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1 – Introduzione
Le farfalle sono spiriti. Dopo attese e mutazioni, incarnano un mattino unico nella loro vita lunga un giorno e scompaiono. Emergono dalla rugiada, colorano il mondo e rubano gli attimi agli uomini.
Ector non seppe mai come fosse riemersa quella memoria, tornata in mente all’improvviso e impossibile da scacciare. Poi erano affiorati i ricordi, uno dopo l’altro, come se improvvisamente avesse deciso di ripercorrere – chissà per quale motivo – un tempo dimenticato.
Dapprima la cosa lo aveva divertito, poi cominciò ad opprimerlo, poi ossessionarlo. Pensando potesse giovargli, aveva cercato infine di coinvolgere Irene, collezionando una buona dose di insuccessi.
Ogni volta che affrontava l’argomento incontrava un muro. All’inizio Ector non riusciva nemmeno a parlarne, era una cosa troppo sua, ancora così confusa e indefinita, poi aveva accettato il fatto che si trattasse del passato, che tornava preciso e ordinato come tante fotografie, momenti e situazioni che si susseguivano fin quasi a sovvertire il presente e la realtà del quotidiano. Eppure, Irene sembrava completamente refrattaria presa com’era dal suo lavoro, gli impegni, gli orari imprevedibili. Certamente Irene non stava dando la giusta importanza a quel che stava accadendo.
Ector dal canto suo provava una certa difficoltà a parlare di un tempo remoto ormai quasi sconosciuto, rimasto sepolto per secoli nel profondo dei ricordi.
Immersa nella notte la casa perdeva dimensione, un’entità indefinibile che Ector non riusciva a collegare al presente. Si abbandonava ai ricordi come narrando una favola a un bambino prima di addormentarsi. Il mondo sembrava circoscritto ai pochi elementi distinguibili nella penombra. I riflessi dei fari delle auto che filtravano attraverso le tapparelle, qualche raggio di luce sfuggito alle insegne dei neon tracciavano – vaga e indefinita – la sagoma di pochi oggetti: la sveglia, un libro aperto al segno, lo spigolo cromato del comodino, il profilo indeciso di Irene al suo fianco.
– D’accordo, ma le tue storie me le racconti un’altra volta, adesso è tardi. – disse Irene con voce assonnata. Forse sono io che sto esagerando, pensò Ector, in fondo Irene è su un altro mondo, fatto di adesso e domani, con tutti i suoi programmi e i suoi casini.
Si lasciò avvolgere dalla notte, dalla dolcezza di un bacio, dalla compagna aggrappata al suo collo come una bambina, che per paura del buio non vuole addormentarsi senza una carezza e un corpo vicino.
Una parte di lui continuava, ostinata, a pensare ai pensieri, al passato remoto, a quella donna così vicina e presente. Un presente di curve dolci, occhi verdi e sorriso incomprensibile, enigma di segreti, solitudine, difficile lasciarsi andare. Il sonno giungeva sempre tardi, liberatorio per poche ore proiettandolo in un mondo di contraddizioni. Ector vedendo affiorare il proprio passato era diventato prigioniero del quotidiano e dei suoi giorni, delle cose da fare. Le giornate erano come nemici che gli rubavano il tempo da dedicare ai pensieri, alle riflessioni, al bisogno di parlare. I nomi e i personaggi della memoria si stemperavano nelle sensazioni di luoghi e cose già accadute e ancora da vivere, tutte ugualmente imprevedibili.
Avrebbe voluto un momento senza fine, tutto il resto cacciato in un angolo al fondo del letto, ora solo lui e Irene abbracciati ad un desiderio comune. Capita che la gente, a volte, si possa incontrare.
La memoria che all’improvviso era affiorata rubandogli l’attenzione del presente sembrava fosse cosa viva. Era un altro mondo, una logica di tempo trascorso, oggetti e persone già vissute. Una sorta di tranquilla compagnia che lo affiancava semplificandogli l’esistenza. Ieri come trent’anni indietro sono già accaduti e non possono cambiare, non tradiscono. Gli eventi del passato si facevano strada con calma immutabile, un nuovo presente predefinito e sicuro, senza imprevisti, noto.
Seguirono notti interminabili che lo cullarono in un sonno affannoso e leggero, pronto a interrompersi al minimo rumore. La presenza della realtà, i minuscoli oggetti che costruivano lo scenario abituale delle sue giornate lo spingevano al distacco, al ricordo incomunicabile, così personale e senza storia per nessun altro che lui.
Ciò che Ector stesso aveva confuso come un doppio dei suoi pensieri si era in poco tempo insinuato nella sua mente, impossessandosi dei gesti del presente, fino a farne parte senza discontinuità. Era quello il suo presente.
Senza spiegazione, nel labirinto inestricabile dei suoi pensieri, Ector diventava lentamente cosciente di una mutazione immanente e inevitabile. Poteva soltanto attendere.
La luna piena filtrava nella stanza allungando le ombre all’infinito. Ector poteva scegliere qualsiasi interpretazione per ciò che gli era familiare, in cui si trovava immerso nell’attesa di un altro sonno. Disteso nel buio, percepiva il trascorrere delle ore dall’intensità del traffico i cui rumori giungevano attutiti ma chiaramente percepibili. Il sonno certe notti era una chimera che Ector dubitava potesse giungere ancora.
Immobile percepiva la presenza di Irene, abbandonata sotto un lenzuolo di lino che ne sottolineava le forme sinuose. In lontananza i treni sfrecciavano veloci rimandando l’eco di fischi lamentosi in risposta ai latrati dei cani irrequieti, sensibili ai calori e alle maree. Equilibrista sul filo sottile della veglia ad Ector sembrava che il mondo più immediatamente percepibile volesse sottolineare con variazioni quasi inconsistenti, che qualcosa di inquietante lo attendeva senza fretta.
Le ultime ore dell’alba gli donavano brevi sonni profondi in cui Ector con sollievo si lasciava andare alla stanchezza.
Nel suo continuo rincorrersi il tempo aveva rintoccato un’altra ora; era la fine della primavera e quell’estate avrebbe portato ad Ector nuovi ricordi, da cui non si sarebbe mai più separato. Era l’alba di una nuova stagione. Lo attendevano giorni irripetibili che Ector non immaginava potessero appartenergli.
2
L’incontro, un attimo che pregiudica futuri possibili
L’estate del ’97 non concedeva tregua, il caldo sembrava aumentare continuamente, senza un filo di vento a portare un po’ di sollievo. Un mese era andato, nella linearità continua di giorni sempre uguali. La notte si presentava distratta alla fine del giorno, senza che Ector potesse distinguere l’uno dall’altra. Il presente si era trasformato in una continuità fatta di domani identici, che non avevano bisogno di essere attesi, vissuti nel ricordo ripetuto di un passato percorso infinite volte.
Ector e Irene erano stesi sul letto raggiunti involontariamente dal fragore metropolitano, i ragazzi che urlavano giù in strada mentre rincasavano.
Lui aggiustò il cuscino per stare più sollevato, poi riprese a parlare. – Francesco per me in quegli anni era ciò che per molti bambini è solo immaginario, un amico sempre disponibile, presente, instancabile compagno di giochi. Io mi sentivo fortunato più degli altri, perché quell’amico esisteva veramente, in carne e ossa. Non era nemmeno immaginabile, che tutto ciò potesse un giorno finire, pensavo che sarebbe rimasto, immutabile, eterno. –
La luce dell’accendino gli illuminò il viso per un istante, poi la stanza ripiombò nell’oscurità lasciando spazio solo al rosso porpora della brace ardente di una sigaretta, che si consumava nella notte.
– Camminavamo per mano interi pomeriggi. A volte raggiungevamo il bosco, che per noi rappresentava l’invalicabile confine del mondo. Solo l’automobile di mio padre, rombante mostro di plastica e metallo, poteva raggiungere quel limite che sembrava lontanissimo. Quell’animale dalla criniera cromata, instancabile destriero capace di superare in un attimo enormi distanze, rappresentava nelle nostre fantasie il ponte con la lontananza, collegava il presente dei nostri confini di giochi, un orizzonte di prati che oscillavano sotto i nostri occhi stupiti, con il mondo dei grandi.- Ector quella notte amava gli occhi di Irene, che nel buio imperfetto riflettevano deboli raggi di luce. Avrebbe continuato a parlare fino al mattino, se il peso della giornata appena trascorsa non fosse crollato improvviso su di lui, trascinandolo in un sonno liberatorio.
Quando aprì gli occhi fu immediatamente cosciente. Ector capì senza bisogno di spiegazioni che si era spezzato un piccolo ma insistente incantesimo. I ricordi, invadente ossessione del passato, scomparvero senza traccia come tanti anni fa scomparve Francesco dalla sua vita.
Una domenica come tante, Ector era andato a svegliare Francesco. La mamma non si era mai opposta, anche perché le case erano vicine e soprattutto non bisognava attraversare la strada, ma come entrò, pareti familiari come fossero parte della sua stessa casa, Ector si sentì raggelato da un’oscura tensione. Trovò Francesco ancora in pigiama, seduto sul letto – la mamma- mormorò l’amico poi non seppe continuare, i grandi occhi blu quel giorno avevano visto troppo e non sapevano fare altro che riflettere una tristezza senza fine. Ector non capì subito, poi vide il padre di Francesco piangere, i suoi genitori che l’avevano raggiunto e gli stringevano la mano, l’amico sempre più triste.
Poco tempo dopo, un mattino qualunque venne Francesco. – Ce ne andiamo, Ector – disse recitando inespressivo una lezione mandata a memoria – papà dice che non può più stare perché tutto gli ricorda la mamma, così si è fatto trasferire in una città molto lontana. – Ector trattenne a stento le lacrime, un nodo in gola gli impedì di parlare.
– Papà dice anche che tu puoi capire perché sei già un ometto, mentre io che sono più piccolo prima mi sono messo a piangere. –
Ector si sforzò, ma nemmeno lui riuscì a capire un gran che, soltanto che gli stavano portando via Francesco. – Non ci vedremo più. – disse quasi voltandogli le spalle.
In un attimo era scomparsa una certezza, senza importanza che il padre di Francesco sarebbe andato a lavorare lontano, che fossero entrambi bambini, che i grandi non potessero capire. Francesco se ne sarebbe andato e basta, lasciandogli in eredità un futuro che non sarebbe mai stato lo stesso.
Un’occhiata alla radiosveglia lo collegò immediatamente alla realtà ancora troppo presto per iniziare una nuova giornata, anche se il sole confermava da alcuni minuti la presenza di un nuovo giorno. Irene era sveglia. Gli si avvicinò con tenerezza, facendo aderire il proprio corpo a quello del compagno, entrambi nudi, rinfrescati da una brezza sottile e inaspettata. Il lenzuolo era finito chissà dove. Ector si abbandonò a lei che lo baciò sul collo e sulle labbra, morse delicatamente il suo corpo poi in silenzio fecero l’amore ciascuno alla ricerca del piacere dell’altro spinti fino alla rabbia, del tempo che stava per finire, del quotidiano ormai prossimo, della giornata inevitabile che incombeva su entrambi.
La gioia del corpo l’aveva deliziosamente distratto, Ector cominciava lentamente ad appartenere di nuovo ai propri momenti.
Non ci fu bisogno di parlare, né dare spiegazioni, Irene sapeva che i pensieri del compagno erano andati lontano, cercando il linguaggio per spiegare nuove sensazioni. Il passato vissuto era tornato dentro ieri polverosi di tanti anni fa come scatole messe in solaio e dimenticate. La realtà, il caffè appena fatto, la camicia da abbottonare, l’ora, adesso ogni cosa era al proprio posto.
La giornata non era iniziata meglio di tutte le altre. Ector si muoveva a fatica nell’aria pesante e pochi minuti alla fermata del bus erano bastati a farlo sentire sudato e appiccicoso. Gli restava la sensazione dell’amore appena trascorso, che lo faceva sentire al di sopra della mediocrità con cui era destinato a incontrarsi, come ogni giorno, senza che gli altri potessero anche solo sospettare il piacere intrigante dei suoi segreti.
Il pullman era quasi vuoto, e il caldo era insopportabile per via dei finestrini che venivano tenuti rigorosamente chiusi. Come qualcuno cercava di aprire un finestrino, solitamente un passeggero non abituale a quell’ora, veniva acidamente redarguito da un decrepito pensionato che soffriva la corrente. Ector invidiò l’autista che guidava isolato da quel microcosmo, rinchiuso nel suo scomparto, col finestrino spalancato e un braccio fuori.
Seduta su uno dei sedili dell’ultima fila una donna anziana ostentava un cappotto invernale, grigio scuro chiuso da grandi bottoni circolari di osso. La vecchia sembrava provare grande interesse per il traffico caotico delle otto, che Ector conosceva a memoria trovandolo da sempre di una banalità sconcertante.
Qualche fermata dopo la sua una donna esageratamente grassa sulla quarantina salì ansimante, fasciata in un coloratissimo vestito estivo, andando a sedersi accanto a lui. Respirava a fatica e sudava, emanando un odore penetrante. Per cortesia Ector non osò cambiare posto, facendo molta attenzione a non incrociarne lo sguardo, sollevato quando dopo poche fermate lei scese senza dire nulla. Non vi dedicò più di un pensiero, fra poco avrebbe raggiunto la biblioteca per riprendere possesso di un mondo che, non suo, in qualche modo gli apparteneva.
Ector amava il proprio lavoro, che si addiceva ad un tipo riflessivo come lui. Amava i libri che vedeva passare di mano in mano, sapeva sempre dare l’informazione giusta e analizzava scrupolosamente l’aspetto di chi richiedeva volumi in prestito. Mentre stavano davanti a lui svolgendo le piccole questioni burocratiche richieste e attendevano che dai sotterranei giungesse quanto richiesto, Ector aveva il tempo sufficiente per studiare il proprio interlocutore, immaginare quale motivo lo aveva spinto a chiedere proprio quel libro, se lo avrebbe restituito entro i termini stabiliti dal regolamento o se avrebbe rinnovato il prestito.
L’estate era il periodo migliore. Ora che le scuole erano chiuse il lavoro era poco, di tanto in tanto un visitatore occasionale consultava qualche volume di narrativa, più che altro per godersi una lettura tranquilla lontano dal chiasso e dal caldo. Fino a pochi giorni prima qualsiasi riferimento, il titolo di un libro, una frase occasionale, lo riportavano indietro nel passato. Si sorprendeva dietro il bancone della sala centrale con i soffitti altissimi, a pensare al passato. Era come vivere nuovamente quei giorni. I ricordi proiettavano immagini vivide che sovrastavano continuamente il quotidiano. Lentamente – pensandoci ora – la situazione peggiorava, emergevano nuovi particolari e il passato si faceva sempre più ossessionante e definito. Forse, senza rendersene conto, raccontava a sé stesso momenti che aveva dimenticato troppo presto.
Improvviso come era venuto, l’incubo si era dissolto e lui era nuovamente padrone del suo tempo.
Un lato positivo del lavoro di Ector era l’orario. Senza interruzioni, alle tre poteva ritenersi un uomo libero e anche d’inverno trascorreva interi pomeriggi a bighellonare per le vie del centro. Non invidiava chi usciva dall’ufficio che era già buio, quando i negozi si preparano a chiudere, le signore frettolosamente si avviano verso casa a preparare la cena e la giornata è ormai conclusa.
Quel giorno Ector era appena uscito dalla biblioteca e il sole rovente, ancora alto nel cielo di luglio riusciva a penetrare dovunque, nelle vetrine dei negozi, negli androni delle vecchie costruzioni del centro, sulle cromature lucide delle auto parcheggiate. Camminava senza una meta precisa, senza pensare a nulla e nessuno. Lasciandosi trascinare dai passanti, distrattamente, quasi inciampò in un gatto sbucato fuori da un vicolo, che dopo averlo fissato per un istante scomparve nuovamente dentro un cortile. Alla sua destra una chiesa sconsacrata dava mostra del proprio interno, popolato da una folla annoiata che osservava senza interesse un’esposizione di quadri di un pittore sconosciuto.
Poco più avanti, un gruppo di ragazzi offriva il proprio spettacolo di musica latino americana ad un pubblico improvvisato. Trasportato dalla melodia Ector li raggiunse e non poté fare a meno di rispondere all’insistente richiesta di un membro del gruppo, che si faceva strada fra il pubblico raccogliendo offerte in cambio di ringraziamenti ossequiosi in uno spagnolo dialettale. Oltre il crocchio di spettatori improvvisati, stava ritto qualcuno vestito in un impeccabile completo di lino bianco, con un grande panama anch’esso bianco di fattura leggera. Ector lo notò all’improvviso e fu certo di conoscerlo, seppure gli voltasse le spalle, mentre il volto leggermente girato nella sua direzione era nascosto alla vista dalla tesa del cappello.
– Francesco! – gridò, ma l’altro non rispose. Così distante e con tutta quella gente non poteva sentirlo di certo ed Ector lo vide allontanarsi e scomparire alla vista.
– Permesso, permesso… Mi scusi. Permesso… – Senza darsi per vinto cercò di raggiungerlo accelerando il passo e facendosi strada fra la folla. – Permesso… Mi scusi, permesso…- disse agitato cercando di aprirsi un varco.
Quasi travolse una vecchina traballante, tutta presa a cercare qualcosa nella borsa. All’ultimo momento evitò con un salto un piccolo Yorkshire, sentendosi addosso lo sguardo infuriato della padrona. L’orribile bestiola prese immediatamente ad abbaiare, ma lui era già oltre.
Finalmente gli stava dietro così vicino da poterlo quasi toccare – Francesco!- disse con un tono carico di aspettative.
Si fermò e si voltò quasi nello stesso istante, lasciando Ector senza parole.
– Mi scusi… Non credevo, l’ho scambiata per un’altra persona. – balbettò imbarazzato
La donna di cui incrociò lo sguardo per un breve istante, con fare elegante e deciso si voltò nuovamente, allontanandosi senza dir nulla.
Restò immobile come un idiota, guardandola allontanarsi e scomparire fra una folla multicolore.
3
Ieri è solo un giorno,
l’ultimo che importa ricordare,
che ha lasciato dentro memoria
Il grande Ospedale Maggiore si stagliava imponente di fronte al fiume, cittadella fortificata in cui ogni giorno si decideva il destino di migliaia di persone. Un gigantesco quadrilatero, adagiato come un gigante a delimitare la periferia ovest della metropoli. Nonostante la costruzione datasse quasi un secolo e la città col tempo avesse esteso i propri quartieri in ogni direzione, includendo nella sua espansione gran parte dei paesi della periferia, quella zona era rimasta incontaminata, continuava a definire un limite, che senza seguire alcuna regola di pianificazione urbana era ancora intatto, anzi, era la struttura che continuava ad espandersi senza sosta azzerando gli spazi circostanti per far posto a nuove stanze, avida di uomini e attrezzi sempre più complessi e indescrivibili. L’ospedale era una macchina che, persa memoria dell’originale struttura, assumeva l’aspetto di un interminabile cantiere, una torre di babele in continua costruzione. Al suo interno invece era organizzata con asettica precisione in un disegno complesso di tunnel, sotterranei e piani, uno strumento mostruoso e immanente in cui la vita e la morte erano i veri artefici di tutta la sua organizzazione. Una casa-gioco dove ogni singola pedina, carnefice o vittima non poteva decidere del proprio destino perché tutti erano inconsapevolmente legati ad un destino comune.
Da ormai dieci anni quel luogo per Irene apparteneva all’abitudine. Anche lei a volte si sentiva sepolta, nei laboratori del piano terreno, ogni giorno con orari quasi sempre imprevedibili ad occuparsi perennemente di sconosciuti di cui dava responsi a volte terribili.
Immaginava quel che avrebbe detto il medico, una volta letti i referti delle sue analisi, come poteva reagire – difficile per chiunque – l’ignaro che attendeva fiducioso di raccogliere speranze da una scienza a cui lei apparteneva solo in minima parte. Era quasi una catena di montaggio, quel luogo di risposte certe, ineccepibili e brutali, che qualcuno avrebbe dovuto spiegare a persone ignare fino all’ultimo del proprio male, in attesa paziente nelle inquietanti sale d’attesa degli studi medici..
I finestroni del laboratorio erano spalancati, ma non riuscivano ad alleviare il caldo opprimente. Scivolando agile fra i suoi pensieri, Irene svolgeva operazioni di routine che l’avrebbero tenuta occupata fino a tarda sera. Gli occhi verdi e i capelli raccolti alla meglio con poche ciocche disperse che le incorniciavano il viso, le labbra socchiuse, richiamavano discretamente l’attenzione sulla figura in camice bianco che si muoveva sicura fra provette e flaconi di reagenti. Il reggiseno spuntava poco sopra il primo bottone del camice, conferendole un aspetto di piacevole sensualità.
L’uomo le passò accanto fin quasi a sfiorarla facendosi precedere da un sorriso solare. – Stasera non ho molta voglia di scherzare. – disse Irene quasi inespressiva. L’uomo si fermò tornando sui propri passi ed assunse un’espressione vagamente preoccupata. – E’ successo qualcosa di grave? – Idee che mi passano per la testa. – si limitò a ribattere Irene cercando di troncare il discorso. Lui posò il recipiente sul banco e si avvicinò ancora, osservandole il viso con aria interrogativa.
– Senti, non c’è proprio niente. Ero soprappensiero. –
Irene lo osservò attentamente, vicino. Poteva notare i particolari del suo viso, le piccole rughe ai lati degli occhi. Chiunque fosse passato in quel momento non avrebbe potuto eludere il sospetto che fra i due vi fosse una profonda intimità – Ma cosa hai capito, – riprese anticipando qualsiasi commento. – tu non c’entri niente, davvero. –
Improvvisamente Irene cambiò espressione, come avesse accantonato le proprie riflessioni. Ripose la provetta sul bancone e lo prese sottobraccio voltandosi nella sua direzione. – Andiamo a prendere un caffè, forse hai ragione tu, meglio che non ci pensi. –
Come ogni estate, ad Irene venivano assegnati turni assurdi, un po’ per disorganizzazione e un po’ per mancanza di personale. Lei era partita prestissimo per andare al lavoro, e per i prossimi mesi – come capitava ogni anno – lei e il compagno si sarebbero visti poco o niente. Per Ector era diverso, lui amava i libri della grande biblioteca centrale, trascorreva ore ed ore a leggere, specialmente adesso che le scuole erano chiuse e non c’erano più resi e prestiti né studenti noiosi.
Considerava il trimestre estivo uno dei migliori dell’anno; mentre tutti lavoravano stancamente in attesa delle vacanze, lui amava seppellirsi nelle grandi stanze della biblioteca, leggeva libri godendo del fresco che solo quei muri secolari potevano dargli. Tuttavia, senza una ragione apparente, era inquieto, incuriosito e infastidito al tempo stesso, dai ricordi che gli popolavano la mente. Ricordi così precisi, distribuiti secondo una cronologia perfetta, che gli facevano confondere il presente col passato, come fosse storia di ieri.
I suoi pensieri vennero fastidiosamente interrotti da una voce sconosciuta. – Ma lei è- pronunciò l’estranea. La ragazza confusa qualche giorno prima con Francesco gli regalò un sorriso caldo e rassicurante. Lo sovrastava leggermente, tenendo un gomito appoggiato sul banco e l’altra mano sui fianchi.
Ector sollevò lo sguardo, dapprima distrattamente poi mise a fuoco la figura che gli stava davanti. Anche se l’aveva vista solo di sfuggita, non tardò che qualche secondo a tornargli in mente la scena e il volto. – Mi spiace per l’altro giorno. Non avevo proprio visto chi era, sa? Pensi che l’avevo scambiata per un mio amico. – Disse la prima cosa sensata che gli venne in mente; non sapeva come fare a porre fine a quel piccolo fastidio inaspettato, ma forse sarebbe riuscito a cavarsela con poche parole. Desiderava solo tornare ai suoi ricordi.
La donna scoppiò in una sonora risata, ma gli occhi conservarono un’espressione dolce e malinconica. – Ti sembro il tipo facile da confondere con uomo? – disse sollevandosi del tutto e appoggiando entrambe le mani sui fianchi. La schiena leggermente inarcata mise in evidenza un seno ben modellato sotto una maglietta estiva aderente. Senza ostentazione, aveva attirato l’attenzione di Ector su di sé, come sapesse perfettamente a cosa lui stava pensando.
Ector si era ormai rassegnato ad affrontarla e l’osservò con attenzione, muovendo velocemente gli occhi per cogliere completamente la parte di lei che il lungo bancone non nascondeva alla vista. – Non poteva certo trattarsi di Francesco, e poi chissà dov’è adesso, sono passati più di vent’anni. Posso… Posso offrirti qualcosa? Con questo caldo.-
La donna rispose immediatamente, senza pensarci – Oh, no ora proprio no, devo scappare. Magari un’altra volta. Domani, eh? – Portò un dito alle labbra e sollevò distrattamente lo sguardo verso l’alto, come stesse inseguendo un pensiero. – Anzi – prese un foglio di carta e vi scarabocchiò sopra qualcosa, lo piegò in due e glielo porse.
Lui non ebbe il tempo di reagire – Ector, mi chiamo Ector – disse tendendole la mano, che abilmente finse di non notare. – Ti aspetto, Ector! – disse allegra andandosene senza lasciargli aggiungere altro.
La guardò allontanarsi restando senza parole, fissando la grande porta a vetri dell’atrio della biblioteca che si richiudeva lentamente dietro di lei. Ora era di nuovo completamente solo in quel grande spazio chiuso, di nuovo fuori dal mondo di traffico e caldo che stava fuori. Aprendo il biglietto ripiegato rimasto imprigionato fra le mani, si sentì come stesse per compiere un gesto solenne, un rituale che non poteva essere disturbato da nulla e da nessuno, un evento preparato con cura da tempi immemorabili. Si sarebbe aspettato un numero di telefono, un nome, una traccia, ma non quello che vi trovò: un giorno e un indirizzo.
Subito Ector non considerò le cose da questo punto di vista, immaginò dove si trovava quel posto e per scoprirlo dovette consultare la grande pianta della città appesa alla parete proprio di fronte a lui. Era una zona della città che non conosceva bene, nel lato sud, dove le case si diradano e i grattacieli scompaiono lasciando il posto alla periferia meno recente.
Osservò con attenzione il nome e la posizione della via, cercando di memorizzare un percorso e quando uscì dalla biblioteca tornò a casa. Irene non era ancora tornata così prese l’auto e imboccò una delle grandi arterie che conducevano fuori dal centro. Gironzolò senza meta, raggiungendo il lato più a sud. Come aveva immaginato in quella zona le case cominciavano a diradarsi, lasciando il posto ad ampie zone verdi incolte e costruzioni vecchio stile. Alcune mostravano visibilmente un passato di grandi case rurali poi riadattate. Proseguì senza fermarsi, raggiunse il luogo dell’appuntamento verificando che il percorso ce aveva scelto gli consentisse di raggiungerlo con facilità. Ragionò anche sul traffico che avrebbe potuto trovare all’ora prevista, poi continuò riprendendo la strada di casa, perso poco dopo nel traffico cittadino.
4
Non attendiamo
La vostra conferma
Per esistere
Nelle dimensioni
Che ci accolgono
Ector trascorse la giornata sforzandosi di non pensare a ciò che sarebbe potuto accadere quella notte. Tornò dal lavoro che Irene era già a casa; evidentemente era riuscita a liberarsi molto prima del previsto.
La salutò affettuosamente, quasi allegro; a sua insaputa fu grato ad Irene della sua presenza, non aveva voglia di trascorrere da solo le poche ore che mancavano all’appuntamento. Sbocconcellando qualcosa che aveva trovato nel frigorifero rifletteva fra sé su cosa sarebbe accaduto e su cosa avrebbe detto a Irene, che nel frattempo stava uscendo dalla doccia. Le sorrise osservandola, quasi irriconoscibile con i capelli avvolti nell’asciugamano e la vestaglia di qualche misura in più che le avvolgeva goffamente il corpo. – Fra un paio d’ore riattacco – disse lei senza entusiasmo. – Di già? – le rispose versandosi del latte in un bicchiere.
-Ti accompagno, se vuoi. – disse Ector con l’aria distratta. – Grazie, – rispose lei sollevata – non ho proprio voglia di rimettermi su un pullman con tutto questo caldo, e poi ho appena fatto la doccia. All’una semmai tornerò con un taxi.
– Posso passare a riprenderti – le disse Ector – Devi stare su fino a tardi, domani mattina io posso dormire un po’ di più, ma tu devi sempre alzarti alla stessa ora – ribatté lei con tono quasi interrogativo.
Ector allora riprese a parlare, come se Irene non esistesse, piuttosto raccogliendo i propri pensieri. – Qualche tempo fa mi era venuta quasi la fissazione, il ricordo in un bambino, compagno di giochi quando abitavo ancora fuori città. – Irene annuì accendendosi una sigaretta. – Avevo anche provato a parlartene, ricordi? – lei annuì distrattamente – Senza un motivo preciso mi era tornato in mente Francesco. – Si, ma cosa c’entra – gli disse aspettando una risposta.
Nel frattempo Irene prese il posacenere e lo appoggiò sul tavolo, poi scostò la sedia e sedette. Con un solo gesto liberò i capelli lasciandoli cadere sulle spalle, luccicanti e ancora umidi. Le ciocche le scendevano dolcemente sulle spalle coprendole una parte del viso, la testa leggermente inclinata. Teneva lo sguardo fisso su Ector che stava in piedi a pochi metri da lei, appoggiato contro il lavandino e continuava a parlare.
Con noncuranza Irene aveva accavallato le gambe e l’accappatoio si era leggermente aperto lasciando scoperte le cosce lisce e ben tornite. – Quando avevo provato a raccontarti qualcosa, – proseguì Ector avvicinandosi. -mi hai interrotto. – sottolineò con aria quasi di rimprovero.
Si sporse leggermente per prendere una sigaretta dal pacchetto sul tavolo e sfiorandole le ginocchia la vestaglia si aprì ancora un poco scoprendole i fianchi. Irene continuava ad ascoltare e sembrava incurante di ciò che le stava accadendo intorno. – L’altro pomeriggio, uscito dalla biblioteca sapevo saresti arrivata tardi, così ho fatto due passi in centro e per caso l’ho incontrato. – Irene ora lo stava osservando dritto negli occhi.
– L’ho visto di spalle, eppure dopo tutti questi anni l’ho riconosciuto, in mezzo alla gente. Era proprio lui, Francesco. – Voltandosi buttò la cenere nel lavandino un attimo prima che cadesse, aspirò una lunga boccata e proseguì. – Figurati, dopo tanto tempo! – Ector era enfatico, sembrava che aspettasse solo quel momento per poter raccontare, parlare di Francesco, ricordare. – Ci siamo fermati solo pochi minuti a fare quattro parole in un bar e poi ieri è venuto a trovarmi in biblioteca. Stasera ci vediamo. Non riesco a immaginare quanto sia cambiato, cos’abbia combinato in questi anni, chi sia adesso. –
Spense la sigaretta sotto il rubinetto e mise il mozzicone nel posacenere. Il suo volto era vicinissimo a quello di Irene che tirò indietro la testa, socchiudendo gli occhi e la bocca. Le accarezzò una guancia scostandole i capelli dal viso, mentre delicatamente le bocche si incontrarono in un lunghissimo bacio. La lingua di Irene avvolse la sua con delicata passione e come per magia, tutto il resto non appartenne più a nessun momento.
Ector con un semplice gesto sciolse definitivamente la cintura che chiudeva la vestaglia lasciando scivolare i due lembi di cotone leggero ai lati del corpo. Inarcando leggermente la schiena Irene gli offriva i seni piccoli e sodi e il ventre piatto, mentre le gambe ancora accavallate nascondevano in parte i peli del pube.
Ector le baciò il collo e le spalle, poi le si mise di fronte e senza parlare si inginocchiò davanti a lei. Irene dischiuse le gambe che appoggiò sulle spalle di Ector attirandolo a sé, premendo coi piedi nudi sulla sua schiena. Lui la baciò a lungo, abbandonandosi come fra le labbra calde di un’amante al primo incontro.
Irene guardò di sfuggita l’orologio – Ma è tardissimo! – e divincolandosi con delicatezza corse a vestirsi; dalla porta della cucina gli mandò un bacio scomparendo nell’altra stanza. Ector tirò fuori una sigaretta dal pacchetto quasi vuoto e
Francesco (I)
Capitoli introdotti da brani di Caroline Del Rej, Argo Stern, Xenia Brown, Malcom Leopold, Gerylinn Jones, Lucas Abraham, Jonas Lewinson, Alejandro Escondias, Chelsea De Laurie, Allison Bowles, Eliza Cockney, Arthur Melbourne, Albert J. Collins tratti da "Songs & Poetry from long distance America", Ed. Gal & Imar, N.Y., 1993 su gentile concessione degli autori.
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Caroline Del Rej
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Argo Stern
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Xenia Brown
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Malcom Leopold