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Bad Religion – Process Of Belief

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Bad Religion
Process Of Belief
(Epitaph, 2002)

Con il nuovo anno si è finalmente reso disponibile anche dalle nostre parti l’ultimo lavoro dei Bad Religion. Il gruppo americano si presenta significativamente rinnovato, stante la forzata sostituzione dello sfortunato Bobby Schayer (a cui un incidente ha troncato bruscamente la carriera, rendendogli impossibile tornare a suonare la batteria) con Brooks Wackerman ed il piacevole ritorno di "Mr.Brett" Gurewitz, il quale dopo Stranger Than Fiction aveva salutato tutti per dedicarsi anima e corpo alla sua Epitaph. Nell’occasione tutti i fili si riannodano, perché gli stessi BR fanno ritorno all’ovile della casa discografica tra le cui fila avevano vissuto i propri anni ruggenti.
Subito balza all’occhio che i riassestamenti nella formazione hanno reso gli odierni BR uno dei pochissimi (l’unico?) sestetti in ambito hardcore-punk: se però la contemporanea presenza di ben tre chitarre (il già citato Gurewitz va infatti ad affiancare Greg Hetson e Brian Baker) poteva far presagire sperimentazioni melodiche mai tentate prima, il risultato finisce per essere invece di tutt’altro segno. Sono infatti sufficienti i primi secondi della prima traccia, Supersonic, per catapultare l’ascoltatore nel consueto marasma sonoro targato Bad Religion: e da lì in poi il registro non è destinato a cambiare granché.
Parlando in generale, direi che questo Process Of Belief segna un ritorno a quelle atmosfere furenti che ultimamente erano state parzialmente accantonate in virtù di un avvicinamento a sonorità più melodiche e meno rabbiose. Nemmeno qui mancano i passaggi (relativamente) più tranquilli, tra i quali spiccano due impagabili BR-ballads quali Broken ed Epiphany: il clima dominante però è meglio rappresentato dal resto del programma, e cioè dall’hardcore più ruvido e compatto che la band abbia proposto da molto tempo a questa parte.
Va da sé che l’album è pieno zeppo di brani come i BR hanno scritto a decine nel corso della loro carriera: taluni spunti mostrano ormai la corda, o meglio funzionano ancora ma rimandano istantaneamente a troppi momenti passati della discografia del gruppo. E’ inevitabile che puntando alla velocità d’esecuzione e scegliendo di ridurre drasticamente la durata dei brani, questi finiscano per assomigliare l’uno all’altro: non in maniera veramente preoccupante (in quest’ambito musicale si è sentito e si sente ben di peggio), ma senza dubbio evidente. E’ d’altronde anche vero che questi ‘ragazzi’ hanno tanto di quel mestiere da cavare sangue dalle rape: non è da tutti costruire vent’anni di onorata attività su schemi così stretti e progressivamente logori senza mai accusare grossi cali qualitativi.
Tanto di cappello, se vi piace il genere. A me piace. Non più come qualche anno fa (tutti invecchiano, che ci volete fare…), tanto è vero che mi sono trovato un po’ spiazzato durante i primi ascolti di Process Of Belief; ma ancora abbastanza da riconoscere che quando mollano per un attimo l’acceleratore i BR fanno sfracelli, e che anche quando invece pigiano a fondo non saranno il massimo dell’originalità ma viaggiano come pochi altri. Brani come Destined For Nothing o Kyoto Now! vi faranno capire al volo ciò di cui sto parlando…
Se volete un ultimo consiglio, ascoltate più volte l’album prima di giudicarlo. Il primo impatto mi sembra evidenzi più che altro l’aspetto violento ed aggressivo del sound, mentre solo successivamente emerge con maggiore chiarezza il lato più sottilmente melodico. Insomma, i BR non sono ritornati di punto in bianco indietro di vent’anni come se nulla fosse successo: hanno sì indurito la propria proposta, ma non a tal punto da far scappare in lacrime i fans conquistati con Streets Of America
Quando poi avrete familiarizzato con la musica, gettatevi a capofitto sulle lyrics (facendo attenzione nel maneggiare il booklet, che si sfoglia in modo assai particolare, e cercando di non rovinarvi la vista su alcune soluzioni cromatiche e grafiche perlomeno bizzarre). Perché un album dei Bad Religion si compra soprattutto per abbeverarsi alla fonte del pensiero di Greg Graffin, il più convincente alfiere dell’anti-clericalismo che abbia mai calcato le scene. Dimenticatevi il reverendo Manson e il suo satanismo da circo: Graffin dice quello che pensa e pensa quello che dice, particolare che fa di lui di gran lunga il più pungente e raffinato speaker sulla scena. Anche qualora non si concordi con le sue opinioni, ma in tal caso già il nome della band avrebbe dovuto fa suonare un campanello d’allarme, gli si dovrà concedere di essere quantomeno brillante nell’esporle. Mi è parso allora il caso di concludere questa recensione proprio con le sue parole, tratte nell’occasione da Epiphany (ma avrei potuto pescare a caso altrove). Meditate…. e buon ascolto, ovviamente!

What’s right is wrong, what’s come has gone, what’s clear and pure is not so sure
It came to me all promises become a lie, all that’s benign corrupts in time
The fallacy of epiphany


Fabrizio Claudio Marcon

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