KULT Underground

una della più "antiche" e-zine italiane – attiva dal 1994

Benaresyama 17/18

19 min read

Benaresyama
—————————————————————————————————
Capitolo XVII

" Mostro!" apostrofò la donna Gilgamesh ,mentre le guardie non poterono fare a meno di abbassare lo sguardo disgustati dalle orribili sembianze dell’essere che teneva nelle sue mani il fedele compagno del loro sovrano, " Lascia subito andare la tua preda e vattene a riferire ai tuoi padroni di non osare più interferire con la mia vita: bada di non giocare troppo con la mia pazienza , o la nera signora che domina l’oltre tomba si curerà del tuo destino da qui a poco."
Il corpo della donna appariva tormentato da un continuo movimento sottocutaneo : muscoli guizzavano per poi riassorbirsi , deformità indicibili si gonfiavano fin quasi ad esplodere per poi quietarsi come le maree dopo essersi abbattute sulle calde sabbie della costa, e, ben osservando, erano visibili grotteschi volti che si generavano su tutta la sua superficie corporea morendo di lì a poco come il motto sulla bocca di colui che ha perso l’uso della parola e che tuttavia cerca in vano di dar nuova vita al fiato uscente dai polmoni; non mollando Enkidu , i cui movimenti iniziavano a farsi di momento in momento più flebili a causa della forte stretta che gli serrava impietosamente il collo e che gli impediva una corretta respirazione , rispose con arroganza alle parole dell’eroe , affermando che la vita dell’uomo bestia sarebbe quella sera stessa giunta al termine.
Al primo , duro attacco da parte di Gilgamesh nei confronti della donna, essa si ritrasse con un’espressione di sorpresa ira e gioia, ma non mollò la presa, anzi, chiuse in maniera ancora più terribile la stretta; subito dopo apparve come scossa da una serie di spasmi devastanti , che le sfigurarono il viso in maniera irriconoscibile : il braccio che non reggeva l’uomo bestia , come dotato di vita propria , come il figlio che lotta per venire dal mondo durante un parto travagliato, prese a muoversi scompostamente, mentre la donna emetteva guaiti e lacrime di sangue le bruciavano il volto sfigurato; approfittando della situazione, Enkidu assestò un poderoso colpo al plesso solare del mostro, che ridendo tra le lacrime e ringhiando : " E’ inutile, inutile ! ", a dispetto dell’evidente rumore di ossa che si frantumavano brutalmente, lasciò andare il prigioniero, che seppur congestionato e visibilmente provato, si pose al fianco dell’amico per cercare di aiutarlo nella battaglia.
Un ultimo grido gelò il sangue di tutte le guardie che superando i loro miseri limiti umani di coraggio erano rimasti ad assistere alla scena, consapevoli della loro impotenza , ma ugualmente fedeli e desiderosi di aiutare il loro amato sovrano: il terrore sciolse loro le ginocchia, e quasi senza accorgersene si trovarono in ginocchio con le mani rivolte al cielo , con copiose lacrime che scendevano dai loro occhi e invocando con preghiere il nome del loro Dio: anni dopo, anche i più valorosi tra loro avrebbero raccontato, tenendo sulle ginocchia i cari nipoti , che ricordavano come quel mostro fosse riuscito a torcere la loro anima e che non fosse stato possibile mantenere il contegno adatto in una simile situazione, avvertendo ancora un leggero brivido che scorreva lungo la schiena: forse i nipoti li avrebbero scherzosamente canzonati, ma ognuno dei sopravvissuti di quella terribile circostanza avrebbe ringraziato ogni giorno gli dei per avergli permesso di poter essere preso in giro dai essi e per non averlo fatto morire per mano di quel demone.
Dopo il grido, il braccio si staccò di netto dalla spalla della donna, lasciando una ferita aperta e grondante un’immensa quantità di sangue: tuttavia, essa apparve quasi tranquillizzata, come colui che inizia ad avvertire i portentosi effetti di una medicina dopo essere stato preda dei morsi più violenti del dolore: sebbene ampi fiotti di sangue e sudore scorressero senza fine sul suo volto, tutte le bestiali rughe di dolore che si erano come congestionate sul suo volto iniziarono a sciogliersi lentamente per appianarsi definitivamente pochi minuti dopo, mentre anche il suo respiro appariva acquietarsi: quello che iniziava ad avere dell’inquietante era il braccio caduto a terra, che continuava a infuriare come animato da un demone primordiale; dopo pochi istanti anch’esso iniziò ad essere scosso dalle medesime deformità che avevano precedentemente afflitto la donna, e in breve tempo iniziò ad ingigantirsi , assumendo sembianze zoomorfe : appariva infatti come un mostruoso incrocio tra uno di quei rettili enormi che abitano le zone nutrite dalle acque del dolce Nilo e tra chissà quali altri varietà di meraviglie che dominano i sogni dell’umanità.
I due eroi iniziarono prontamente a difendersi, in quanto la creatura dimostrò da subito le sue malevole intenzioni : per prima cosa cercò di caricare Enkidu, che appariva ancora debilitato dall’attacco precedente: l’uomo fiera riuscì ad evitare l’attacco diretto con grande prontezza, facendo schiantare la creatura contro il muro che gli dava le spalle, sulla cui superficie si animò come sdegnata un’onda di crepe che franò rovinosamente sul mostro stesso; quest’ultimo , lungi dall’essere sconfitto anche ad onta delle decine di chilogrammi che lo avevano violentemente investito , si issò con tutta la sua violenza sugli arti posteriori, e spalancando quelle che avrebbero potuto essere una sorta di muscolose e tozze braccia , scostò i calcinacci e i pezzi di muratura che lo seppellivano, mentre un fiume di polvere scivolava a terra o si incastrava nelle ora opache squame della creatura. Riprese con foga e ira l’attacco, ora minacciando le guardie che terrorizzate cercavano scampo nella fuga: fortunatamente per queste ultime, Gilgamesh si frappose tra loro e la creatura, sferrandole un terribile colpo, scagliandola contro una possente colonna; l’entità del danno fu comunque irrisoria, e per l’ennesima volta si gettò contro colui che per ultimo gli aveva recato danno, riuscendo a colpirlo a sua volta dopo una lunga serie di colpi di scambio. Enkidu , allora, si scagliò alle spalle del mostro e lo afferrò da sotto le braccia , incrociando le mani dietro la sua nuca e così immobilizzandolo: Gilgamesh , ripresosi dal duro colpo, prese a infierire duramente sulla creatura che guaiva terribilmente nella tempesta di dolore in cui l’aveva gettato il sovrano di Uruk.
Ma mentre era prossimo a concludere la sua opera , una sorda risata lo distolse: la donna , che si era tenuta in disparte per tutta la durata del combattimento , pareva come impazzita, mentre il suo corpo aveva iniziato una nuova metamorfosi. Come quando il cacciatore risponde ad ancestrali meccanismi insiti nella sua mente e vince la nobile battaglia contro la sua preda, così il corpo del mostro generato dalla donna apparve rispondere agli improvvisi cambiamenti della sua generatrice attraverso simili mutazioni che ne sconvolgevano il già orribile aspetto. Nei pochi secondi in cui tutto ciò avvenne, Gilgamesh vide come il colorito dell’amico iniziò a mutare, e , come sotto l’effetto di quei fiori di cui si cibano i mistici per entrare nei meandri della conoscenza , le sue membra si fecero liquide e la stretta si sciolse fino a cadere a terra insieme al mostro , che a poco a poco iniziò a liquefarsi.
Accorrendo in soccorso dell’amico e vedendo che i molti tentativi di rianimazione risultavano inutili, si diresse verso il corpo della donna , anch’esso in procinto di iniziare il suo processo di auto-distruzione: afferrandola saldamente per la veste, che manteneva ancora la sua originale consistenza , la interrogò : " Donna, quale maledizione scagliasti contro Enkidu? Dimmelo!"
Sorridendo , la donna rispose : " Fui mandata in questo luogo per uccidere Enkidu , e la mia missione è stata completata: se avessi prestato più attenzione,stolto, avresti notato come la potenza della mia progenie calava di momento in momento: si , vedo che ora capisci da come la tua espressione, da arrogante, si è trasformata in angosciata! La creatura da me partorita era una sciocca trappola per voi stolti, un inganno per tenervi occupati mentre il veleno che avevo iniettato precedentemente al tuo compagno avesse il tempo di unirsi ad egli senza l’interferenza delle miracolose pozioni curatrici che i medici di Uruk si vantando di creare. Non temere, si risveglierà presto: a te spetterà il compito di dirgli che la Morte lo attende al decimo giorno da oggi."
Gilgamesh, sconvolto, la riprese : " Dammi un antidoto, e…"
" E cosa?" Lo interruppe la donna , " E mi salverai la vita? Io sto già morendo, e non sarà certo la tua volontà a salvarmi; inoltre, ho accettato questa missione suicida sapendo cosa mi attendeva, e non ho alcun rimpianto. Oppure renderai la mia agonia più celere? L’avere adempito alla mia missione è un conforto così grande da farmi superare ogni dolore, in quanto so che dopo la morte la ricompensa mi attenderà nei reami dell’oltre tomba. E’ inutile pregare, pretendere o minacciare, il destino del tuo compagno è segnato : e comunque non poteri darti l’antidoto anche se volessi, in quanto non esiste. Rassegnati alla sua morte."
" Maledetta! " urlò , squarciandogli con un colpo di taglio la testa, che si divise in due: tuttavia, mentre la testa si liquefaceva , l’espressione della donna, sebbene il volto fosse stato devastato dall’ira di Gilgamesh , appariva tranquilla e irridente: pochi secondi dopo, la donna svanì in una pozza di sangue e neri liquidi fisiologici.
Allora l’eroe sollevò l’amico , e con dolcezza si diresse verso le sue stanze per permettergli un riposo più agevole: solo poco prima di uscire dalla stanza fece un distratto segno alle guardie impietrite affinché si ritirassero; raccogliendo le ultime forze che gli rimanevano, quelle poche guardie che avevano osato presenziare al combattimento e che avevano resistito fino ad allora , seguirono il loro dominatore come un corteo di morte per recare i giusti tributi di onore verso il valoroso guerriero che appariva in gravi condizioni.
Passarono le ore, e mentre Enkidu continuava a giacere in uno stato di incoscienza che aveva del sovrannaturale, Gilgamesh fece tutto quello che era in suo potere per cercare di riuscire a salvare l’amico: stregoni, medici e astrologi si avvicendarono al capezzale dell’uomo bestia con tutte le loro più incredibili tecniche apprese in viaggi nelle lontane terre d’oriente, sperimentando i rimedi più disparati; se ne andarono tutti con un’espressione sconsolata , l’espressione del fallimento.
Dopo una giornata in quello stato, finalmente l’uomo fiera si svegliò: appariva sano e pieno di vigore, sebbene l’ombra della morte incombesse su di lui, e mentre gli sguardi pieni di tristezza di tutti i suoi servitori lo passavano da parte a parte come un vento gelido, l’amico , venuto a sapere della sua ripresa, si diresse con passo incerto nella stanza , con un nodo che saliva violentemente in gola e la consapevolezza che non sarebbero bastate le parole per esprimere una condanna tanto insensata e la sua costernazione , riuscendo tuttavia ad infondere un coraggio per il futuro che anche allo stesso Gilgamesh sembrava stesse scemando di passo in passo senza soluzione di continuità. Finalmente arrivò nella stanza: Enkidu gli dava le spalle , appoggiando le mani al davanzale di una finestra che si chiudeva in un arco, mentre alcuni raggi di sole gli passavano sulla pelle mettendo in evidenza lo splendore del suo corpo: a quella vista, Gilgamesh non poté riuscire a trattenere una calda lacrima , che gli rigò senza pietà il volto. Facendo attenzione a non farsi scorgere, si ripulì e raccolse tutto il coraggio che gli rimaneva: pose una mano sulla spalla del suo amico, che vedendolo in quelle condizioni gli rivolse uno sguardo interrogativo;infine, parlò.
Disse la verità, nient’altro.
Enkidu si voltò, lasciando vedere come un fremito gli trapassasse il corpo; quando l’amico gli pose nuovamente la mano sulla spalla, egli la scostò brutalmente , ringhiandogli di andarsene. Allontanandosi, Gilgamesh vide polvere e calcinacci cadere dal soffitto, e sordi colpi che si diramavano come terribili onde di dolore su tutte le pareti: pensò tristemente come sembrasse che anche il palazzo stesse piangendo per la sorte del suo caro compagno.
Sprofondato su una rudimentale sedia , il viso gettato tra le mani, Enkidu era devastato da una serie di emozioni che non osava più nemmeno controllare: la sua mente era prima scossa da mille pensieri per poi ritrovarsi improvvisamente vuota e di nuovo sconvolta da una girandola di sentimenti sempre e sempre più devastanti: per prima cosa gli tornò in mente quando giaceva imprigionato e segregato da quei folli che l’avevano reso un uomo bestia, devastato da una solitudine che sembrava non avere mai fine: nuovamente giaceva prigioniero di un destino che non si era scelto. Poi fu il turno del viso della donna che lo aveva civilizzato a presentarglisi nella mente, e nuovamente odiò, ma di un odio mai provato prima: la donna era stata colei che lo aveva giostrato a suo piacere, e se non fosse stata inviata a domarlo, lui sarebbe stato ancora libero nelle zone circostanti alla città…si , libertà! Mai come ora avvertiva che l’unica cosa che avesse fatto di propria volontà fosse stata scappare da quella città: tutto il resto era stata una brillante manovra di così tanti burattinai nel tempo si erano avvicendati nel muovere i pezzi in un grottesco e doloroso gioco a cui lui non aveva mai chiesto di prendere parte e di cui ora pagava sulla propria pelle un prezzo così amaro.
Continuando a spostare il bersaglio del suo rancore contro ogni persona con cui avesse interagito anche solo per un attimo nella sua vita, giunse infine anche il turno di Gilgamesh: se quell’ottuso "eroe" non avesse voluto adirare gli dei , se non fosse stato così arrogante nel prendere quello che non gli spettava, se…se…se l’avesse ucciso quando ne aveva avuto la possibilità, invece di farsi incantare da stolte promesse e patti infantili, forse ora non avrebbe dovuto morire di una così lucida e terribile agonia: avrebbe fatto bene ad ucciderlo e poi scappare nuovamente; se solo avesse rivendicato prima il suo destino…

—————————————————————————————————

Capitolo XVIII

Come i rapsodi antichi affermavano, la Disperazione è una amante tiranna: prima seduce l’uomo con abili arti crogiolandolo nell’auto compatimento , poi , improvvisamente, lo istiga a devastare tutti i sacri vincoli che lo legano a qualsiasi persona cara, in una stolta corsa verso una distruzione che appare , ad ogni nuovo passo, una catarsi senza pari: Enkidu era rimasto nelle sue stanze per un giorno intero dalla sua condanna, e ancora si faceva cullare da inutili pensieri di vendetta, contro un nemico che cambiava aspetto e forma ad ogni battere di ciglia; sentiva scorrere il tempo sulla sua pelle in modo raccapricciante , poteva contare ogni singolo istante che lo separava dalla morte e probabilmente sarebbe ben presto impazzito : forse l’unica soluzione sensata era proprio la pazzia, come estremo strumento per riuscire a bloccare le migliaia di pensieri che continuavano ad accavallarsi nella sua mente senza sosta.
Serrando con violenza tra le mani la testa, quasi al punto di farla sanguinare, iniziò a parlare in maniera sommessa e convulsa , come in un inutile e grottesco soliloquio introdotto con invadenza da una comparsa con troppa iniziativa : sillabe, parole sconnesse uscivano dalla bocca, per perdersi in un fiume di suoni che a poco a poco perdevano qualsiasi significato potessero avere. Avvertiva una nausea indicibile, che era ancora più acuita dalla sensazione che derivasse da una angoscia che non provava da tempo, più che dai terribili veleni che si mescolavano di momento in momento col suo sangue: ogni gesto era moltiplicato in una nervosa frenesia fino all’inverosimile , le dita battevano sulla fronte ad una velocità incredibile, gli occhi non conoscevano posa nel loro passare da un oggetto all’altro, la bocca non conosceva sosta nella sua orribile litania: stava provando il Panico supremo, quel panico con cui ogni uomo comune doveva imparare a convivere fin dalla nascita in quelle regioni e col tempo riuscire a domare per non riuscire ad impazzire; Enkidu, durante la sua breve vita, non aveva mai provato il panico, quella sensazione di perdita totale di qualsiasi punto di riferimento così opprimente da fare battere i denti per la paura al più glorioso combattente mentre si rigira tra le sue coltri : certo, la sua saggezza nasceva dal timore e dalla paura di determinate situazioni che in svariate occasioni aveva sperimentato , ma non si poteva affatto dire che fosse preparato ad un’esplosione di emozioni di quel genere: lui , uno dei più grandi tra i supremi eroi, non conosceva il Panico, ed ora quest’ultimo si gli presentava un amarissimo conto.
Poi ci fu un momento, uno solo di pura lucidità: preso dall’ira più inconsulta, sferrò un colpo con tutta la sua forza in direzione del massiccio muro: il rimbombo del colpo sconvolse tutte le sale del palazzo, mentre Enkidu rimaneva con la mano ancora conficcata nella profonda ferita che aveva aperto nel muro, sanguinante e rovinata dall’impatto.
Il dolore arrivò ronzante al cervello , come un pensiero che si cerca per lungo tempo di scacciare e che comunque si ripresenta nuovamente; tuttavia, l’uomo fiera decise di seguirlo: in fin dei conti , non era forse il dolore a rappresentare il suo unico appiglio alla realtà? Si aggrappò ad esso con tutta la forza che aveva, lo seguì per tutto il suo corpo , lo invocò ,lo perse e nuovamente lo ritrovò: era proprio la mano, ciò che doleva in maniera così agghiacciante: lucidità, dolore e volontà si mischiarono per un momento, un solo momento : fu allora che, come risvegliandosi da un lungo sonno, tornò alla vita: si afferrò a livello del polso la mano rovinata, urlando per l’immenso dolore e al contempo piangendo per la gioia di essersi ritrovato: il suo volto appariva ora come quello di una feroce belva ferita, ma che sta lentamente per tornare all’attacco. Con le ginocchia che lo tenevano a malapena in piedi , la mano sgocciolante sangue a terra , iniziò ad inspirare aria nei polmoni in maniera da riguadagnare tutte le energie che aveva a disposizione; ricadendo nuovamente sulla sedia, iniziò ad avvertire i colpi che venivano dati alla porta, e mano a mano quello che fino a pochi minuti prima gli era apparso come un ronzio insistente che faceva da sottofondo all’immenso fiume dei suoi pensieri si trasformò nella voce del suo sovrano che gridava di aprirgli con una voce che esprimeva una angoscia indicibile.
Poco mancò che fosse nuovamente inghiottito dai suoi pensieri, ma finalmente si alzò e a lenti passi si diresse alle pesanti porte. Aprì , ma subito si voltò , non riuscendo a sostenere lo sguardo preoccupato del suo sovrano; al contempo, nemmeno Gilgamesh sarebbe riuscito a guardarlo negli occhi: quando era entrato , si era subito accorto del terribile aspetto dell’amico, con una mano ferita, gli occhi ancora allucinati e la capigliatura che lo faceva ancora assomigliare ad un animale feroce. Non sapendo cosa dire, e intuendo che il colpo che si era sentito era quello che aveva provocato la brutta ferita all’amico , si avvicinò ad una sedia con un’espressione che ne faceva comprendere lo stato d’animo, e dopo esservisi seduto, vi rimase in silenzio per alcuni momenti. Enkidu si diresse alla finestra , osservando il paesaggio pensieroso: nella sua mente alla soglia della lucidità mille voci diverse pregavano per farsi ascoltare e suggerivano cosa fare con solerzia: c’era chi urlava : " uccidilo, uccidilo!" con rabbia furente e un timbro quasi ferino, c’era chi invece consigliava di ascoltarlo , c’erano migliaia di possibilità che con violenza spingevano per farsi preferire in qualche maniera: decise comunque di ascoltare se avesse avuto qualcosa da dire e con tono ironico , una voce urlò : " E poi uccidilo! Uccidilo! " , ma ,infine ,cercò di mettere a tacere questo genere di pensieri.
Finalmente parlò con voce costernata: " Amico mio, mi dispiace. So che quello che ti succederà è esclusivamente colpa mia e mi piange il cuore… so anche che queste mie parole ti appariranno estremamente artificiose e fasulle , ma è la verità, e non penso che ci possa essere altro da dire…"
Enkidu strinse i denti e serrò gli occhi, cercando di riafferrare tutto il coraggio che possedeva da sempre e che in quel momento sembrava scivolare via dal suo spirito: comprendeva i sentimenti del suo sovrano , e probabilmente aveva parlato nella maniera più indicata per una situazione del genere; tuttavia , il pensiero di stare per morire per causa sua gli si continuava ad affacciare alla mente , con insistenza sempre più violenta.
Non voltandosi , gli rispose : " Dovrei ucciderti…ma non penso che sia la soluzione giusta; del resto una morte in più non mi permetterà certo di vivere più a lungo. Quello che tu non sei mai riuscito a capire è il fatto che un giorno morirai, come io sto morendo adesso: tuttavia , io so che devo morire, e per questo tutte le migliaia di imprese, di opere, di sensazioni che avrei dovuto e voluto sperimentare nella mia vita non vedranno mai compimento e paiono allontanarsi sempre di più da me…no, non dire che tu porterai avanti qualsiasi impresa per me: non avrebbe senso, se non per lenire il tuo dolore. No, Gilgamesh, tutte le cose non fatte, gli interessi non coltivati , le scienze ignorate non possono essere certo riprese da qualcun altro: se così fosse, l’uomo invocherebbe la Morte come una dolce amica, affidando il suo fardello di fatiche con serenità ad un competente schiavo, soddisfatto per avere rinunciato ad una vita di fatiche , per avere raggiunto finalmente la pace e per essersi comunque accaparrato un grande bagaglio di vita non avendo mosso muscolo . Il peso che mi porterò dietro nella morte è ciò che giace e sempre giacerà incompiuto…Cosa resterà di me nei secoli a venire, se non uno sfocato nome sulla bocca di pochi? Cosa , di tanto imponente ho realizzato , da permettere al mio ricordo di sopravvivermi? Nulla, amico mio, nulla…Felice è l’uomo di cui, per avere costellato la sua vita di opere e virtù, il ricordo sopravviverà alla morte per sempre; felice poi l’uomo che nella sua vita abbia raggiunto così tanto da non urlare , al richiamo della nera Morte, : " Ancora un momento , nera Signora, ancora un solo istante per me!" , ma soddisfatto di quanto ha fatto la saluti benevolo. A me, nulla di tutto ciò spetta… Dovrei ucciderti, ma dentro di me credo ancora che non sia stata solo una tua colpa : tu non sei malvagio, Gilgamesh, sei solo terribilmente sconsiderato e arrogante. La rabbia è una astuta ammaliatrice! No, sovrano, non posso nemmeno incolparti di avermi costretto a seguirti, di aver tirato i fili a te come il burattinaio per meravigliare i giovani durante i suoi pellegrinaggi da città in città: colui che da sempre a tirato i fili della mia vita è stato il mio animo superficiale e ottuso…Più e più volte ho avuto la possibilità di scegliere per il meglio, per la sicurezza della mia vita, e non l’ho fatto: anche stare al tuo fianco è stata una mia scelta, nulla di più , nulla di meno, e per questo, per quel poco di orgoglio e di dignità che possono rimanere ad un morente, ho deciso di combattere e placare la mia ira nei tuoi confronti…"
Il lungo monologo dell’uomo fiera colpì duramente Gilgamesh, che spalancando gli occhi, sentiva il suo capo muoversi sconnesso, colpito impietosamente dalle continue scariche nervose che lo facevano tremare, nonostante il soffocante calore che giungeva da fuori . Dopo una lunga pausa in silenzio, con una tristezza che gli deformava la voce , egli rispose : " Amico mio, troppa verità c’è nelle tue parole, e forse è proprio per questo che fanno così male , e come terribili lame perforano la mia anima; tuttavia, sentire le tue tanto magnanime, quanto immeritate disposizioni nei miei confronti è ancora più straziante per me, in quanto ad ogni istante che passa , avverto quanto grave sarà per me la perdita. Una sola volta, durante la mia lunga vita, mi sono trovato davanti alla Morte in termini così brutali: forse è anche per colpa della mia disattenzione per la nera Signora che , trovandomi ora davanti ad essa, mi sento così svuotato. Però c’è una cosa su cui tu ti inganni: non finirò mai di dolermi per la tua morte, in quanto la mia maledizione è quella di essere costretto a vedere il sorgere del giorno fino a quando esso non morirà. Io non conoscerò mai fine, e per sempre dovrò dolermi della mia mediocrità e dell’incapacità di riuscire a compire anche solo minima parte dei progetti che tu avresti realizzato in una sola vita: e con te, il mio cuore si spezza al solo pensiero di averti privato di questa possibilità."
Altri attimi di silenzio caddero come macigni da un dirupo. Enkidu non sapeva a cosa credere, ma esaminando la situazione, capì che non aveva tempo da perdere in dubbi di scarsa rilevanza: che il suo sovrano gli mentisse o meno , probabilmente, non aveva più una grande importanza, almeno in una simile situazione. Finalmente si riuscirono a guardare negli occhi, e , seppur con freddezza, iniziarono i preparativi per la morte dell’uomo fiera. Per giorni fu incredibile la freddezza e la rassegnazione del suo contegno : gli ordini venivano impartiti ad ignari artigiani , che , instancabili, lavorarono con solerzia per i giorni che li separavano da tempi di scadenza così ristretti: in effetti, colui che appariva più provato era Gilgamesh, che osservava l’amico con occhi perennemente ornati di tristezza.
Alla sera dell’ottavo giorno , gli architetti finirono il lavoro: quella che era stata una cripta per i cadaveri di tutti gli altri sovrani, venne arricchita di una sala in più , finemente decorata soprattutto in relazione al poco tempo di realizzazione. L’intera cittadinanza fu riunita davanti alla cripta: lì , l’annuncio della morte fu dato; come è noto, la folla può essere un animale dotato della ferocia più devastante, oppure garante delle disposizioni più insopportabili e inumane: tuttavia, in questa situazione svelò la sua parte più nascosta: un unico , commosso lamento si levò al cielo, mentre molte persone, sconvolte da un pianto e da un dolore senza limiti si buttarono a terra , non riuscendo quasi ad osservare il loro venerato eroe e tuttavia cercando di scorgerlo ancora un momento in più , per imprimere nella memoria un ricordo ancora più infuocato di colui che era stato tanto amato. Il pianto sciolse le ginocchia anche a Gilgamesh, che giaceva a terra in preda a singhiozzi che lo facevano assomigliare ad un fanciullo mal disposto. Enkidu, sopprimendo ogni esitazione che per l’emozione causatagli dalla folla aveva iniziato a farsi strada in lui, andò a sostenere il proprio sovrano con un gesto così tenero da fare sprofondare in una tristezza ancora più cupa tutte le persone presenti. Dopo che Gilgamesh ebbe riacquistato quel minimo del portamento che a lui si confaceva, Enkidu si voltò dirigendosi verso l’imboccatura della cripta : una leggera brezza si levò, e una sottile coltre di sabbia dorata sfumò vagamente i contorni della silhouette dell’uomo fiera, mentre il Sole al tramonto gli dipingeva il corpo di una struggente tonalità cremisi: tanta fu la bellezza di quella scena, che molti pregarono di svegliarsi da quello che da incubo si era trasformato in dolce sogno.
Non fu così: per una giornata intera , la popolazione vegliò davanti al sepolcro , pregando per il miracolo, fino a quando le nubi rosate del decimo giorno si levarono in cielo: Gilgamesh , con un’espressione che ne lasciava trasparire tutta la preoccupazione , entrò nel sepolcro ed entrò nella cripta riservata all’amico: Enkidu giaceva seduto su un trono marmoreo, le mani appoggiate sulle ginocchia , solo la testa piegata leggermente verso il basso che ne tradiva la mancanza di vita. Straziato, Gilgamesh lo abbracciò: mentre calde lacrime passavano lentamente dalle gote dell’eroe sul corpo dell’amico , mentre i singhiozzi rimbombavano tra le scure mure della cripta giungendo alla disperata popolazione come presagio di morte, egli sentì che dentro di sé qualcosa si sbloccava: tutto il potere che ancora giaceva inutilizzato dentro di lui e che per qualche ragione era rimasto per decenni bloccato scivolò totalmente dentro di lui, non in maniera eclatante ed esplosiva come da sempre aveva sospettato , ma in maniera così dolce da fargli intuire che la fredda macchina che era il suo corpo cercasse in qualche maniera di consolarlo, infondendogli quel calore che stava fluendo in tutto il suo essere.

Federico Mori

Commenta

Nel caso ti siano sfuggiti