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La Baia del Mattatoio

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La Baia del Mattatoio
Sesto classificato (Media: 6,46)

L’anziano pescatore amava correre sul lungo mare di notte. Lo faceva sempre, con ogni condizione climatica, era un modo per tenersi in forma. Faceva sempre lo stesso percorso, dalla sua casetta vicino al porto fino alla spiaggia meridionale; il piccolo paese istriano era disteso su un promontorio, posto ad est di un altrettanto piccola baia ad u. Tutto era ammantato di boschi, un vero paradiso. Quando però arrivavano i turisti, tra giugno e settembre, il paese diventava una specie di parco giochi: le loro lance da pesca, il mercato del pesce, perfino le loro baracche nel porto, erano diventate un’attrazione turistica, una sorta di circo vivente; quegli yacht, poi, con il loro lusso sfrenato, erano un insulto a chi col mare si guadagnava da vivere, un sacrilegio. Lui detestava quel mercato, gli sembrava di prostituirsi e si era sempre tenuto lontano dalla vita del paese, per questo, sebbene fosse uno degli abitanti più anziani del borgo, stava spesso da solo e aveva pochissimi amici, tanto che in paese tutti lo chiamavano l’orso. Quella volta, durante la notte di San Lorenzo, con la spiaggia piena di famigliole chioccianti e il mare coperto dalle luci degli scafi da turismo, tutti col naso all’insù a cercare di vedere le stelle candenti, aveva deciso di cambiare percorso e di correre verso la caletta settentrionale. Qui il terreno era più impervio, i sentieri meno battuti, troppo scomodo per i piedini nobili di tedeschi e italiani: nessuno l’avrebbe scocciato. La caletta era un tridente d’insenature rocciose, dai fondali profondi ed insidiosi. Sull’insenatura più a sud troneggiava un’antica torre di avvistamento. La baia del mattatoio, così era chiamata dal volgo, aveva un che di spettrale, ma il vecchio non aveva mai creduto alle innumerevoli leggende su quel posto. A un tratto vide sul mare una luce azzurrognola, che si avvicinava alla costa. Sembrava un fuoco fatuo e qualcosa in essa trasferiva una sensazione di ostilità. Si nascose nel bosco, in una posizione da cui poteva dominare la caletta e osservò. La luce si avvicinò a riva nel punto più impervio della costa; l’orso notò un capannello di ombre scurissime accalcarsi vicino alla luce; da quella posizione non poteva capire se erano in acqua o sulla terra ferma, sembrava che la luce, mentre illuminava tutt’intorno, lasciasse dei punti ciechi, dei negativi, non sapeva spiegare meglio la sensazione visiva che provava. Il gruppo di ombre setacciò la caletta in maniera minuziosa, macchie nel buio, come quelle che si vedono quando si hanno gli occhiali da sole sporchi. A un certo punto notò una seconda luce, scendere dal sentiero. Ciondolava in maniera ritmica ed era di un bianco intenso: una torcia. Lentamente le torce si moltiplicarono in una funerea processione che dagli innumerevoli sentieri del bosco scendeva verso la caletta. D’un tratto tutti i suoi ricordi di infanzia affiorarono; le leggende sulla baia del mattatoio, i racconti delle vecchie, che a loro volta li avevano sentiti da altre vecchie. Gli spettri della torre del mattatoio, che si nutrivano di anime umane, i sabba che si tenevano nelle notti a cavallo di quella di San Lorenzo, quando le stelle cadenti portavano i demoni, caduti dal cielo, verso il loro appuntamento mondano. Rabbrividì. Poi vide una torcia scendere per lo stesso sentiero che aveva percorso lui. Sentiva lo scalpiccio di piedi sui rami secchi del sottobosco; si acquattò tremando. Forte era la paura, ma altrettanto lo era la curiosità: stava per vedere una strega. Arrivarono pochi minuti dopo. L’uomo era grasso, sulla quarantina; teneva la ragazza stretta in una morsa dolorosa, con le braccia legate dietro la schiena. Al chiaro di luna, il suo ghigno sembrava quello di una bambola di porcellana, bianco ed inquietante. Lei protestava e tentava di divincolarsi; le aveva stretto la mano sulla bocca e lei era troppo fragile per resistergli.
"Taci, puttana: ora vedrai i primi nati, sei una privilegiata. Un’ora fa battevi il marciapiede, ora sarai il pezzo forte del nostro banchetto."
L’orso decise che doveva fare qualcosa. In tasca aveva il vecchio coltello, con cui aveva combattuto gli italiani durante la guerra. Lo estrasse e lo soppesò. Aveva una sola possibilità. Attese che la strana coppia gli passasse proprio accanto, poi lanciò. Era sempre stato un buon lanciatore e anche stavolta centrò il bersaglio. L’uomo urlò e lasciò la preda, mentre cercava di capire da dove era venuto il pugnale che adesso pendeva insanguinato dalla sua spalla. La ragazza gli fu sopra con furia: lo prese a calci e pugni sul viso e sui testicoli. Poi strappò il coltello dalla ferita, lacerandogliela, e si preparò a piantarglielo nella gola.
L’orso uscì dal suo nascondiglio e afferrò la ragazza. "Venga – sibilò – non c’è tempo per la vendetta, dobbiamo fuggire prima che quelli ci prendano".
Corsero il più lontano possibile dall’uomo agonizzante. "Come siete venuti?"
"In macchina, quel porco l’ha parcheggiata all’imboccatura del sentiero. Chi era quel maiale, chi sono quelli? – piagnucolò lei indicando le luci sugli scogli – chi diavolo è lei?
"Mi chiamo Yuri, ma la gente preferisce chiamarmi orso, forse perché sono un po’ solitario. Non so chi siano quei matti laggiù, ma di certo non voglio trovarmeli tra i piedi. Sembra una specie di rito satanico."
"Quello stronzo, mi aveva promesso di portarmi a una festa, poi ha parcheggiato qui e mi ha legato le mani, ce la saremmo spassata, mi ha detto, tutti se la sarebbero spassata con me; poi diceva delle strane cose sui primi nati…cazzo"
Yuri si accorse che qualcosa non andava appena furono in vista della jeep. Colse un ombra e il suo istinto represso da partigiano fece il resto.
"Stia giù! – intimò – sono vicino alla macchina".
Sotto di loro il mare aveva iniziato a ruggire, portando seco un vento gelido e una fastidiosa pioggerella. Dallo scorcio del bosco li scrutava la finestra buia della vecchia torre del mattatoio, come la pietra tombale di un gigante. I minuti erano ore, mentre dal loro nascondiglio nel sottobosco più fitto attendevano che la tempesta si quietasse e che le sentinelle lasciassero libera la strada per la jeep.
Il forte vento e i ceffoni delle onde sugli scogli non riuscivano a coprire le urla: nella caletta stava succedendo qualcosa di orribile. Sembrava che centinaia di animali venissero macellati, ma dalle suppliche in varie lingue che il vento portava fino a loro, era chiaro che il mattatoio stava occupandosi di esseri umani. Un flash back di partigiani che gettavano prigionieri, alcuni ancora vivi in una foiba, gli strinse lo stomaco: c’era stato anche lui. La ragazza era raggomitolata come un feto, tremante e muta. Una stella cadente illuminò la notte: i demoni cadono dal cielo.
Nadia si svegliò che il sole stava nascendo. La leggera nebbiolina del mattino avvolgeva il bosco e una brezza fresca la faceva rabbrividire. Per un attimo pensò che fosse stato tutto un incubo, l’uomo grasso che l’abbordava sul marciapiede, le luci nella baia, la corsa nel bosco. Poi scorse la jeep all’imboccatura del sentiero e la realtà la colpì come un pugno allo stomaco. Uno scricchiolio alle sue spalle la fece saltare in piedi, tremante. "Sono io – la tranquillizzò il vecchio che le aveva salvato la vita – ti sei svegliata, finalmente, temevo che non ti saresti più ripresa: stanotte piangevi come un neonato e ti contorcevi come una pazza". "Quelle urla – gli rispose lei, con un filo di voce – le hai sentite anche tu?". "Hanno smesso verso le quattro, poi la processione è tornata al paese". "Cos’è successo, laggiù?". "Posso solo fare qualche ipotesi. Se ascolti le leggende popolari, quelle che si raccontano mentre sei su in mare, ti diranno che esistono delle cose più antiche dell’uomo stesso, esseri immortali, che non sono dei ma reclamano il loro tributo di sangue, che spesso i signori del posto hanno dovuto concedere, per placarli; essi dimorano in quella torre – indicò l’antico rudere che ammiccava ostile dal promontorio. Non ci ho mai creduto, fino a stanotte: il tuo amichetto parlava di primi nati…."


Gabriele Sorrentino

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Giudizi


Francesca Orlando: 8,00
Questo racconto è scritto in modo chiaro, corretto e scorrevole. La cornice è decisamente suggestiva e l’autore riesce a invogliare il lettore a proseguire nella storia per scoprire ciò che accadrà. Molto bella anche la conclusione, capace, se si vuole, di riportare a quelle leggende che tutti noi conosciamo, legate a luoghi e a fatti del passato.

Giovanni Strammiello: 7,33
Una storia diversa dalle altre: ma voglio sapere come va avanti la storia…


Doriano Rabotti: 7,00
Originale, e anche sviluppato bene. Anche se non si capisce benissimo perché si chiamino ‘primi nati’.

Matteo Ranzi: 6,75
carino, seppur anche qui manchi il pathos del racconto, ci sono alcuni segni di confidenza con il genere

Walter Martinelli: 6,50
Ambiente che ricorda HP, ma forse troppo diretto e poco evocativo. Manca la materia oscura dell’universo alla Lovecraft.

Raffaele Gambigliani Zoccoli: 6,50
Bellissimo inizio, con buon ritmo e ottima scrittura. Poi ci si perde nel già sentito, come se il racconto dovesse essere finito per forza.

Marco Varone: 6,50
Lineare, scritto con cura e piuttosto anonimo.

Franco Tioli: 6,00
Il compitino è stato svolto senza infamia né lode, penso che ci siano margini di miglioramento; è stata resa bene l’atmosfera senza esagerare con termini volgari

Enrico Miglino: 6,00
La storia ha un inizio che lascia spazio a un proseguire un po’ scontato, poi riesce a catturare l’attenzione del lettore. Purtroppo la suspense sfuma in un finale troppo banale. L’introduzione è inefficace e troppo lunga, lasciando la narrazione interessante ma sbilanciata. Gli interrogativi che restano al lettore si riferiscono principalmente alla mancata chiarezza della seconda parte della storia.

Gabriela Guidetti: 4,00
Buon inizio. Deludente nel finale esilissimo e totalmente irrisolto.

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