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Genius

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Genius

MILANO, 13 giugno 2001, ore 8:00

Per un attimo Naomi ebbe la sensazione di avere le vertigini, come se stesse guardando una voragine nera senza fondo, e la ventiquattrore le cadde a terra. Il rumore sordo la fece riavere: scosse il capo e sembrò riprendere lucidità. Doveva sbrigarsi, o sarebbe arrivata tardi in studio.
Verso le undici prese un’aspirina, ma non servì a lenire il mal di testa. E le doleva la bocca: le bruciavano le mucose, che in qualche punto si erano gonfiate. Avrebbe voluto tornare a casa subito, ma era un avvocato e il prossimo appuntamento era vitale per la risoluzione di un caso al quale stava lavorando da oltre un anno. Doveva resistere almeno un’altra ora e poi avrebbe potuto riaccoccolarsi a letto, sperando che quello strano malessere, probabilmente causato da stress da eccesso di lavoro, la abbandonasse.

MANHATTAN, 29 maggio 2001

Quando il dottor Giovanni Stucky aveva iniziato a lavorare a quel progetto credeva che il suo fosse solamente il sogno di un uomo che aveva sempre avuto un eccesso di fiducia nella scienza. Invece ora si era trasformato in realtà, grazie alla sua determinazione, al caparbio impegno e, soprattutto, grazie all’aiuto dello staff americano che gli aveva messo a disposizione quel laboratorio segreto attrezzato e sicuro.
Da due ore se ne stava lì seduto, immobile, ad ammirare quasi incredulo il frutto di tanto lavoro, la figlia delle sue fatiche: una macchina, ibrido tra microscopio e computer, in grado di leggere l’intero genoma di un uomo a partire da una copia di DNA racchiusa in una singola, microscopica cellula.
Quella strana creatura verde acqua poteva decifrare uno ad uno le migliaia di geni che un uomo possiede semplicemente analizzando un tampone di saliva. L’aveva chiamata Genius: il genio capace di decodificare il software della stirpe umana.
E quel pomeriggio il suo fedele amico si stava concentrando su una sola cellula, una cellula particolare: quella di Naomi Selloni.

MILANO, 13 giugno 2001, ore 11:30

Naomi si sentiva sempre più debole e la testa le girava. Provò la sensazione di trovarsi in un luogo sconosciuto, come se quell’ufficio non le appartenesse, quasi non l’avesse mai visto prima.
"Voglio andare a casa!" disse ad alta voce.
Sonia, la segretaria, e Mario, il suo cliente, la guardarono stupiti. Fece per alzarsi quando all’improvviso ebbe un capogiro. Non riusciva a reggersi in piedi e vacillò.
"Cosa succede?" le chiese Sonia. Si sentì un tonfo: Naomi era scivolata dalla sedia ed era finita per terra.
Mario le si fece vicino. "Sto male" disse la donna cominciando a tremare e sentendo le braccia e le gambe irrigidirsi. "La bocca, mi fa male la bocca".
I denti cominciarono a batterle come in preda ad una febbre eccessiva e del muco di un forte giallo ocra iniziò ad uscirle dai lati delle labbra, sporcandole il mento e impastandole parte del collo.
"Devo vomitare" iniziò ad urlare "Sto per vomitare, portatemi in bagno, vi prego aiutatemi".
Mario e Sonia la alzarono quasi di peso e la trascinarono in bagno. L’uomo restò nel corridoio, mentre le due donne si avvicinarono al lavandino. Naomi pareva agonizzante.
Passarono alcuni minuti, poi si guardò allo specchio. Aprì la bocca e la analizzò attentamente: era interamente cosparsa di vesciche scure, quasi nere, che parevano pulsare come avessero vita propria. Gridò e si accasciò in ginocchio sul pavimento. Da quegli ematomi usciva il muco e ormai lo sentiva correre dal collo lungo il petto, quasi fino all’ombelico. Iniziò a piangere e le lacrime si impastarono al muco, facendola sentire sporca, impotente e terrorizzata.
I muscoli le dolevano sempre più, non riusciva a muoversi. Ora era distesa completamente a terra. Non riusciva quasi a muovere neppure gli occhi e sentiva lo sguardo fisso davanti a sé. Vedeva il pavimento e quel liquido gelatinoso giallo, purulento, mescolato alla saliva e alle lacrime, cominciò a divenire pozza su di esso, accanto al suo viso. Il volto le si corrugò in una serie di contrazioni ritmiche, poi ebbe uno spasmo clonico e rimase lì, col corpo completamente rigido per qualche secondo. Infine si sentì rilassare, ricominciò a tremare, ma perse il controllo della vescica e si ritrovò in una pozza di urina.
Cominciò a scalciare e a dimenare le braccia; Sonia, spaventata, urlò e chiamò Mario, che, entrato nella toilette, tentò di bloccarle le braccia.

MANHATTAN, 29 maggio 2001

Era un piacere guardare quella macchina della quarta generazione. Una serie di piccole luci colorate lampeggiavano intermittenti sul lungo tubo nero all’interno del quale si trovava un microscopio elettronico al laser. Quelle luci segnalavano che la lente stava leggendo i geni codificati come fossero un codice a barre.
Il dottor Stucky sentiva il cuore come danzare al ritmo del rumore cupo che proveniva da quella scatola, dal corpo dell’ordigno. Perché era il rumore del "cervello" di Genius: un biocomputer di settima generazione dalla potenza illimitata: una mente artificiale che imitava alla perfezione le reti neurali del cervello umano.
Una mente viva, perché l’unità di calcolo era in grado di operare mille volte più rapidamente di qualunque suo rivale elettronico più avanzato.
E quella mente virtuale stava ora traducendo il programma genetico di uno degli organismi che lo aveva creato: un essere umano, una donna ignara di quello che il futuro le avrebbe riservato.
La procedura era stata facile. Giovanni aveva invitato a cena Naomi e aveva ricavato un tampone della sua saliva dal bicchiere ove aveva bevuto. Al microscopio aveva poi isolato una cellula corporea, l’aveva sigillata e sistemata nel corpo centrale di Genius, che da quel momento era stato sveglio e concentrato sul proprio compito: leggere l’eredità genetica del campione identificando ogni caratteristica fisica, dal colore degli occhi alla forma del naso, evidenziando ogni punto di forza, dall’intelligenza all’agilità corporea, predicendo ogni malattia, dalla febbre al cancro.
Improvvisamente il borbottio della macchina cambiò, le luci intermittenti si spensero e una spia rossa si accese. Genius aveva terminato il suo compito: aveva tradotto e controllati i 99.966 geni di quel genoma umano. In pochissime ore aveva decodificato la frase di vita corrispondente all’organismo umano conosciuto col nome di Naomi Selloni e nel contempo ne aveva pronunciato la sentenza di morte.

MILANO, 13 giugno 2001, ore 12:15

Il corpo di Naomi continuava ad agitarsi avanti e indietro e i denti a sbattere rumorosamente. La bocca si apriva e si chiudeva, le labbra si muovevano e si corrugavano. Con gli occhi semiaperti, tirava fuori la lingua e poi la ritraeva, ripetutamente.
Poi i denti affondarono nel labbro inferiore, tagliandolo e un rigolo di sangue le corse lungo il mento e il collo, mescolandoli alla bava bianco-giallastra. Si morse il labbro una seconda volta gemendo per il dolore. E poi si morse ancora e ancora, fino a che un pezzo di labbro si staccò penzolando verso il basso. Lei lo tirò dentro la bocca coi denti, lo risucchiò e lo ingoiò. Poi cominciò a masticare. Si mangiava l’interno della bocca e l’interno delle guance. I movimenti dei denti erano veloci ed intensi, avidi, con strappi ripetuti.
Mario cercò di tenerle fermo il mento perché smettesse di mangiarsi, ma lei ricominciò a dimenarsi, poi a contorcersi. La spina dorsale iniziò a curvarsi all’indietro, il corpo si inarcò mentre l’addome saliva sempre più in alto. Alla fine solo nuca e calcagni rimasero poggiati in terra. La donna spalancò gli occhi: erano completamente bianchi perché le pupille si erano rovesciate all’interno della cavità oculare. Un liquido scuro iniziò ad uscirle anche dal naso, fino a farsi emorragia. Il sangue si mescolò sulle mattonelle del bagno all’urina, alla saliva, al muco, mentre all’interno del corpo di Naomi iniziava a bloccarle le vie respiratorie, fino nei polmoni.
D’un tratto l’emorragia si arrestò e la schiena si rilassò; il corpo si fece dapprima duro come un pezzo di legno, poi flaccido privo di nervo. Naomi tossì, sputò catarro, sangue, muco, poi gridò, un grido che pareva provenire dal profondo di se stessa. Infine provò pace, alcun dolore, alcuna sensazione, e non vide più nulla.

Francesca Orlando

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