Il titolo si riferisce a come mi sono sentito dopo la visione di "Felix et Lola" di Patrice Leconte e di "Bamboozled" di Spike Lee, entrambi in concorso alla Berlinale1.
Il primo stato d’animo durante la visione del film francese è la disillusione, la disillusione dall’aver creduto che Patrice Leconte dopo l’accattivante ma vuoto "La ragazza sul ponte" avesse cambiato un po’ rotta e, conscio dell’immeritato successo della pellicola precedente nonostante l’ottimo Daniel Auteil, proponesse qualcosa di diverso, di nuovo. Il fatto che fosse stato inserito in concorso mi dava fiducia, e come me doveva pensarla il pubblico dato che la sala era piena già da tempo prima dell’inizio del film.
E invece… E invece? E invece.
Il film inizia alle giostre, più precisamente all’autoscontro2 dove il gestore è un tenebroso che dall’espressione e da come lo coccolano e ne parlano i compagni di lavoro capiamo già essere uno che ne ha viste tante, uno con un passato che lo ha segnato, uno che non si aspetta più nulla dalla vita e tantomeno dalle donne fino a che… Fino a che?
Fino a che compare lei e ancor prima che apra bocca la radiografia ci dice che anch’ella ha un passato (la primissima scena del film dà bene il senso della storia che seguirà) che però vuole dimenticare. Inutile dire che i due "maledetti" si incrociano, si sfiorano, si cercano ed infine si trovano. Lei nasconde qualcosa, lui vorrebbe sposarla. Lei lancia occhiate misteriose ad un tipo che si aggira intorno alla giostra, lui prova a picchiarlo. Lei si fa promettere che di quella storia non se ne parlerà più, lui accetta di ucciderlo per amore. Ma basta, dico io. Il film è ricco di frasi del tipo "mi devi dire tutto", "uccideresti per me?", "ci siamo solo noi due" e via di questo passo. Insomma, lei è carina ed intrigante, non c’è dubbio (Charlotte Gainsbourg), lui fa il suo mestiere, il giostraio, l’altro è addirittura uno chansonier che alla fin fine sembra pure essere una vittima, nientemeno. Il giudizio è soggettivo, certo, e di sicuro "Felix et Lola" piacerà a chi cerca proprio queste atmosfere un po’ marginali, interpretate da persone comuni con qualcosa di speciale e di eccezionale. A me il fil ha irritato a fin da subito, più concilianti saranno altri spettatori, quelli ai quali piacerà lo spirito libero di lei o il trasporto sentimentale di lui, ma, alla lunga, tutti saranno un po’ stanchi ed al termine della proiezione ci si chiederà "è tutto?".
Non me ne volere Leo3, ma la Francia che mi piace vedere è quella di Romher, quella dell’ultima ondata di film sul lavoro e sugli operai, quella di Chabrol (cioccolate a parte).
Repentino cambio d’argomento per passare al film che più mi è piaciuto tra quelli in concorso (anche se una menzione la meritano "Little Senegal" e "My sweet home" dei quali parleremo nel prossimo numero, non dimenticatevene) e, dove eravamo?, ah sì, e cioè "Bamboozled", l’ultimo joint di Spike Lee.
La giornata era cominciata decisamente meglio, quel lontano e ventoso 12 Febbraio. Si era a Potsdamer Platz e, come nei giorni passati, si faceva fatica a conciliare il desiderio di una colazione con gli orari dei bar e con quello che eventualmente c’era dietro alle vetrine. Insoddisfatti e un po’ perplessi dai prezzi, ci si è poi infilati nella mandria silenziosa che riempiva pian piano la bella sala del Berlinale-Palast, tutta rossa e con le gallerie a precipizio sullo schermo. Dicevamo che la giornata era cominciata bene perché i 135′ di "Bamboozled" sono trascorsi in un attimo, tanto il film è divertente e impegnativo allo stesso tempo.
Spike Lee è un negro, un vero negro. Non accetta compromessi, è un integralista, a modo suo. Nei suoi film precedenti non aveva mai nascosto d’esserlo, pur tra risultati altalenanti, ma è con "Bamboozled" che dichiara guerra ai bianchi, ai bianchi che scimmiottano i negri, agli stessi negri colpevoli di voler assomigliare ai bianchi e addirittura ai negri non orgogliosi quanto lui d’esserlo. Il film si apre col riferimento esplicito alla satira che sarà il filo conduttore di tutta la storia. Una rete televisiva è alla caccia degli spettatori di colore presso i quali ha poca audience. Uno dei creatori, un nero di origini francesi o delle colonie, escogita uno show che sia una parodia intelligente dei vecchi spettacoli razzisti statunitensi della prima metà del secolo dove i personaggi negri avevano grosse labbra rosse su fondo bianco e facevano la figura degli scemi, servendo il padrone bianco o facendolo ridere per poi prendere qualche bastonata. Le intenzioni di Delacroix, interpretato da Damon Wayans, sono oneste ed egli sembra veramente farsi carico dell’orgoglio e della dignità dei neri facendo interpretare a due negri veri presi dalla strada proprio quelle macchiette offensive e razziste che popolavano i vecchi show. La trovata è proprio nel nero che interpreta il nero. Coadiuvato dalla bella assistente lo show ha inizio. I due vengono chiamati Mantan, un modo volgare di definire una persona di colore, e Sleep ‘n Eat, ovverosia "dormi e mangia" per ricordare la proverbiale (e presunta) oziosità dei neri. Lo spettacolo è un successo enorme, nessuno sembra fermarlo. A seguirlo sono i neri che ridendo di loro stessi possono affermare la raggiunta emancipazione, a ridere degli sketch sono i bianchi che fanno proprie le espressioni più divertenti come "yassa", una contrazione di "Yes, sir" che i raccoglitori di cotone pronunciavano in continuazione, tra il pubblico ci sono immigrati d’ogni genere che si immedesimano della minoranza nera (c’è addirittura un negro di Sicilia, così come lui stesso si definisce).
Qualcosa però comincia ad incrinarsi perché uno dei due interpreti trova un attimo di lucidità in mezzo all’euforia del successo e si chiede se quello che sta facendo è giusto. Oltre a lui c’è una crew di rapper, molto stereotipati da Spike Lee, che cova un rancore crescente nei confronti dello show che non li ha voluti e nei confronti dell’ennesima presa in giro della loro gente, perché è così che molti cominciano a pensarla. Il finale ve lo vedete al cinema, naturalmente.
Spike Lee dirige alla perfezione il cast traendone una miscela di battute, scene tragiche e volente, riflessioni ottimamente calibrata in ogni minuto del film. Dei personaggi principali veniamo a conoscere tutto e senza alcuna banalità. Molti primi piani, l’ormai immancabile camera a mano per correre dietro alle emozioni del film e non solo all’attore. L’uso di riprese differenti tra loro, addirittura artificializzate col digitale anche se, lo devo confessare, non mi sono accorto di quest’ultima tecnica perché credevo che fosse stata semplicemente usata una videocamera amatoriale. Spike Lee dice basta ai bianche che rappano, alla moda copiata dalle strade dei quartieri neri (nel film c’è un favoloso riferimento ad una nota marca d’abbigliamento), ai neri che dopo essersi integrati nei palazzi del potere e nei ceti notoriamente bianchi ritrovano di colpo una "negritudine" un po’ tardiva e perciò falsa e patinata, ruffiana e opportunista. Si può pensare a "Bamboozled" come ad un film su qualunque minoranza connotata e coesa come quella dei neri, basterebbe girare la testa e pensare ai nordafricani della Francia, agli zingari sparsi per l’Europa o ai cattolici Irlandesi. "Bamboozled" è un film assolutamente da vedere proprio perché ottimo su tutti i livelli che affronta.
Michele Benatti
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Differenti stati d’animo
Visto? Dopo un film del genere, un panino veloce, un film coreano-hollywoodiano, il film di Leconte, un piatto con patate e pesce quando credevo di avere comprato della carne, cosa resta da fare? Infilarsi ad un’altra proiezione, naturalmente.
Sullo sfondo la riproduzione della preziosa tessera stampa.
Fate un po’ voi…
Prestigioso cinefilo filo-francese che scrive in questa stessa rubrica.