Come sempre la mostra di Venezia è l’occasione migliore per parlar male dei film italiani. Cosa c’è di meglio che sparare a zero su di un connazionale dopo avere fatto a pugni per entrare in sala grande e dopo avere fischiato a più non posso, badando bene di alzarsi in piedi per farsi riconoscere?
Ancora una volta, balle. Perché non ci si accorge della xenofilia congenita dei nostri critici e della maggiorparte dei nostri critici-opinionisti-tuttologi-esperti? Cominciamo, naturalmente, dai tre film in concorso quest’anno. "Come te nessuno mai" di Gabriele Muccino (già vincitore dell’ultimo Torino Film Festival con "Ecco fatto"), col fratello Silvio nelle vesti del protagonista, è un bel film e basta. Prodotto dalla RAI, parla di una generazione che sta già dissolvendosi, quella degli adolescenti della seconda metà degli anni ’80 caratterizzati dall’occupazione delle scuole superiori. Finalmente, genuinamente, senza retorica politica, senza la forzatura del buonismo, senza la pretesa del giudizio, senza il revisionismo storico (sì, è già alle nostre calcagna… tra dieci anni qualcuno revisionerà il futuro), "Come te nessuno mai" ci mostra i tre giorni di Silvio, appena uscito dall’età del bambino, travolto da sconosciute passioni sentimentali e politiche, che poi sembrano la stessa cosa. Contro "l’omologazione delle coscienze" è il loro slogan, ma poco importa. Perché i miei genitori sessantottini ora se la prendono con me? Perché ora che non ci sono più i missili non possiamo dire la nostra? Perché i fascisti di una volta erano più fascisti di adesso? Perché Martino va con Valentina e, pare, ci va anche a letto? Guardando "Come te nessuno mai" ci appassioniamo senza sforzo allo sguardo irrequieto del bravissimo Silvio Muccino, addirittura co-sceneggiatore del film, sguardo sempre proteso alla ricerca del proprio spazio affettivo, famigliare e sociale. Silvio e gli inseparabili amici non conoscono la guerra fredda ma i genitori non conoscono il fatto che i loro figli si dividono in alternativi, pariolini1, fasci, b-boys e punk. Anche noi 28enni lo impariamo in un gustoso siparietto. E allora perché non dire semplicemente che questo è un bel film? E’ stato accolto con successo all’estero ed è stato più che apprezzato dal vero pubblico, quello dei culturali, che applaude e fischia senza preconcetti. Fuori uno.
Due, "Appassionate". Se avesse la firma di Ciprì e Maresco, due personaggi scomodi e al di fuori delle istituzioni, questo affascinante caleidoscopio napoletano sarebbe stato osannato. Metterlo in concorso significa per molti "categorizzare" o "ufficializzare" Tonino De Bernardi, da sempre una bandiera dell’underground cinematografico italiano. E allora giù mugugni, naturalmente. Chissà poi perché il critico che alloggia all’Excelsior e si nutre di pesce fresco apprezzi tutto quello che è povero e popolare per poi indignarsi quando le stesse sensazioni affiorano dal sottobosco. "Appassionate" è una lenta girandola di volti (su tutti quello omniespressivo di Iaia Forte) e di luoghi e sopra di loro di canzoni napoletane, da quelle popolari alla sceneggiata più moderna. Una donna portoghese che ha abbandonato la sua patria per un uomo, una madonna delle galline che affiora dalla terra di un povero casolare di campagna, una bella prostituta si libera dei suoi fantasmi uccidendo un uomo e ricominciando a vivere addirittura in carcere, un uomo ucciso nel giorno del suo matrimonio da un’altra donna continuerà ad essere parte delle loro vite. Non è possibile raccontare con le parole quello che De Bernardi, torinese di nascita ma napoletanissimo d’adozione, riesce a fare con le musiche, i sogni, gli sguardi e la musica di "Appassionate". Probabilmente non è un capolavoro ma la scelta del neodirettore Barbera sembra di gran qualità.
Su "A domani" solo poche parole perché il film è uscito subito dopo il concorso veneziano. Apprezzatissimo dalla critica francese fin da subito, "A domani" è un film simpatico e interessante. Stritolato da mummie e guerre stellari sarebbe un peccato non averlo visto.
"Questo è il giardino", vincitore del premio della critica è, a mio parere, un film molto bello, tanto da imbarazzare i prevenuti che credevano di trovarsi di fronte il solito film lento e penoso che odora di vecchio e visto fin dall’inizio. Il primo lungometraggio di Giovanni Davide Maderna2, vincitore nel ’96 del "Sacher d’oro", è fatto con cura, con ricerca e con attenzione. La preparazione all’università francese Lumière deve avere tenuto lontano Maderna dalle cattive abitudini nostrane che, badate bene, esistono veramente! "Viva l’Italia" non difende in toto il cinema italiano che, anzi, ci viene spesso proposto nella sua forma più grigia e più piatta, difende però quello che di buono c’è nel cinema italiano, come questi film, ad esempio. Carlo e Laura3 sono due giovani allievi del conservatorio di Milano. Si conoscono per necessità, si innamorano e decidono di andare a vivere insieme nella grande casa che il padre di lui mette a disposizione. Non sarà affatto facile. Lo spazio ed il silenzio di quelle mura non faranno che esaltare l’altro lato dei loro caratteri, quello cattolico ed insicuro di lei, quello torbido e aggressivo di lui, che non riesce a staccarsi completamente dalle vecchie abitudini. Il finale è pieno di speranza ma è anche molto triste. Curato, dicevo. La parola è giusta. Curato nei dialoghi, mai banali e mai inutilmente forti, curato nelle ambientazioni originali e sofisticate, curato nei silenzi e negli spazi perfettamente integrati col tono della narrazione, curato nella recitazione intensa e sommessa, curato nella storia lieve, toccante e credibile. Come vedrete non c’è stato bisogno di creare un set finto "casa degli italiani", non c’è stato bisogno di cazzi o tette, non c’è stato bisogno di eventi insulsi e tragici. E anche per "Questo è il giardino" ci sono stati fischi in sala grande, alla proiezione ufficiale. Forse il film paga il palcoscenico difficile ed importante ma sarebbe un guaio se si perdesse nello strapotere Cecchio Gori vs. Medusa (Fiorentina-Milan). Da notare un altro bel colpo della Lucky Red di Andrea Occhipinti.
Per finire due note su altrettanti film italiani visti a Venezia.
"Autunno" di e con Nina Di Majo, pure vincitrice del "Sacher d’oro" nel 1998, è una tesina di laurea su Nanni Moretti e Woody Allen, questo è lampante fin dalla prima scena. L’incollatura a questi due indiscussi maestri è fin troppo smaccata ma ciò non toglie che i dialoghi siano divertenti e gradevoli e che l’ambientazione napoletana, per una volta lontano dai vicoli dei quartieri spagnoli, sia di bell’effetto.
Personalmente ho avuto momenti d’irritazione alla visione di "Non con un bang", film per il quale non sono riuscito ad andare al di là di un tipo che sta a letto tutto il giorno, la cui madre è un po’ suonata, il cui padre rompe e basta. Il film non riesce ad essere né grottesco, né profondo, né ironico, né tragico, né psicologico, né intimista, né divertente. Sembra che voglia essere tutto questo insieme ma non riesce in nessuno degli intenti. Lo scotto dell’opera prima giustifica solo in parte un risultato da dimenticare.
Morale della favola: non è una novità che l’italiano in patria non sia certo profeta e l’ultima edizione del festival lo ha riconfermato. Non è una novità che si acclamasse al capolavoro di Kubrick ancor prima di averlo visto mentre si stroncavano le scelte di Barbera ancor prima che il festival iniziasse. Non è una novità che il cinema italiano, anche quello di qualità, susciti la curiosità morbosa di essere visto quanto prima possibile per anticiparne la (scontata) stroncatura.
Non è una novità che Kult abbia una voce propria, invece.
Benatti Michele
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Viva l’Italia!
Leggasi fighetti nella traduzione gergale emiliana.
La si è già vista in "Fuori dal mondo" e qui è anche co-sceneggiatrice: da tenere d’occhio…