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Solo registi?

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"Solo" registi?

Le ultime settimane sono state occasione per vedere due interessantissimi lavori di due altrettanto interessanti "registi" (volutamente tra virgolette e poi scopriremo insieme il perché) come Guido Chiesa e Davide Ferrario.
Molti li conoscono per avere diretto insieme l’eccezionale documento intitolato "Materiale Resistente" nel 1995, evento nel quale uno storico concerto faceva da cornice alle manifestazioni per la celebrazione del 25 Aprile nel territorio correggese, in provincia di Reggio Emilia, terra che diede uomini alla resistenza e che sta cercando di non dimenticarsene, come invece qualcuno vorrebbe fare. Ed è proprio la memoria ed il suo concetto che accomuna questi due "registi", ancora tra virgolette. Perché non li definisco registi? Perché entrambi non sono veri e propri registi che traducono una sceneggiatura in immagini, cercando la posa dell’attore o la scenografia ricercata. Chiesa e Ferrario sono moderni enciclopedici, fini osservatori ed abili montatori. Lo strumento cinema è un mezzo, non un fine.
Con questo concetto si possono realizzare immagini documentative ed affascinanti dove la finzione del cinema e l’impegno civile si coniugano senza annoiare e senza dover ricorrere ad artifizi che allontanerebbero dalla realtà. I risultati sono due opere di ricerca e montaggio, non li definirei film e soprattutto quello di Ferrario, intitolate "Non mi bsta mai" di Guido Chiesa e "Linea di confine" di davide Ferrario. Il primo dei due racconta dello sciopero dei 35 giorni che ha paralizzato la FIAT alla fine del 1980. Grazie all’insistenza di Piero Perotti ed all’immensa quantità di materiale Super8 da lui messo a disposizione, Guido Chiesa realizza in collaborazione con Daniele Vicari un documentario reportage di rabbiosa bellezza dove le immagini tremolanti e sfocate dei cortei e dei picchetti si mescolano con i volti attuali di quei protagonisti, rinati e mai pentiti da quell’esperienza. Perché proprio di un’esperienza si trattò, non di un semplice sciopero. Ci raccontano che l’immigrazione dal Sud si era ormai radicata e stabilizzata non solo dal punto di vista residenziale ma soprattutto sociale e ideologico. Vedere lo sciame di visi giovani e sorridenti che attraversano i cancelli principali della fabbrica rimanda ad un cancello sul quale c’era scritto che "il lavoro rende liberi", ma che per molti era l’ultima soglia di libertà. Il paragone è eccessivo, ma lo è volutamente perché è proprio dalle parole di coloro che allora furono protagonisti che ne esce un racconto quasi epico di una battaglia tra dirigenza e lavoratori iniziata col licenziamento di 35 di loro, apparentemente per motivi di disciplina, in realtà per un’epurazione ideologica vera e propria. Fa quasi tenerezza riconoscere un giovanissimo Luca di Montezemolo impegnato in una trattativa drammatica circondato da giornalisti e riflettori, proprio nel bel mezzo di una discussione. E come è finita? Beh, le cifre parlano chiaro. I dipendenti del gruppo FIAT sono calati di circa 15000 unità e lo sarebbero ancor di più se dal conto si escludessero le acquisizioni di altre società. La FIAT, è inutile nasconderlo, ha vinto la guerra, senza perdite. Ciò che la FIAT (e il governo…) non vinse fu la tenacia e la speranza di alcuni di coloro che la fabbrica voleva inghiottire tra i macchinari.
Dopo un periodo di smarrimento li ritroviamo rinati e fieri di ciò che sono stati costretti a ricreare dopo essere stati defenestrati dalla fabbrica, da quel luogo che era diventato più di un posto di lavoro ma anche l’incontro con gli amici, una tribuna politica, un momento di svago, una fonte di guadagno.
Sorridente ci dice che è diventata rieducatrice, orgoglioso ci dice che è diventato un artista della gommapiuma imparando da un collega che confezionava i pupazzi per le manifestazioni, con lo sguardo sfuggente ci dice che si è tolto fuori ben presto, con gli occhi lucidi ci dice che fa assistenza a ragazzi difficili e vive con la sua famiglia in una comunità. Queste persone, la loro corteccia, le loro braccia, il loro sorriso non è più appartenuto alla fabbrica ed ha trovato una nuova vita. Immagini suggestive montate con maestria narrativa ancor prima che giornalistica inframezzandole con primi piani silenziosi di queste persone.
Alla fine però un dubbio, e che rabbia non averlo chiesto a Vicari presente alla proiezione! E tutti gli altri? Sarebbe stato interessante scovare qualcuno che la FIAT ha sconfitto veramente, costringendolo ad ingoiare il rospo per mantenere la famiglia o licenziato comunque per poi finire in un’altra fabbrica dove sarebbero cambiati i carcerieri ma non la pena. Ed inoltre, quale alternativa avrebbero avuto coloro che non se la sono sentita di perdere un appiglio sicuro e probabilmente necessario e irrinunciabile? Il tema è vastissimo, Chiesa ci offre una pregevole documentazione per stimolare e far rinascere una discussione che sta perdendo di significato travolta dal Mibtel e dai lavoratori atipici. Il vento che soffia dalla Francia arriverà anche da noi, ne sono sicuro, magari non avrà l’espressione decisa di Rosetta ma arriverà.
Il secondo "film" è "Linea di confine", ovverosia un montaggio abbastanza libero di materiale girato con una troupe ridottissima ed attrezzature semiprofessionali a seguito del gruppo dei C.S.I. impegnato in tre concerti nella ex-jugoslavia. Le tre date, fortissimamente volute dalla regione Emilia Romagna che più di tutte le organizzazioni europee ha fatto per quella regione, erano previste per Mostar Est, Mostar Ovest e Banja Luka. Ferrario si aggrega all’ultimissimo minuto su invito di Giovanni Lindo Ferretti, la mente dei C.S.I. Al sonoro in presa diretta si aggiunge la narrazione dal vivo dello stesso regista presente alla proiezione, dopo averci spiegato che rimontare quel materiale, girato nel 1995, dopo quattro anni dall’ultima visione ha avuto ancor più forza, soprattutto se confrontato con quanto i canali informativi "ufficiali" ci hanno mostrato dalla fine del conflitto.
Dalle parole di Ferretti capiamo che Mostar è di fatto divisa in due ma che esiste una terza città che è terra di nessuno e fa da confine alle altre due. Le immagini raccontano di case sventrate, bossoli dappertutto ma soprattutto nei punti dai quali si potrebbero fare ottime fotografie panoramiche della città (ironica citazione dello stesso Ferrario). Le immagini raccontano di un gruppo di persone impegnate a riportare la musica in un luogo che da almeno un decennio non vive un avvenimento del genere. La doppia data a
Mostar3 è fondamentale per non far credere di appoggiare una parte piuttosto che un’altra ma di voler dichiararsi contro il conflitto e per la ricostruzione a tutti i costi. La pioggia pare rovinare tutto ma poi, complice una danza propiziatoria con criniera di cavallo tibetano, dopo un primo annullamento si può suonare. Gruppi locali precedono i C.S.I. davanti a poche decine di spettatori incuriositi (saranno molti di più la sera seguente).
Il concerto è naturalmente un pretesto perché i nostri occhi subito scrutano dentro le crepe dei muri per vedere un disperato bisogno di ritorno alla normalità, attorno ad un tavolo o davanti ad un bar con aspirazioni occidentali. "Linea di confine" ci fa conoscere una donna napoletana in lacrime che sta per lasciare il gruppo di donne locali con le quali ha creato e condotto un progetto cooperativo al femminile. Conosciamo anche un ragazzo che vede il suo torturatore suonare il basso sul palco ma mentre noi inorridiamo lui rassegnato si allontana. E’ proprio la follia collettiva del nemico vicino a casa, dell’inutile scintilla religiosa o della scusa dell’etnia che alla fine ti fa girare la testa e chiederti perché è successo. Ferrario tenta anche di mettere alle corde un soldato italiano impegnato in una missione di pace ma quest’ultimo risponde come chi è fiero di fare il soldato per la pace e non contro un nemico. Ci si chiede ovviamente se l’intervento militare sia stato giusto oppure no. Ritornano alla mente temi ed argomenti che troppo velocemente sono stati ingurgitati e mal digeriti.
Meglio che un in film, dove la pur accurata finzione avrebbe lasciato lo spettatore distaccato dalla realtà, Ferrario crea sapientemente un reportage (ma sarà giusto chiamarlo così?) che non ha le didascalie del documentario quanto piuttosto il supporto delle immagini e dei suoni a sensazioni personali e vere. La telecamera come estensione della visione, come impressione definitiva di immagini che altrimenti sarebbero lentamente scemate. "Linea di confine" non circolerà mai con la distribuzione ordinaria ma solo in abbinamento con eventi o richieste ad hoc.
E chi dice che il cinema sta finendo?

Michele Benatti

3
La passerella che vedete sullo sfondo è quella che ha sostituito il tristemente famoso ponte bombardato.

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