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Benaresyama

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CAPITOLO XIII

Un tepore benevolo lo aveva cullato fino dall’inizio del viaggio, e ora si trovava disteso in una atmosfera liquida e dolce, come un bambino ancora nel grembo materno. Lentamente, tra le braccia di Morfeo, si formò davanti ai suoi occhi l’immagine di un possente giovane uomo che camminava con aria sperduta nelle vie di una antica città; lo riconobbe, e per un attimo una dolce e triste sensazione gli strinse il cuore: egli a quel tempo non era ancora nato, ma ricordava, forse per i racconti , forse per una qualche sorta di incantesimo, tutto quello che era necessario sapere su quell’uomo. Si ritrovava ad Uruk, città stato splendente dell’antica Mesopotamia, figlia amata della dea Inanna, ben prima di quei tanti spiragli di crisi portati da quei cani esterni, che minacciarono una società priva di ricambio etnico.
Il viandante appariva brillante di una luce propria , mentre girovagava tra la folla, osservando con occhio stanco i banchi dei venditori che cercavano con i loro schiamazzi di aumentare i poveri proventi della giornata; era certamente estenuato da un lungo viaggio, e, dopo un parco pasto ristoratore, si diresse nuovamente fuori città dove si era accampato.
Il palazzo regale, o meglio, il tempio, faceva bella mostra di sé nella piazza centrale della città: ad Uruk, infatti, in quanto luogo dedicato ad una dea, la figura regale e quella di massimo sacerdote combaciavano , a differenza di altre città come Eridu o Ur, dedicate a divinità maschili e in cui i due poteri erano affidati rispettivamente ad un uomo e ad una donna.
In quei giorni un grande trambusto disturbava la vita degli abitanti: nuovi contrasti interni segnavano la famiglia regale, e minacce di altre città stato facevano intravedere come possibilità più desiderabile un destino di schiavitù; tuttavia, il viandante osservava da lontano la situazione, e , facendo i suoi calcoli attendeva pazientemente; in definitiva sapeva di poter risolvere con una semplicità disarmante entrambi i problemi che minacciavano la situazione politica della città, e i vantaggi che potevano essere conseguiti dalla situazione erano pressoché immensi. La guerra, lo spionaggio e la cospirazioni erano arti che necessitavano di arguzia, forza e tempo, e lui possedeva tutte queste doti in dosi che non erano concesse agli uomini di utilizzare, e in breve tempo era arrivato al punto di rottura che tanto aveva agognato: oh, era stato semplice: una frase sussurrata nell’orecchio di un consigliere regale della vicina città di Ur, qualche parola forse di troppo nelle strade di Shuruppak , e prima che la minaccia di una faida fratricida all’interno della famiglia regale assumesse proporzioni concrete, tutti i maschi appartenenti ad essa si ritrovarono su un campo di battaglia a cercare di difendere la propria città dalla morsa dei nemici. La guerra durò alcuni mesi, ma non era ancora giunto il momento di intervenire: bisognava prima far toccare il fondo alla città, far credere che gli dei avessero voltato le spalle, per poi fare entrare in scena il salvatore. Dopo aver assaporato i frutti marci della sconfitta, il volgo si sarebbe cibato con ancora più voluttà delle messi della vittoria. Così fu: la battaglia infuriava, la terra pasceva violenta una libagione di sangue infinita, il sovrano e i suoi stessi eredi, dimentichi di qualsiasi dissapore passato, combattevano sul campo una battaglia che volgeva al peggio, quando all’orizzonte, come splendido miracolo apparve il salvatore. Lance che recavano le insegne delle città nemiche vennero scagliate da una distanza incredibile, e con una violenza tale che , schiantandosi contro i corpi del sovrano e degli eredi, gli scalzarono da cavallo , facendo cadere miseramente le loro spoglie sul pravo terreno. L’esercito intero piombò per un momento nel panico più terribile, ignorando l’uomo che a poco a poco avanzava verso gli eserciti avversari, strappando dai cadaveri armi per combattere: egli arrivò finalmente alla prima fila nemica, provocando una serie di schiamazzi e di irridenti imprecazioni da parte della massa armata, ma bastò un gesto , un gesto solamente per capire che era finito il momento della vittoria: una fila intera venne decapitata , e al suo lento incedere , la gente iniziava a scappare terrorizzata : le lance si infrangevano sul suo petto come teneri ramoscelli , gli scudi che si opponevano ai suoi colpi erano spazzati via col braccio che li reggeva, la terra si preparava ad un ulteriore pasto.
L’esercito di Uruk, che pochi minuti prima era stato divorato dalla sensazione della sconfitta, iniziò ad arrestare la sua ingloriosa ritirata , ad osservare stupita quell’eroe che da solo aveva preso le difese della città, ad acclamarlo come il figlio prediletto di Inanna e ad invocarlo come salvatore. Ormai gli eserciti nemici erano ridotti all’impotenza, e un’improvvisa vampata di ardore e di orgoglio esaltò lo spirito guerriero del esercito urukita , che andò in aiuto al suo eroe: solo allora i sovrani delle altre città intuirono la gravità della situazione, ma era ormai troppo tardi: per consolidare il potere di una persona era necessario un atto di immensità enorme, e in un lasso di pochissimi secondi, le teste dei due sovrani giacevano nel campo di battaglia, col viso segnato, anche nella morte, da un tragico stupore.
Il viandante afferrò il cavallo più bello che era appartenuto ai sovrani, con la lancia infilzò le loro teste e quelle dei deceduti sovrani di Uruk, e si recò finalmente davanti all’esercito che lo guardava estasiato: lì , ostentando i terribili trofei spingendo la lama alta verso il cielo, urlò , facendo voltare di lato il suo destriero : " Siete con me, il figlio prediletto di Inanna, colui che ha difeso la città dai nemici che si annidavano come vipere tra di voi e intorno a voi? Siete con me, il sommo Gilgamesh?".
Dopo un attimo di silenzio, un boato di approvazione fece vibrare il campo di battaglia, e l’esercito si aprì in due per far passare il suo nuovo re, che venne portato in trionfo alla sua reggia.
Nacque in breve tempo il mito di Gilgamesh : tramite grandiose imprese portò ricchezza alla città, rivelò arcani segreti ai sacerdoti di rango più alto, distillo conoscenza a tutti coloro che si dimostrassero degni di riceverla. Egli diventò l’eroe scopritore di ogni segreto , sue erano le possenti mura di Uruk, sua l’eterna giovinezza. Tuttavia, colui che all’inizio del suo regno si era dimostrato fonte della più grande felicità e ricchezza per i suoi sottoposti, col tempo si fece lentamente corrompere dal potere: arrogante oltre ogni limite, tronfio a causa delle sue immense capacità e del suo potere, iniziò a sentirsi divorato da una sensazione che non sembrava avere fine: la noia. Quel regno che aveva in precedenza tanto bramato, per cui aveva lottato e ucciso, gli appariva ora come uno sterile giocattolo da cui non riusciva più a trarre divertimento alcuno; i nemici, che per lunghi anni dopo la sua incoronazione aveva combattuto e sterminato, giacevano silenti ai suoi piedi, incapaci di organizzare una seria offensiva che almeno gli permettesse di impiegare una minima parte di quell’infinito tempo che aveva a disposizione.
Quasi inconsciamente prese la decisione di sfogare i suoi istinti sui sudditi che lo avevano amato e rispettato per la sua saggezza durante tutto il suo regno. Le prevaricazioni regie serpeggiarono silenti nella città, da prima quasi impercettibili, ma tranciando l’aria come un effluvio di cui non si riesce a capire la provenienza e la fragranza; poi, come la furiosa piena dei sacri fiumi che in quelle regioni scorrono , si abbatterono violente sulla popolazione, sconvolta da cambiamenti così terribili ed inaspettati. Fu allora che i saggi della città si ritrovarono, e ,sotto la guida di uno straniero proveniente da lontano , forse dall’Egitto, presero un infante, e su esso sperimentarono una quantità pressoché infinita di elisir, composti e medicazioni in modo da creare un essere in grado di contrastare gli immensi poteri del tiranno: gli esperimenti durarono a lungo, vuoi perché il sovrano avrebbe potuto scoprire da un momento all’altro il complotto che andava ad attentare alla sua vita, vuoi per i terribili esiti che stava avendo sul fanciullo: il dormiente si ricordava di un calore immenso che si sprigionava dentro di sé quando lo costringevano ad ingerire quei miscugli terribili, lasciandolo incatenato ad una parete per impedirgli di scappare; tuttavia, di giorno in giorno, il suo corpo diventava sempre più robusto, una chioma foltissima lo faceva assomigliare ad un indomabile leone , il suo sguardo era di una fierezza che avrebbe potuto far sciogliere le ginocchia a qualsiasi temerario che avesse osato incrociarlo. Egli aspettava.
Giunse il giorno in cui lo liberarono. Imperiosi ordini e sferzate non poterono cancellare un sarcastico ghigno che si era dipinto sul suo volto nel momento in cui gli erano state tolte le catene: osservò sprezzante i saggi che lo avevano tenuto sepolto e bloccato per un tempo immane e che ora gli gridavano cosa dovesse fare; infine maledicendo la stoltezza dell’uomo, fece strazio delle carni dei saggi, che urlando stupefatti in preda al terrore, giacquero per il loro crimine.
Le strade della città furono percorse da una brevissima e terribile furia: come un lampo , quasi invisibile all’occhio umano , ma al tempo stesso portatore di distruzione , il dormiente ricordava la sua corsa per sfuggire a quella città che gli aveva procurato sofferenze indicibile: prima , come mille pugnali che gli scavavano le orbite, un dolore lancinante lo trafisse a la vista della luce, a lui preclusa per troppo tempo. Allora emise un ruggito che sconvolse l’intera città: i venditori che avevano addobbato i banchi nelle strade lì appresso non poterono fare a meno di osservare quella enorme figura che con le mani sul viso urlava per il dolore per poi scomparire da lì a poco ad una velocità che non era consentita scorgere agli uomini, lasciando ai suoi piedi i corpi straziati di chiunque gli si parasse davanti.
Arrivò dunque alle immense mura che chiudevano la città, protette da guardie che avevano udito tutto il fracasso e che si stavano preparando a colpire chiunque arrivasse: aumentando ancora di più la sua velocità, iniziò una lunga serie di volteggi , che con un ultimo colpo di reni gli permisero di levarsi al di là delle mura. Vagò per alcuni tempi nelle vicinanze della città stessa , alimentando il mito dell’uomo bestia , attaccando il bestiame che veniva pascolato lì appresso e i viandanti che si recavano alle città vicine.
In breve tempo le lagnanze per questo problema arrivarono all’orecchio di Gilgamesh: se infatti a quel punto la pericolosità causata dalla superbia del re era nota a tutti , era ritenuta ancora più pericolosa quella terribile creatura, che quei temerari sopravvissuti ad un incontro con essa descrivevano come un uomo dal viso incredibilmente dolce, ma dall’indole indomabile giacché viveva tra le fiere. Il sovrano , conoscendo le debolezze umane e i desideri che si celano nell’indole dei viventi, decise che la fiera sarebbe dovuta essere domata, ulteriore prova della sua potenza su tutti gli esseri risiedenti sulla terra: dispose quindi che la più bella delle sue cortigiane andasse a civilizzare la belva, che sarebbe dovuta poi essere portata al suo castello per giurare giusta fedeltà.
Tuttavia, durante la notte, gravi sogni annunciarono il futuro; un enorme senso di pesantezza lo avvolgeva nel sonno, e figure di ombra e fumo danzavano nella sua mente: poteva vedere l’uomo bestia e come esso sarebbe dovuto diventare suo amico amato e fidato, come il futuro prescriveva il ritorno ad una strada di giustizia, ma anche di dolore. Si svegliò immerso nel sudore, con i primi raggi di sole che accarezzavano la sua figura dolcemente: si mise a sedere, e, appoggiando la fronte sulle sue mani apparì ai suoi servi che lo venivano a riverire un leone vecchio e stanco.
Il dormiente ricordava una donna, splendida e dolce come poche: se la trovava davanti sorridente, mentre gli chiedeva insistentemente il nome porgendogli la mano: lui si sentiva irritato da questa improvvisa invasione del suo territorio, non poteva tollerare gli esseri umani, e iniziò a correre verso di lei, che tuttavia rimaneva ferma nella sua posizione tendendo la mano: finalmente la afferrò con una delle sue possenti mani al collo, e la alzò di parecchi centimetri in altezza serrando violentemente la presa. Come se tutto questo non avesse importanza, la ragazza raccolse le sue ultime forze e accarezzo il volto contratto dall’ira dell’uomo bestia: quest’ultimo lasciò immediatamente, come folgorato, la presa, ed indietreggio spaventato , continuando ad emettere un sordo ringhio nella direzione della ragazza che si stava rialzando, a dispetto dell’evidente ematoma che stava iniziando a spuntarle sul collo. Essa, senza perdere la calma, si avvicinò nuovamente all’uomo bestia chiedendo : "Per favore, mi puoi dire il tuo nome?".
Una voce sorda e rabbiosa , come un ruggito di alcune fiere che dominano la savana, rispose : " En…Enkidu…..".
La ragazza, con un immenso sorriso dolce e divertito, pose le mani ai fianchi e abbassando un po’ il torso disse scherzando : " Visto che non era poi così difficile?" , e accarezzò di nuovo la bestia.Iniziò un lungo e difficile periodo, nel quale una donna e una belva dovettero coniugare i propri sforzi per ritrovare in quest’ultima l’umanità che forse giaceva ancora da qualche parte sepolta.


Capitolo XIV

Gli anni insieme all’ancella passarono svelti, come le nubi dopo una terribile tempesta: di quel periodo il dormiente aveva una visione molto sfumata, come un’unica tela sulla quale erano disegnati episodi di una mitica epopea; i particolari mancavano di definizione , sembrava tutto perso nel turbinio dei ricordi che lo avvolgeva in quel momento: perfino il nome di quella donna che tanto aveva rappresentato per lui era scomparso, inghiottito dall’oblio.
Sulla tela del passato poteva scorgere tutte le prove che lo avevano portato a ritornare ad essere uomo, a recuperare tutto quelle caratteristiche che lo contraddistinguevano in quanto essere umano: come avesse iniziato a parlare, e come la sua voce avesse riassunto tonalità non ferine; come avesse ripreso a camminare eretto; a come , pur rimanendo incredibilmente potente, avesse coltivato la gentilezza, la cortesia e la saggezza nel suo cuore.
Un giorno , quando il suo addestramento stava per aver fine , chiese alla giovane donna: " Dimmi…" E il nome della donna sembrava ancora di più disperso tra milioni e milioni di sillabe tra le più dolci, " perché una donna come te decise di venire nella foresta a prendersi cura di uno come me?".
La donna sorrise dolcemente, e poi , con un espressione semi seria e divertita , socchiuse le labbra e mentre un dito le sfiorava, dandosi un’aria da grande narratrice, gli rispose : " Vedi , un giorno io fui chiamata dal mio Signore, che siccome era molto preoccupato perché c’era qualcheduno…" e guardò divertita e accusatrice l’uomo fiera," che faceva un pochino troppa baldoria nei boschi adiacenti la città, decise di mandare me per cercare di calmare il ragazzaccio." E così dicendo sorrise al compagno , accorgendosi però che quest’ultimo si stava rabbuiando; egli riprese : " Allora sono stato una sorta di lavoro , per te?"
Abbracciando Enkidu , gli disse : " Forse formalmente, ma se non mi avessi trattato come hai fatto, mostrandomi un rispetto che a noi donne non è mai stato mostrato, ed un affetto che nemmeno nei più fedeli e amorevoli tra i mariti ho mai osato sperare di trovare, sarei di certa tornata dal mio Signore senza aspettare un secondo. Forse tu non ci crederai, ma è molto di più quello che tu hai dato a me, di quello che io ho dato a te." Finalmente il sorriso tornò sul viso dell’uomo fiera. Sfumati sulla tela, quanti erano i ricordi che gli recavano una sensazione di struggimento che non sapeva arrestare!
Giunse il giorno in cui Enkidu chiese alla donna di parlargli del suo sovrano: vide il suo naturale sorriso smorzarsi , e tuttavia non poteva esimersi dal continuare a chiedere informazioni circa quella persona che appariva come un occhio vigile sulla sua vita fin da quando era nato. Lei parlò di come, anni prima, il sovrano fosse una persona di grande saggezza e giustizia, e quanto fosse amato e venerato dal suo popolo: aveva tratto persino in salvo la sua famiglia da un gruppo di briganti mentre si trovavano a caccia, e lei, proprio per questo, era stata affidata al sovrano come dono. Tuttavia, l’indole di Gilgamesh lentamente fu corrotta dal potere, ed egli aveva iniziato a prevaricare gli abitanti con un dispotismo feroce, sebbene di tanto in tanto fosse possibile scorgere in lui tratti della sua precedente bontà: non era certo un mistero che la città pregasse sommessamente di giorno in giorno la dea Inanna , in modo da far rinsavire l’arrogante tiranno.
Enkidu assunse un’espressione triste e disse all’amica : "Allora quello che mi fecero quei pazzi, che mi ridussero ad una belva, forse aveva un qualche senso. Questo è il mio destino: affrontare Gilgamesh e ucciderlo, in modo da riportare la pace a te e alla tua città." A nulla valsero le preghiere della donna, che lo scongiurava di desistere da una così folle impresa narrandogli tutte le prodezze guerriere del suo sovrano: poche ore dopo Enkidu si trovava al cospetto di Gilgamesh; quest’ultimo lo apostrofò compiaciuto :" Bene, uomo bestia, vedo che sei stato educato in maniera evidente. Sei ora pronto a prostrarti davanti al tuo padrone, Gilgamesh, re di Uruk?"
La risposta raggelò l’aria nella sala : " Fui creato dai saggi di Uruk per ucciderti, e, sebbene non rimpianga affatto di essermi preso la giusta vendetta su di loro, in nome di Inanna , vendicherò le offese che hai arrecato alla tua città."
" E così abbiamo qua davanti un giovane coraggioso, eh?" E mentre sprezzantemente parlava con lui, fece gesto alle guardie che già puntavano le lance contro Enkidu di fermarsi : " fermi , fermi voi, costui è venuto fino a qui per affrontarmi, e quanto una così succulenta preda non me la posso lasciare scappare, tanto non ho voglia nè tempo di osservare i vostri cadaveri straziati per la vostra stoltezza. Andiamo, andiamo guerriero, era da tempo che aspettavo un giusto diversivo contro l’ozio forzato in cui mi hanno gettato questi inetti ed inutili uomini, e tu non mi sembri simile agli altri che si sono parati da stolti sul mio cammino, e da morti hanno maledetto se stessi."
Dopo aver finito di parlare si alzò , e lanciando il mantello con noncuranza ad alcuni paggi, fece cenno al suo avversario di seguirlo per un lungo corridoio: questo era avvolto nel silenzio e nell’ombra, sporadicamente rischiarata da piccole feritoie; il tutto aveva fine in un immenso spiazzo che si cibava avidamente dei raggi che il sole mandava, e delle carni di cadaveri che ancora giacevano sul selciato.
Lentamente andarono al centro dell’arena : il sovrano lo incalzò: " Qui sono morti in tanti: spero per te che mi darai lunghi momenti di divertimento, altrimenti renderò la tua morte estremamente lunga, oltre che dolor…" Ma mentre se ne stava ancora a parlare , non vedendo neppure un movimento, si ritrovò sbalzato di diversi metri in dietro, e, rotolando per terra, avvertiva il dolore che iniziava a pulsare in mezzo al petto: inizialmente furioso, ma poi divertito , si rialzò, e fissando negli occhi Enkidu che lo guardava con la più grande attenzione possibile, gli urlò : " Impressionante , veramente impressionante! ma non sperare che sia così semplice batt…" Nuovamente si ritrovò per terra, dopo essere stato bersagliato da una serie che non era riuscito a contare di calci diretti al volto.
Enkidu gli puntò un dito contro , e gli disse : " Ti conviene iniziare a combattere, o sarai tu a non dare abbastanza divertimento a me."
Iniziò un combattimento senza respiro; due forze imparagonabili si fronteggiarono, senza spazio per il cedimento o la resa: quando uno appariva sfiancato e in procinto di arrendersi, esso traeva altre energie dai recessi più profondi di sé; quando uno era ad un passo dalla vittoria , l’altro si rialzava con la tenacia segnata negli occhi, e ricominciava il combattimento.
La prima notte , urla e fragorose esplosioni tormentarono il sonno degli abitanti di Uruk: per giorni interi la città fu scossa da una furia che appariva infinita.
Finalmente , dopo decine di ore, i due si ritrovarono di fronte: l’uno teneva serrato il braccio dolorante e appariva infermo sullo gambe, l’altro aveva il corpo ricoperto di colpi e il respiro arrancante: Gilgamesh, prendendo fiato, disse al suo avversario : " E’ ora di finire questa assurda battaglia: è chiaro che come io non posso prevalere su di te, altrettanto ti è impossibile fare con me.".
Egli vide il suo rivale guardarlo con occhi di fuoco, e rispondergli : " Questa battaglia finirà solo se tu sarai sconfitto, o se rinuncerai alle vessazioni che da troppo tempo rovinano la popolazione che ti ama: guardami , io sono il frutto che la tua stoltezza ha prodotto: oggi non sono riuscito ad annientarti, ma un giorno potrebbe giungere la tua fine o per mano mia, o per un lavoro più compiuto dei lacchè che ti riveriscono, ma che complottano alle tue spalle."
" Direi che la mia stoltezza ha prodotto un frutto molto loquace, oltre che forte…" , affermò ridendo Gilgamesh, " D’accordo, cesserò tutte le attività che portano danni ai miei sudditi , ma in cambio pretendo l’amicizia di un uomo come te, che sappia indirizzarmi per la via giusta e che eventualmente mi sappia tenere a freno."
Barcollando , i due si andarono in contro, e si giurarono eterna amicizia e fedeltà.
Una nuova era dell’oro si aprì allora ad Uruk: l’amicizia dei due uomini si trasformò nella gloria e in un nuovo splendore per la cittadina, che vedeva nuovamente il suo sovrano e il suo consigliere come doni per i quali era possibile osservare la benedizione di Inanna: opere imponenti furono erte grazie alla cooperazione dei due, rifiorirono le arti e la scienza , e in tutta la Mesopotamia era oramai diventata proverbiale la grandiosità di Uruk.
Tuttavia, nubi scure si iniziavano ad addensare sul futuro dei due eroi: nei boschi dei cedri del Libano, una creatura aveva iniziato le sue turpi manovre contro la città di Uruk, rifiutandole la legna necessaria. Giglamesh si aggirava furioso nelle sale del suo palazzo, sotto lo sguardo preoccupato dei suoi consiglieri e di Enkidu, che conoscevano l’indole del loro sovrano, incapace di sopportare con pazienza ed in silenzio una simile offesa; finalmente, come una belva pronta al contrattacco, si voltò verso l’amico, ed esclamò : " Non posso più tollerare questa assurdità! Andiamo, amico mio, e annientiamo chi osa sfidarci."
" Mio sovrano ed amico," rispose il saggio uomo fiera, " ti prego di non ragionare in maniera così avventata: molti sono i pericoli che si annidano nel bosco sacro dei cedri, primo fra tutti Khumbab, il guardiano del bosco stesso, dimora degli dei: questo demone sacro, che impedisce l’approvvigionamento della legna che ci spetta, non può essere sfidato a cuor leggero come tu vorresti. Ricordati che sei il sovrano di questa città, e che devi prenderti le tue responsabilità in tal senso: non puoi pensare di rischiare la tua vita per un semplice capriccio: da te dipendono le vite di migliaia di persone."
" Tra gli esseri viventi" , riprese sicuro, " e tra quelli che popolano il cielo e le profondità della terra, l’unico che è riuscito ad affrontarmi degnamente è la persona che ho di fronte: con te al mio fianco, nulla può intimorirmi, perciò aiutami , ed insieme ripareremo all’offesa e ci prenderemo giusta vendetta."
" Mio signore, sai quanto odio oppormi ai tuoi voleri , ma continuo a ritenere che questa vendetta sia più portatrice di svantaggi che di vantaggi: l’orgoglio può portare danni per i quali il futuro potrebbe diventare una valle di lacrime e dolore."
Il sovrano abbassò gli occhi poco convinto, e continuò a vagare tra le sale come una tigre in gabbia, cercando per giorni di mutare il parere del suo compagno; finalmente, Enkidu acconsentì , ritenendo più saggio cercare di appoggiare l’amico per aumentare le probabilità di riuscita dell’impresa, che lasciarlo in balia di un destino incerto da solo: un sorriso spavaldo riapparve finalmente sul volto di Gilgamesh , che diede ordine di preparare le armi più splendide e potenti: gli armaioli lavorarono giorni e giorni con tutti i mezzi a loro disposizione: l’acciaio si mischiava al sudore, nella foga della creazione.
Nei giorni che intercorsero tra la lavorazione delle armi e il loro completamento, Gilgamesh ed Enkidu si recarono da Ninsun, madre del primo, per ottenere la protezione degli dei: la tenerezza materna di costei intenerì il cuore dell’uomo fiera, a cui non poté fare a meno di tornare in mente il dolce sorriso di colei che l’aveva civilizzato: in lei si mischiavano la tristezza e la paura per la vita dell’adorato figlio, tanto da osare prendersela col più potente tra gli dei, Shamash, il sole, per avergli dato un figlio così sprezzante del pericolo; e tuttavia, alla preoccupazione si mischiava anche quell’orgoglio che solo una madre può provare per un figlio, e che tra le lacrime le faceva benedire l’impresa ed augurargli buon viaggio, raccomandando, insieme agli anziani, il figlio all’amico.
Furono degli sfiniti armaioli, quelli che affidarono le armi al loro sovrano: rilucevano di un bagliore sinistro, che faceva intravedere il destino di chiunque si fosse contrapposto ad esse, e, mentre lo sguardo soddisfatto e feroce insieme del loro padrone si specchiava in esse, gli armaioli capirono che il loro lavoro era andato a buon fine.
La città salutò i due guerrieri che partivano con tutti gli onori che era in grado di attribuirgli, e molti dei cittadini continuarono a salutare fino a che le sagome non sparirono all’orizzonte, due punti scuri nella direzione dei sacri boschi del Libano.

Federico Mori

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