secondo i rappresentanti della popolazione di lingua albanese della provincia furono anni di patimenti, privazione dei diritti umani, di repressione di ogni rivendicazione a carattere nazionale. Nel 1966 le cose cambiarono grazie ad una nuova politica di liberalizzazione. Contemporaneamente dalle casse federali usciva un flusso di denaro destinato ad elevare la condizione economica e sociale di quella che era e restava la popolazione più derelitta e arretrata della federazione.
Certo la politica di Tito compì degli errori, soprattutto nel campo dell’istruzione superiore: dall’università erano usciti migliaia di laureati, ma quasi tutti in lettere albanesi, così molti non riuscirono a trovare un lavoro all’altezza delle loro aspettative. C’era quindi una grande massa di delusi che era quella che spingeva per ottenere da Belgrado il riconoscimento dei diritti per i Kosovari di gestire le risorse della regione.
Nel 1981 rivolte e atti di violenza cominciarono a diffondersi nel paese allo scopo di ottenere il riconoscimento di repubblica. Il tutto era complicato dalla coincidenza con la delicata fase di passaggio di un paese in pieno marasma economico, con un partito comunista in evidente disintegrazione, un governo federale con limitati poteri rispetto alle autonomie godute dalla repubblica, e un pluralismo politico ancora i primi contrastati passi e capace di aprire le porte non solo ai momenti democratici ma anche ad altri di decisa impronta nazionalista. La situazione si aggravò nel 1985 quando dal Kosovo partì un appello carico di toni allarmistici, firmato da oltre duemila cittadini che si proclamavano serbi e indirizzato alle massime autorità federali. Di questo subito approfittò Milosevic cavalcando la tigre di quel nazionalismo Serbo che le notizie provenienti dal Kosovo stavano riaccendendo. La Serbia per Milosevic doveva riprendersi tutti i poteri che Tito le aveva sottratto. Nel resto della Jugoslavia le rinnovate pretese Serbe erano seguite con timore. Al potere di Belgrado non restò che l’invio dell’esercito, se avessero fatto opposizione armata i difensori dell’autonomia del Kosovo sarebbero stati imputati di rivolta contro lo stato. Per questo non ci furono reazioni violente.
La partita del Kosovo non era comunque chiusa: l’esercito teneva ancora d’occhio i punti strategici e i crocevia, la tensione non era allentata, la maggioranza albanese denunciava discriminazioni e persecuzioni di cui era vittima. Queste le premesse della situazione attuale: è da 17 anni che pericolosamente si gioca sulla questione albanese del Kosovo. Nessuno in questi 17 anni nella comunità internazionale si è mai offeso, contrariato per la repressione condotta contro la popolazione albanese, 90% degli abitanti. Tutti hanno approvato Rugova, leader moderato degli albanesi di Pristina per essere riuscito a costruire una sorta di stato nello stato, quasi una società parallela con scuole, ospedali, università, giornali e un governo ombra che imponeva un proprio sistema fiscale. Rugova è sempre stato accolto con grandi onori nelle capitali occidentali, ha avuto il merito di avere sempre evitato per anni agli Albanesi uno scontro frontale coi serbi.
La comunità internazionale ha avuto il merito di aiutare per anni Milosevic a mantenere in Kosovo un grande lager. In questo quadro era certamente prevedibile e lo era da molto tempo che si sarebbe andati verso una terribile esplosione di violenza. Milosevic ha sempre affermato che si trattava di operazioni di polizia contro gruppi terroristici. Il primo massacro contro la popolazione civile è del 28 febbraio: 14 bambini, 12 donne, 26 uomini di cui 5 anziani nel villaggio di Licosami. I corpi sono sepolti. Le fotografie del massacro hanno fatto il giro del mondo, ma nessuno ha reagito, nessuno si è indignato, anche in Italia la tragedia del Kosovo non ha avuto il rilievo che le spettava, le prime pagine dei giornali preferivano puntare il dito sugli scandali sessuali della Casa Bianca, ma non si possono chiudere gli occhi di fronte ai massacri, anche se forse non permettono un incremento delle vendite. L’ultimo massacro è della settimana scorsa, centinaia di persone ammazzate dalle truppe serbe e qualche decina di poliziotti serbi uccisi dai guerriglieri dell’UCK. Belgrado inoltre denuncia la sparizione di centinaia di serbi rapiti dall’UCK che ritiene uccisi. La Croce Rossa Internazionale ha denunciato un uso sproporzionato della forza e degli atti di violenza contro i civili. Un vescovo ortodosso, rompendo il silenzio della chiesa serba ha affermato: "Sotto il regime di Milosevic non si potrà risolvere il problema del Kosovo. Il regime antidemocratico di Belgrado sta violando non solo i diritti degli albanesi, ma anche dei serbi."
Forse ci sarà un intervento NATO che bombarderà le posizioni militari serbe secondo lo stile di avvertimento sperimentato in Bosnia nel ’95 contro le truppe di Karadzic. Tuttavia bisogna ricordare che Milosevic è assai abile a fermarsi al momento giusto, a riprendere i massacri quando la tensione si allenta e a proporsi come garante della pace. Il problema quindi Milosevic che a Belgrado non ha opposizione e ha tanti amici nelle cancellerie mondiali. La difficoltà sta però soprattutto che la comunità internazionale pare non avere a cuore l’impegno per la nascita di vere democrazie nei Balcani. Chissà se si dovrà attendere lo scoppio di un’altra guerra civile, tragica come la precedente, perchè ci si impegni seriamente nella ricerca di una soluzione.
Una tragedia annunciata
Francesca Sessa