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Pesaro 2000

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Pesaro 2000

La mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro è giunta quest’anno alla 36° edizione. Il nuovo direttore Giovanni Spagnoletti, pioniere dei cineclub off off e docente di storia del cinema, ha proposto una rassegna particolarmente effervescente, con al centro il cinema europeo del métissage nel triangolo Parigi-Londra-Berlino, affiancato dalla proiezione integrale di tutti i film del cineasta di Hong Kong Stanley Kwan, da un omaggio al francese Jacques Doillon, da anteprime d’autore nella piazza centrale (con anche il concerto dei No smoking di Emir Kusturica) e con un evento speciale dedicato al cinema italiano degli anni 90, di cui parlo a parte.
Il nuovo cinema che è nella definizione e nello statuto della rassegna viene oggi interpretato come quello che riesce a cogliere per primo il flusso più vitale che emerge dal presente.
Risponde in pieno a questa intenzione la rassegna sul cinema europeo del métissage, prodotto dalle seconde generazioni dell’emigrazione arrivata in Europa, in particolare nei paesi in cui più massiccio si è avuto l’insediamento, cioè Francia, Gran Bretagna, Germania, proveniente dal sud del mondo, spesso dalle ex colonie europee: cinema beur, cioè arabo e francofono, dell’Africa sub sahariana, delle West Indies (India, Pakistan), dei turchi, dei kurdi e degli armeni tedeschi.
In uno dei film visti (Nés quelque part del francese Malik Chibane), c’è una scena che rende bene le possibili direzioni di un confronto tra culture che si incrociano, in cui cambia chi emigra ma anche chi ospita lo straniero: due ragazzi, lui vive nella periferia ed è di origine araba, lei è bionda e parigina doc, guardano un acquario in cui un elegante pesce nero se ne sta solo in una vasca mentre nell’altra ci sono molti pesciolini rossi; secondo lei, si tratta di un pesce esotico, straniero, che è stato isolato dagli altri pesci che non amano le differenze; secondo lui, invece, il pesce è uno specie di principe dei mari, che ha bisogno di molto spazio intorno a sé e per questo si ritrova solo. Ghetto come esclusione o ricercata separatezza?
I cineasti e video artisti presenti nella rassegna cercano di conciliare la cultura del paese d’origine con quella del paese in cui vivono e di cui si sentono cittadini, rivendicando le proprie identità e rifiutando i ghetti del separatismo e dell’esotismo, cercando di rielaborare modelli del cinema occidentale, rifiutando gli stereotipi e lavorando sulla forma e sulla contaminazione dei linguaggi.
Il cinema del métissage è un fenomeno in continua trasformazione, che forse in futuro non esisterà più, quando le origini di provenienza avranno perso la loro specificità (almeno in quei paesi perché in Italia invece nascerà esso soltanto tra qualche anno); questo movimento porta verso un cinema plurale, con una molteplicità di sguardi, di punti di vista e di voci, che auspicabilmente potrebbe dare nuovo ossigeno alla cultura europea anche nel cinema, così come è avvenuto nella letteratura.
Una vera grande scoperta di questa edizione di Pesaro è stato il regista di Hong Kong Stanley Kwan, coetaneo del più famoso Wong Kar-wai di Happy together. Si tratta di un autore che proviene dalla televisione e che ha alternato film di finzione e documentari sulla realtà in mutazione del suo paese.
I temi preferiti di Kwan sono quelli legati all’identità cinese, una e trina, divisa tra Cina popolare, Taiwan e Hong Kong, con il rapporto tra passato e presente, prima e dopo la riunificazione con la madrepatria; e accanto a questo c’è l’altro tema forte, quello legato all’identità sessuale, anch’essa in mutazione/movimento/ridefinizione.
Stanley Kwan ha molto utilizzato le forme del melodramma orientale (colori abbaglianti, pulsioni sotterranee, fascino dei corpi) per raccontare in particolare storie di donne, in cui ha proiettato per tutta una parte della sua carriera la propria storia personale e familiare, alla ricerca di una figura paterna così come di un legame da recuperare con la Cina, attraverso la proiezione dell’identità nazionale perduta della gente di Hong Kong.
In uno dei suoi film più belli di questo periodo, Rouge, una donna ritorna come fantasma 50 anni dopo la sua morte per incontrare l’amante perduto e vaga per le strade della città che non riconosce più: 50 come gli anni di relativa autonomia che Deng Xiao-ping aveva garantito alla ex colonia dopo la riunificazione.
Nel 1996, alla vigilia del ritorno alla Cina, queste due crisi di identità, politica e sessuale, esplodono nel cinema e nella vita (strettamente intrecciati) di Stanley Kwan: in un documentario sul genere nel cinema cinese, Kwan fa una pubblica dichiarazione della propria omosessualità; da questo momento inizia una nuova fase del suo cinema, in cui il regista non si proietta più nei personaggi femminili (e iniziano a comparire nelle sue storie gay e lesbiche) e si allontana, metaforicamente, da Hong Kong verso nuove mete.

Paolo Baldi

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