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Ceramiche nel ducato Estense…

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Ceramiche nel ducato Estense
dal XVI al XIX sec.


La mostra clou di "Modena Antiquaria" si salda all’articolato programma del quarto centenario di Modena Capitale.
La storia della ceramica Estense, soprattutto nel ducato di Sassuolo, ha annoverato studiosi del calibro di Liverani, sulla scorta del Campori e del Pedrazzi. Si è individuato il corpus della produzione sassolese, a opera delle manifatture Ferrari e Dallari, in una disamina comparativa di topologie di forme e decori.
Con Francesco III, governatore della Lombardia, per il matrimonio tra Beatrice d’Este e Ferdinando, figlio di M.Teresa d’Austria, si ha un’apertura d’orizzonte che investe anche la produzione ceramica di Sassuolo.
In una dotta disamina, l’autrice del raffinato catalogo, Elisabetta Ferrari, individua nel termine greco Keras (corna) la matrice dei recipienti ricavati da corna, guscicliepi di tartarughe. Un mitico demiurgo cerano, figlio di Bacco ed Arianna, divenne protettore dei Vasai, nel quartiere ateniese denominato ceramico. Per la definizione di terracotta, maiolica, porcellana, si risalga non solo al Piccolpasso, e al suo Manuale dei Vasai, ma anche a Ignazio Cavazzuto, operante a Sassuolo nel XVII sec. . Del resto, già Plinio, (nat. mist. XXXV 12, 60) parla della ceramica di Modena, come Livio (Ab Urbe condita XLI, 18). Documentano la diffusione della produzione fittile, i ritrovamenti di fornaci, a Magreta, Savignano; i repertipresentano affinità con la ceramica artetina. Purtroppo, dopo la caduta dell’impero romano, il territorio fu sconvolto da guerre, invasioni, cataclismi naturali, che favorirono l’esodo della popolazione a ovest, come testimonia S.Ambrogio, in una lettera a Faustino.
Una ripresa sarà siglata solo dall’epoca comunale, come attestano gli Statuti del 1327, però senza menzionare nè Vasai o Figuli, nè Fornaciai, anche se ben quattro fornaci dovevano sorgere presso la 4 porte principale (Pedrazzi), favorite dalla ripresa edilizia nel riassetto urbano. Risulta che nel 1478 l’orciolaio Domenico da Firenze vendeva al monastero di S.Pancrazio scodelle e ciotole dipinte alla modenese che corrispondeva stilisticamente a marmorizzato delle terracotte, celebrate dall’umanista Antonio Arceo Codro (opera 145) quando i prodotti ceramici, di color verder Ramina o giallo, avevano assunto decorazioni stilizzate geometriche (stelle a 8 punte incrociate, rombi tagliati in croce) che intaccavano l’ingobbio, a graffito, d’origine orientale cinese e Islamica, approdata dalla Persia in Egitto, poi nell’area veneta ed emiliana, tra il XII e XIV sec., assumendo decorazioni "a sgraffio", raffiguranti elementi vegetali, legende amoroso-curtense e poemi cavallereschi, cartigli con motti erotici e coppe amatorie, stemmi gentilizi, simboli religiosi e animali simbolici: coniglio, cervo, leone e uccellini, individuando nella corte ferrarese che si riferiva ai cicli Carolingio e Bretone, imprese rivolte al diletto, allo svago, all’amore; con Lionello e Borso, la ceramica raffigura le "imprese" Estensi, la "siepe a graticcio", che allude alla vistosa bonifica, con allusioni al giardino di amore e delizie, tra cui spicca il mitico unicorno. Altre imprese spiccano, sciorinando oggetti dal XV al XVI sec., come l’anello con diamante e la granata che esplode.
Importanti artisti, come il Tura, non disdegnarono di metter mano a lavori artigianali, il chè era pratica comune a tutte le botteghe rinascimentali. Tra i "boccolari" del castello Estense sono menzionati Benedetto e Bastiano, attivi dal 1436 "invetriava quadri da presa su disegno di Jacopo sagramoro" cui si aggiungono i pittori Nicolò Panizzato e Simone d’Argentina, specificando il Campori che sono da considerarsi "quadri da preda", piastrelle decorative per fontane e giardini.
Persino Giovanni Luteri (Dosso Dossi) non disdegnerà di dedicarsi, oltre che alla pittura, ad arti applicate, srtigianato, disegnando ornamenti per le Maioliche "del Bocavari". La ceamica graffita dovrebbe essere denominata come "graffito estense" (Liverani). Alfonso I d’Este, non solo amava l’artigianato, ma vi si dedicava, come testimonia Paolo Giovio, egli lavorava al tornio flauti, tavoli e scacchi…
Alfonso, volendo che si diffondesse l’arte della ceramica, fece venire Vasai da Faenza, anche perchè, a causa dei disagi finanziari, conseguenza delle guerre, era più economico adottare vasellame in ceramica al posto del metallo prezioso. Del grande sviluppo fittile, documenta la lettera di Francesco Bagnacavallo a Isabella d’este, in cui si deduce la distinzione, secondo il Campori, tra maiolica a coperta piombifera o mezza maiolica e quella recente, a coperta stagnifera (…più galante, più subtilee e legiere, tuti bianchi, lavorati di bianco sopra bianco), ossia bianco "allattato", detto bianco faentino (piccol passo), applicazione attribuita ad Alfonso I.
Colori dominanti erano ferraccie a ramina, poi giallo antimonio negli oggetti pregiati. Nel sec. XVI, subentrano azzurro e viola manganese, dal Veneto. Al "graffio" si accosta la decorazione "a stecca". Enrico e Giovanni da Modena nel 1472 e 1489, fabbricavano stufe per il castello e nel 1506, Cristoforo da Modena prepara piastrelle smaltate e investriate per Lucrezia Borgia. Dopo una stasi, riprende l’attività ceramica con Alfonso II, sobentrato a Ercole, mentre si registrano richieste di collaborazione, da parte di ceramisti stranieri, come Battista di Francesco, che vantano le loro abilità, da Murano, (1567) allegando due disegno dei suoi lavori. Ma, a Ferrara, già operavano ceramisti Urbinati, tra cui quel Giulio menzionato come eccellente dal Vasari. Importante documento che attesta le tipologie e le tecniche di vasi di Francesco Malpighi boccolaro, dei cui vasi sono illustrate anche le cromie, nella gamma giallo-verde; nè mancano accenni a imprese e acquile estensi.
Un grande impolso culturale è dato dall’architetto Pirro Ligorio, personalità eclettica, si direbbe un designer ante-litteram, non limitandosi a pianta di edifici o all’assetto urbanistico, ma dedicandosi anche ad arredi e suppellettili e un servizio da tavola, di centi pezzi, decorato a grottesche, con putti e divinità marine, con il motto "ardet aeternum", inserito in un cartiglio a fiamma, simbolo dell’amore di Alfonso II per Margherita Gonzaga. Ma il servizio, forse realizzato nella bottega urbinate Patanazzi andò disperso in venti musei per la morte di Alfonso nel 1597 e al trasferimento della corte a Modena, dove era attiva la dinastia pittorica degli Erri, che si dedicarono anche alla decorazione e alla ceramica. Dal 1461, ebbero una fornace, per produrre vasellame per la fabrica di S.Geminiano, presso la torre del Vescovado, mentre Benedetto produceva, alla Fossalta, latterizi per l’edilizia, mentre suo figlio pellegrino ne aveva un’altra di latterizi ad Albareto persso il Naviglio. Benedetto si dedicava anche all’arte plastica, i cui esponenti sono stati Guido Mazzoni, che era quotatissimo e fece importanti lavori a Napoli e presso corti straniere; grande rilievo ha avuto Antonio Begarelli che ha eseguito numerose statue, suprattutto di soggetto sacro, anche a Parma nel territorio tra Modena e Reggio e a San Benedetto Po. Ma anche il Begarelli ebbe bottega di vasellame nella Piazzetta delle Ova, con il nipote Ludovico. Sopravvive solo il nome di Federicus de Mutanos, autore di un piatti di Maiolica (1593-94), su cui ha apposto l’autografo. Ma Carpi, nel XVI sec. ebbe buona fama per la ceramica "…nell’uso esperto del fondo a risparmio… per ornati naturalistici".
Nel 1616 Stefano Riva chiamato a Correggio per impiantare fabbrica di stoviglie, riceveva in dono due case per alloggiarvi tale attività. Solo nel 1561 si stila un documento di una corporazione di fornaciari, che compilarono uno statuto, in cui vengono menzionati "maestri da desco" ossia da tavola, ossia vasai. A Modena, capitale Estense, si ebbe notevole incremento di Attività; nell’ambito ceramico, emergeva la famiglia Croce attiva dal XVI sec. . Ma Operano ben sessanta vasai; i duchi Estensi agevolarono il commercio con una politica di protezione e sgravio fiscale; intanto sortiva una copiosa messe di prodotti dalla Romagna e dall’Umbria. Nel 1639 per di più Francesco I mandava a Faenza Francesco Sasselli, da Francesco Vecchi che inviava il suo pittore da Maiolica, per i pavimenti del palazzo ducale, aprendo un lungo periodo di declino, che si sarebbe protratto fino ai primi decenni del ‘600, quando sarebbe stata varata l’attività ceramica a Sassuolo. Anche se un documento del 1532 parla di vasai, per il materiale fittile commissionato dal massaro Alessandro Becengo, per provvedere i frati di vasellame, pagandolo cinque soldi. Marco Pio, signore di Sassuolo, nel 1576, organizzava le attività lavorative, tra cui quelle di "Bocalari". Con la dominazione del duca Cesare, si profila la propensione commerciale di Sassuolo, per l’importanza del fiume Secchia navigabile, che si innestava nel Po, da Brescello a Parma, in una rete fluviale che portava a Milano e Venezia, mentre via terra, c’erano collegamenti con Bologna e la toscana.
Dell’importanza della ceramica testimonia il documento del 1548; Giacomo Ferrarini e Antonio Carandini, "scodellari" rivolgono una supplica al duca per poter usufruire di un canale. Analogo di Marco Vandelli (1712) di serviva di un macinello di piombo per la terracotta; del 1734 è l’apertura di portichetto in cui Antonio Fornasari produceva vasellame. Francesco I farà dell’antica rocca un lussuoso palazzo in sintonia con il Palazzo di Modena, chiamando per entrambi l’architetto Avanzini e il pittore Boulanger. La pressione fiscale ducale di alleggeriva solo con Francesco III; solo dopo la pace di Acquisgrana (1748) col 1753 diventerà Governatore della Lombardia avviando una politica di riforme. I duchi concessero "privative", ossia attività di monopolio, di fabbricazione e smercio; del resto Francesco III riformista illuminato seguiva gli insegnamenti di Antonio Muratori, come si desume dai "rudimenti di filosofia morale per il principe ereditario di Modena", che comprendeva tra le attività, da essere incoraggiate, quella di vasi di terra o per la tavola o per la cucina, per caffè che saranno convogliati nel regolamento di Modena del 1741. Allo stesso anno, risale la costituzione della società sassolese per la fabbrica della maiolica, da parte di Andrea Ferrari, Paolo Baggi e Andrea Bandini, ma in realtà, essendo priva di stagno, rivolgendo una supplica al duca per la privativa e il divieto "d’intrusione di maiolica forestiera…", oltre ad agevolazioni fiscali, utilizzando manodopera specializzata. Tali suppliche ottenevano buona accoglienza, insieme all’istituzione di nuove Arti. Essendo sopreavvissuto il solo Bandini, alla scadenza decennale della concessione, fu costretto a cedere l’attività a Gio. Maria Dallari, presso Montebaranzone. Nel 1743, si apriva a Modena una fornace di Antonio Feriani "di vasi di terra di ogni sorta, all’uso bolognese". Dallari ebbe il rinnovo dei privilegi ducali sino al 1756 ed egli introduceva la maiolica all’usio di Lodi, di cui ricevette l’approvazione ducale, con privilegio fino alla terza generazione. Dallari introdusse una macchina, mossa dalle acque del canale, con cui si macinavano colori ed altri ingredienti ponendo le basi di una attività industriale.
Giovanni Dallari entra in una carica pubblica, cedendo la fabbrica ad Andrea Leonardi e dalla lista dei prezzi, si desume un elenco dei tipi, fogge di maiolica: tondi, fruttiere, catini, tazze, chicchere, rinfrescatoi, bacini da barba, zuppiere di tipo lodigiano, bicchiere a ruote, saline, vasi da fiori. Dal 1814, si instaura il ducato di Francesco IV. Intanto, le sue fabbriche si riunivano con costanzo Dallari, mentre iniziava l’attività della produzione del conte Ferrari Moreni; nel 1835 decideva di rilevare la Dallari, oltre al diritto di estrarre argilla dal fonso San Polo. Si profilava l’attività di Vito e Lodovico Docelli, a Scandiano, con coadiutore Terenzio Rizzoli, già attivo alla Dallari, oltre a Francesco Caiti e Andrea Lazzerini, foggiando esemplari bianco-azzurri con decorazione floreale tipo Ming, orientaleggianti come quelli della "Compagnia delle Indie".
Ferrari Moreni, divenuto podestà nel 1851, cedeva l’attività al Rubbiani, ma la scomparsa di Luigi Rubbiani aprì una crisi; un loro congiunto, Don Antonio, ricoprendo cariche pubbliche, fu sospeso "a divinis". Ma la produzione assunse un ruolo non solo nazionale, ottenendo importanti riconoscimenti a Padova, nel ’70; a Teramo, nel ’73 a Vienna, cui confluiranno fabbriche importanti, come Ginori, Fermiani, Antonion; ottiene menzione onorevole anche all’Expo di Parigi nel 1876 con Vasellame e utensili pur decorando l’ottimo pittore Domenico Bagnoli splendidi esemplari artistici; una produzione d’imitazione cinese fu esposta a Milano nel 1881, in cui si ebbero medaglie d’argento e riconoscimento critico di Antonio Corona e la grande soddisfazione della vendita per la considerevole somma di 1000 lire del "vaso barocco" niente meno che dal re!
Ancora una medaglia d’argento si aggiudica la produzione all’Expo di Torino del 1884. Ma il vero colpo di genio del Rubbiani è di adottare materiale di rivestimento per piastrelle esposte a Roma nel 1889, ottenendo lusinghiero successo e relative, massicce ordinazioni. Poi, introduce la riproduzione meccanica della decorazione. Ma alla sua morte, ci fu una stasi: il figlio Ugo non era tagliato e i nipoti si dibattevano in difficoltà anche se la "premiata pitta" continuava a sfornare vasellame e "quadrelle" verniciate per pavimenti. Scomparsi Orazio e Ugo, Don Antonio assegnava ai nipoti sue proprietà, ma le difficoltà imposero la vendita di terreni e proprietà, ma la voragine delle passività ne dispose la liquidazione nel 1910, mentre la fabbrica fu rilevata da Matteo Olivari; dopo la grande guerra fu ceduta a Odescalchi e fu quindi conglobata nella Marca Corona. Con l’esauriente Baedeker del catalogo, curato da Elisabetta Barbolini Ferrari, abbiamo potuto seguire l’evoluzione stilistica della produzione fittile, dagli esemplari più antichi quattrocenteschi ferraresi, con decorazione "a sgraffio", con stemmi, emblemi, imprese, motivi e simboli araldici, coppe d’amore, ornate on motivi vegetali stilizzati, la cerva simbolo di fertilità, nell’esemplare verde-giallo del piatto del XIV sec. . Un altro esemplare del repertorio "amatorio", la scodella dalla cui cornice fitomorfa verde-gialla, si staglia un profilo di donna, contornato da una retina, il che consente di tracciare un affresco di costume nella disamina delle gogge di abiti, tipo di acconciatura e di ornamenti, tra cui la curiosa "donna con turbante" che si vede del resto, anche nella ceramica faentina.
Targhe devozionali son quelle di Carpi, incastonate in foggie a mandorla, che inserisce l’effigie aggettante dell’Assunta con Cartiglio inciso dalla scrittura Carpi e l’atteggiamento della Madonna in piedi, a mani giunte, deriva dall’omologa scultura lignea di Gaspare Cibelli, nel Duomo di Carpi. Il bassorilievo plastico lionato è picchiettato di verde-ramina.

Giuliana Galli

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