Capitolo IX
Ricoperto dai sontuosi veli di lascive fanciulle che giocherellavano civettando con i suoi capelli, l’uomo fece un breve gesto di modo che le fanciulle ponessero fine alle loro facezie facenti parte delle più di mille arti da adultere, e indirizzò uno sguardo pieno di sincera compassione e ilare sdegno per colui che aveva interrotto il suo divertimento; infine, ricomponendosi un poco su quello che doveva rappresentare una sorta di trono per conferirsi un aria di maggiore credibilità, quasi intimorito dal portamento regale e severo di Nermer, lo apostrofò con un tono che per solennità era in aperto contrasto con le sembianze e con l’animo di chi parlava: " Oh straniero, che giungi da molto lontano al cospetto di Nermer, colui che regnerà in futuro su tutte le terre circostanti al centro del mondo, sei forse qui per una lieta novella? Più lieti saranno certo per te i doni ospitali in tale circostanza: non di meno ti saranno in ogni altro caso, di modo che non si dica tra i popoli che il magnanimo Nermer sia poco prodigo verso gli ospiti e che non rispetti i dettami dei nostri cari dei: dal tuo abbigliamento vedo che tu sei un sacerdote ( solo i sacerdoti – infatti – possono vestire tali preziose stoffe senza incorrere nell’invidia degli dei ), e perciò quando tornerai da dove sei venuto, come reciproco favore e scambievole dono, parlerai bene ai popoli affidati a te e mi propizierai agli dei… ma forse ( giacché tu non parli né fai cenno con la testa e resti in silenzio con gli occhi chini ) tu fai parte della casta di persone che il dio invasa della sua potenza e che vedono ciò che noi comuni mortali non possiamo? Forse nelle viscere d’animali intravedi gli avvenimenti del tempo che sarà, o nel movimento degli astri, occhi degli dei, che incessantemente vegliano su noi mortali? Vedo che il tuo viso si illumina di un sorriso che mi è sconosciuto…Ho indovinato, per caso? Raccontami del futuro, profeta, amico degli dei, vaso per la loro potenza…"
Durante tutto il lungo sermone, Nermer era stato come trasportato in un vortice di oblio tribale da cui pensava di non riuscire più a fuggire: quelle parole avevano risvegliato qualcosa di nascosto e lungamente sopito dentro di sé : prima era come una serie di parole sussurrate direttamente al suo cervello che improvvisamente esplodevano in una musicalità violenta e ritmata, per poi ritornare ad una sensazione di pura angoscia che si apriva improvvisamente a sprazzi di rabbia pura condensati in urla della sua bestia interiore: ecco, nuovamente la furia tribale che esplodeva nella sua testa e di nuovo ancora l’angosciante quiete, turbata come dai battiti ritmici di un cuore che stava per esplodere, fino alle uniche parole che poté capire: "Apri i tuoi occhi ! Apri la tua mente!" : proprio allora il sorriso che solo l’ira più cupa e sul punto di essere appagata con la distruzione più totale della sua causa può provocare esplose come tutta la potenza che aveva in corpo, facendo rendere finalmente conto di quali poteri potesse realmente disporre. Intese finalmente l’ultima parte del discorso e dentro di sé ne rise quanto poteva, quanto gliene poteva essere permesso: rispose con fare da grande sacerdote : " Figlio mio, grande….Nermer, quello che mi chiedi è molto arduo: per ora mi è lecito risponderti con delle considerazioni che anche a me, umile figlio di Horus, sono permesse: vedi, magnanimo amico, l’uomo è stato per secoli e secoli il solo essere in grado di accumulare le più splendenti ricchezze, l’unico in grado di soggiogare intere popolazioni e di guadagnarsi per sé onori e prestigio;" così parlando era chiaro che aveva già conquistato la piccola folla di servi e di ancelle che a poco a poco si accostavano al loro padrone che appariva profondamente assorto nell’ascoltare le parole di colui che per loro incarnava la quintessenza della saggezza: "tuttavia, per quanto il valore dell’uomo che riesca a compiere tali azioni sia grande e sconfinato, per quanto la sua ambizione non conosca limiti, ben presto verrà fermato da qualcosa: o dall’incedere impietoso del tempo, che senza tregua porta anche gli eroi a raggiungere le dolenti rive dell’amara vecchiaia; o dalla terribile sorte, che fa dello scudiero fortunato condottiero o del condottiero schiavo torturato da malvagi padroni; infine, dalla oscura signora che dall’inizio dei tempi accompagna l’uomo fin dai suoi primi incerti passi, colei che non distingue tra il malvagio e il virtuoso, colei che con il solo sguardo terrorizza i più valorosi tra gli eroi, la nera Morte. Tornando a ciò che tu mi chiesi, non devi pensare, mio sovrano, a come sarà il futuro, ma a come renderti degno di esso tramite valorose azioni, di modo che le tue azioni e il tuo potere abbiano il glorioso medesimo valore: devi osservare il tuo passato in modo da accorgerti delle tue azioni valorose e prenderle da esempio per quelle futuro, e accorgerti di quelle turpi in modo da espiarle con azioni il doppio più grandiose".
Grande profeta, saggio tra i saggi, le tue parole molto hanno mosso il mio animo e, come posso vedere, anche i miei servi più umili si sono fermati ad ascoltare le immense verità di cui, tramite la tua persona, la divinità ci ha permesso di fare parte: io, di certo, sarò esempio di giustizia per le genti e tante sono le azioni gloriose che feci che già il mio nome è pronunciato con il giusto alone di rispetto che esso si merita, offuscando nell’oblio quelle poche azioni turpi che io, come uomo, commisi. Ma dimmi, il dio forse non ispira in te l’eco di ciò che sarà e forse non ti consiglia su come riuscire ad tenere il più possibile quella potenza che tanto noi uomini agogniamo?"
L’arroganza di quell’uomo riusciva a stimolare in modo ancora più impressionante l’odio di Nermer, che iniziava ad avvertire, momento per momento, come quando un fanciullo assapora la sua prima mela e la gusta a poco a poco, un distacco sempre più profondo dalla gente che si trovava davanti: un senso di fastidio profondo lo attanagliava, odiava essere amichevolmente apostrofato e magari giudicato, lui, primo esponente di una stirpe che avrebbe regnato sull’intero mondo, dalla feccia che per diritto avrebbe comandato.
Continuando il suo gioco di gran sacerdote in una strana unione di disprezzo e divertimento, l’uno contro colui che così insistentemente si vanagloriava davanti a lui dopo avergli usurpato il nome e il trono, l’altro causato dalla conoscenza di cosa sarebbe successo poco dopo, rispose: " Amico mio, il vento che il dio permette che spiri dentro il mio corpo è così grande che le tue richieste mi risultano facilmente esaudibili. Vuoi forse tu sapere come un uomo può arrivare a simili prodigiosi livelli? Esso deve essere scelto da Horus in persona, e solo allora potrà entrare a far parte della stirpe di Ish Gabbor…"
" Come posso farne parte ? " chiese con immensa arroganza e senza alcuna esitazione l’impostore.
Nermer non poté più trattenersi : già il fatto che un simile essere potesse permettersi di parlare a lui era un privilegio che in futuro sarebbe stato concesso a ben poche persone, ma che poi volesse diventare suo pari, questo no, non era più tollerabile: il suo viso si contrasse in una smorfia di ira e disprezzo, gli occhi che trasmettevano una sensazione che un numero infinito di parole e poeti non sarebbero mai riusciti a descrivere, tanto che l’impostore iniziò a temere di aver osato chiedere troppo, e gelido sudore percorse la sua schiena, mentre udiva le terribili parole di Nermer: " Stolto! Come puoi tu, feccia tra le fecce, che probabilmente prendesti il mio esercito con qualche inganno o con discorsi conditi con le arti degne di infamia dei demagoghi, osare pensare di diventare come me? Come ?" E già gli occhi dell’impostore erano sbarrati, mentre realizzava finalmente con chi si trovava a conferire: " Tu mi chiedi come puoi diventare parte della mia stirpe? Bene, te lo dirò!" E così parlando lo afferrò per il collo, sollevando la pingue massa del suo corpo di parecchi centimetri dal suolo come se si trattasse di un pugno della più fine sabbia del deserto, mentre l’impostore, ripresosi dallo spavento iniziale, iniziava ad invocare l’aiuto delle guardie, che accorsero in massa alle grida dell’uomo.
" Uccidetelo, Uccidetelo!" Urlava come in preda a qualche demone, mentre Nermer lo trascinava ridendo al di fuori della tenda. Le guardie, inizialmente sorprese e intimorite dalla scena, lanciarono i giavellotti con forza verso l’imponente figura che stava marciando verso di loro: lo schianto delle armi fu poderoso, ed esse penetrarono in profondità nelle carni di Nermer, lacerandole e facendo versare ampi fiotti di sangue sul terreno. Un ultimo giavellotto raggiunse infine il centro del petto dell’uomo trapassandolo: le labbra di Nermer si bagnarono di sangue e bile, e per un momento egli sembrò accusare il colpo portandosi una mano alla bocca e le guardie accennarono un moto di vittoria contro quell’avventato figuro; tuttavia la loro euforia durò ben poco: quelle che sembravano le contrazioni che colgono l’uomo al limitare della vita, ben presto apparvero localizzate solo nei luoghi in cui i giavellotti erano penetrati nelle carni. Essi iniziarono a poco a poco a muoversi: le contrazioni aumentavano ritmicamente e poco dopo i giavellotti giacquero a terra come sommersi dal sangue prima versato, che ora sembrava inghiottire le armi con fare minaccioso.
Nermer passò la mano dalla bocca alla fronte, e nuovamente il sorriso si dipinse sul suo volto, mentre le pupille erano sparite in un movimento teso e angosciante nella parte superiore della cavità orbitale dell’uomo: il sorriso si trasformò ben presto in una risata sempre più cupa, che rimbombò in tutto l’accampamento, mentre il terrore attanagliava le guardie che avevano osato mettersi contro a quello che probabilmente era un demone proveniente dai più bui recessi dell’inferno. Esse scapparono urlando, mentre Nermer, con un movimento pieno di eleganza tracciò nell’aria un simbolo arcano: le lance si levarono in volo, e partirono ad una velocità che non può dirsi: spietate, bevvero la vita di coloro che le avevano possedute con avidità.
In silenzio procedette nella sua marcia, mentre tutta la popolazione dell’accampamento che non aveva ancora ben compreso cosa stesse accadendo seguiva con gli occhi i due che si dirigevano verso il luogo delle riunioni. La folla, incuriosita e preoccupata, seguì tra i mormorii le due figura, chi chiedendosi chi fosse l’imponente figura, chi piangendo il banchetto delle armi che giaceva ancora per terra come macabro ammonimento, chi ancora pensando già come ingraziarsi quello che sarebbe probabilmente divenuto il nuovo signore e padrone delle vite di tutti loro.
Con un gesto secco Nermer gettò a terra l’impostore che piangeva e implorava pietà umiliandosi e osservando le profonde ferite ormai rimarginate, mentre la plebaglia attendeva in trepidante attesa l’esecuzione che avrebbe portato alla nascita di un nuovo sovrano, e gli disse: " Tu vuoi sapere come diventare mio pari? Per farlo devi essere pronto ad una punizione ben peggiore della morte, devi sapere rinnegare te stesso e la tua natura. Ma io ti vedo qui, piangente e umiliato, troppo attaccato alla vita per rinunciarvi. Ti aiuterò io a scegliere!" E così dicendo calò sul suo braccio destro: la folla si voltò inorridita, le urla dell’impostore risuonarono strazianti mentre un fiotto copioso di sangue usciva dalla spalla e il braccio dell’uomo veniva gettato senza vita contro una barricata.
" Ancora lacrime, amico mio ?" Continuò Nermer in preda al dolce richiamo della vendetta : La tua vita vale così tanto per te da non poterti fare diventare il più potente tra i potenti?" E calò sulla sua gamba sinistra: altre urla riempirono le orecchie della folla, che non poteva sopportare di più un tale spettacolo e che tuttavia sentiva la necessità di essere presente come in una sorta di rito di iniziazione .
L’impostore giaceva a terra ormai incapace persino di gemere, tanto il dolore aveva sopraffatto i suoi sensi mortali, e il suo volto era contratto in un’esangue maschera funerea. Tuttavia, Nermer lo afferrò per il collo, e, ostentandolo alla folla quale macabro feticcio della vittoria, urlò : " Animali, vi siete fatti soggiogare da costui, confondendo il vero valore che risplendeva nel mio desiderio con i turpi piaceri della carne a cui vi siete dati. Meritereste una fine ben peggiore di quella che ho magnanimamente dato a costui, levandolo dai supplizi di una vita di torture; tuttavia, dopo che avete avuto il privilegio di assistere ad una goccia del mare magno della mia forza potete decidere se morire come cani, o seguirmi finalmente nella costruzione del mio impero, adorandomi come l’eletto da Dio e figlio prediletto di Horus, colui che mi diede questi magnifici poteri."
La folla, come è noto, segue il gregge antecedente andando dove crede bisogna andare, non dove si deve effettivamente andare: il silenzio era piombato su essa in maniera surreale, e lo strazio delle grida e delle carni l’aveva lasciata come inebetita e attonita, quasi incapace di intendere la gravità effettiva della situazione. Tuttavia il senso pratico che essa possiede ben presto si concretizzo nelle spoglie di un giovinetto, che afferrando le parole dell’uomo, decise al posto della folla per la vita: iniziò a gridare e ad invocare sempre più forte il nome di Nermer. Costui, a sua volta, lo guardò stupito, ma compiaciuto, mentre la folla lo osservava prima se possibile ancor più allibita, per finire poi ad unirsi al coro che acclamava il passaggio del dominio da un sovrano all’altro. Nermer, buttò finalmente il cadavere dell’impostore, che giacque nel suo stesso sangue, mentre egli alzava le mani al cielo in segno di vittoria e di ringraziamento al dio che aveva potuto garantirgli finalmente il dominio sulla massa di stolti che in precedenza si era dimostrata intrattabile.
Iniziò un lungo periodo di guerre per portare finalmente a compimento il sogno di Nermer: in innumerevoli battaglie esse si distinse come guerriero possente e sprezzante del pericolo, e quando le sue armi brillavano per il contrasto dell’alta luce del sole, anche i nemici più potenti e temerari tremavano e pregavano per la loro anima, in quanto sapevano che la morte sarebbe giunta presto; alla sua potenza si sommava quella del suo esercito, conosciuto tra tutti quelli della terra per la fedeltà al suo sovrano, che sedeva le poche rivolte nello strazio del sangue.
L’impero finalmente fu.
Rama lesse le ultime pagine: scritte con una calligrafia diversa che faceva pensare ad un differente compilatore, trattavano della morte di Nermer, descrivendo fatti molto particolari: poco dopo l’unificazione, all’età di quarant’anni, qualcosa iniziò a mutare nella sua persona: accompagnate da terribili dolori, deformità e escrescenze si formarono sul corpo di Nermer, che di giorno in giorno iniziò a rinchiudersi nel più cupo isolamento, per poi morire poco dopo.
Era palese che nel procedimento di perfezionamento di Nermer qualcosa era andato storto, ma ciò, dalle parole dell’ultimo compilatore, risultava come un rischio calcolato: erano già pronte molte altre unità, che nel corso del dispiegarsi del tempo avrebbero portato alla perfezione della stirpe.
Le ultime righe parlavano della seconda unità, in Mesopotamia..
(Continua)
—————————————————————————————————
Capitolo X
La Chiesa si trovava in uno dei vicoli di quelle città che rappresentavano le ultime rovine dell’antica civiltà romana, che aveva, nel corso dei secoli, dominato gran parte dell’Europa. Essa, pur nelle sue grandi dimensioni dettate da qualche antico architetto simpatizzante del romanico, pur procurando un senso di grandezza dovuto probabilmente alle massicce pareti in marmo, che facevano pensare al grande valore che, almeno in un lontano passato, essa poteva avere avuto, appariva come un misero castello di carta pronto a cadere alla prima malevola intenzione e al minimo soffio di un qualche fanciullo irridente, tanto ora era gettata tra l’agglomerato dell’immensa città sorta dalle ceneri di antiche città: due palazzi di immense dimensioni la circondavano irrispettosamente, scempi architettonici che l’uomo si era permesso di costruire attorno a quel sacro luogo, e di fronte ad essa, infiniti cunicoli, vicoli e tunnel di servizio si intrecciavano in un terribile, intricato dedalo nel quale pochi osavano ancora avventurarsi. Risultava così comprensibile capire come, in un epoca dove l’uomo adorava e trattava come proprio supremo Dio e Salvatore quella tecnologia che ormai permetteva all’umanità (o per lo meno a quell’umanità dotata dei fondi e dei mezzi economici necessari) di rasentare l’immortalità, fossero sempre meno quei pochi dediti alla religione del Cristo che, come se non bastasse, si sobbarcassero di un tumultuoso viaggio nel dedalo, regno di fuorilegge e di abiezioni mai osato pronunciare in precedenza; o forse aveva semplicemente ragione quel Pazzo, che secoli addietro, recandosi in un mercato, venne irriso proclamando a tutti quello che era un annunzio terribile e purificatore: la morte di Dio. Tuttavia, se forse allora l’umanità non era ancora pronta a un tale messaggio, essa aveva ora finalmente accolto l’annunzio con la sua consueta stoltezza, e, rifiutandosi di cogliere l’occasione di elevarsi da miseri uomini dandosi un nuovo, personale codice di valori, aveva lasciato che fossero in pochi a sostituire Dio, fuggendo sotto le ali protettive di una moralità serenamente imposta. La morale religiosa era morta, ma non significava necessariamente che la morale ricavata dalle ceneri di essa rappresentasse quel passo che qualcuno sperava dall’uomo giunto ormai alla fine del suo tramonto: non si andava più in chiesa, si andava alla ricerca delle ultime novità tecnologiche, e dalla religione e dalla morale degli schiavi si era allegramente passati alla tecnologia degli schiavi.
La Chiesa era pressoché inghiottita dall’oscurità, con le ombre di molti ceri che si proiettavano, danzando ritmicamente, su affreschi che mostravano figure di santi trionfanti dell’antichità, alcuni nell’atto del martirio, altri nell’atto di combattere draghi, altri ancora circondati da animali. Gli unici raggi di luce solare che in qualche maniera miracolosa riuscivano, oltrepassando nubi e cemento per chilometri di distanza, a gettarsi in un limbo che pure il Dio morto, dalla sua tomba e nel suo oblio, pareva aver dimenticato, si gettavano in quelle che apparivano come l’unico vezzo dell’artista, cioè delle vetrate finemente lavorate, che ricordavano alcune splendide opere che si potevano ammirare in vecchie cattedrali francesi: queste vetrate gettavano riflessi violacei che tagliavano in direzione obliqua la navata centrale, conferendo al luogo ancora maggiore austerità.
Nel buio, il lungo mantello nero che di tanto in tanto mutava colore al passaggio delle ombre, una figura quasi spettrale stava inginocchiata, assorta in una devota quanto antica preghiera; gli occhi erano socchiusi, e un silenzio innaturale, quasi come quel sublime silenzio a cui nemmeno la Morte stessa osa agognare e per cui i più grandi filosofi si struggono nella loro perpetua tensione verso l’infinito, placava i demoni del suo cuore; solo in lontananza poteva udire la presenza di una persona, intenta in opere di pulizia di quella grande costruzione, ma a cui essa non dava molta importanza. La figura indaffarata ebbe come un sussulto ad una delle sillabe finali della preghiera dell’uomo col mantello, e si voltò immediatamente, mostrando una tunica nera che indicava la sua appartenenza alla casta dei sacerdoti, nonché un paio di occhiali neri che assieme ad un bastone bianco ne suggerivano la cecità; essa, lentamente e con l’aiuto del bastone, si recò al banco del fedele. Appena arrivato, pose con una grande naturalezza la mano sulla spalla dell’uomo, tanto che ci si sarebbe potuto effettivamente domandare sulla cecità dell’uomo, e con gentilezza disse : " Posso esserti di qualche conforto, figliolo?"
L’uomo, aprendo gli occhi di scatto, come risvegliandosi da un incubo che lo aveva lasciato sudato e sbigottito, deglutendo lentamente rispose: " Sono Giovanni, Padre ".
Il sacerdote cercò di trattenere un espressione di incredulità: erano passati circa quarant’anni da quando si erano visti l’ultima volta, e pensava fosse morto, ma non si poteva ingannare riguardo alla voce di quell’uomo, una voce così bassa, antica e singolare che ogni volta gli faceva sognare dei tempi antichi: in fin dei conti era anche divertito da come quell’uomo lo continuasse a chiamare " Padre ", in quanto da sempre si era sentito in soggezione con quella persona così colta e credente, e ora che erano diventati entrambi anziani e che il credo del Cristo viveva uno dei suoi periodi più terribili, quel titolo onorifico gli sembrava un’inutile riverenza; ad ogni modo la presenza di un visitatore dopo così tanto tempo, e per di più di una persona con cui in un passato che ad ogni secondo appariva sempre più lontano si era piacevolmente trattenuto a discorrere dei più alti e intriganti misteri della Fede, non poteva che renderlo felice.
Dalla spalla passò lentamente e con fare ora più incerto la mano rugosa alla bassa spalliera di legno del banco, sulla cui superficie si poteva notare, assieme ad una varia collezione di tagli e segni dell’odioso-incessante Tempo, l’incisione del nome del filantropo donatore, e sedette in silenzio, facendo con la testa una leggera panoramica delle tre navate della chiesa, in modo che sembrò che i suoi occhi spaziassero dalle imponenti colonne che si trovavano tra le navate e che scaricavano il peso della chiesa sul terreno fino all’altare dove una statua del Cristo in croce di rara bellezza, opera di uno di quegli autori che in passato si nominavano con riverente rispetto e che ora giacevano dimenticati o venivano ripresi come tocco di classe e inutile ostentazione di qualche magnate che possedendo parte di quello che si sarebbe potuto definire sapere allo stato solido, comprava a suon di denaro la fama di intellettuale, dato che iscriversi ad un circolo culturale o politico era oramai diventato un mezzo fin troppo ovvio per coprire la propria ignoranza.
Sotto lo sguardo dolorante e protettivo del Cristo, il sacerdote contrasse nuovamente i muscoli del collo, e con un movimento dolce, ma che sembrò costargli molta fatica, spostò infine il volto verso quello della figura che si era chiamata Giovanni, e, vinto dalla curiosità, lo apostrofò : " Figliolo, come mi dissi quando ci incontrammo diversi anni orsono, tempo doveva passare prima di un nostro nuovo incontro, e, con franchezza, disperavo di vederti nuovamente, rimandando il nostro incontro al regno di nostro Signore; tuttavia, la tua venuta è sinonimo di grave crisi, se ben ricordo ciò che mi dicesti in passato, e alla gioia del ritrovamento gravi gocce, amare come assenzio, si mescolano nella mia anima."
La figura, lievemente sorpresa a quelle parole, ma con un lieve sorriso che si stava a poco a poco delineando sul suo volto come da molto tempo non accadeva, prese leggermente fiato e iniziò : " Padre, tutto ciò che lei ha detto corrisponde a verità: un grave periodo si sta avvicinando per l’umanità, e la mia missione sta per giungere a compimento, tuttavia…" Si fermò, come infastidito da fantasmi lontani.
" Tuttavia…." Lo incalzò il sacerdote intimorito per quello che sapeva che gli avrebbe detto.
" Il Pio non chiese a Dio di risparmiare la città se anche ci fossero stati 50 giusti? E ancora 40? E poi ancora? " continuò come posseduto da antichi ricordi la figura.
" Credo di capire a cosa ti riferisci…. " Rispose il Sacerdote.
" Si…ma poi…Si, Dio inviò le sue folgori e distruzione….Forse in questi anni ho sbagliato il mio bersaglio…oppure ce ne era più di uno….e non lo avevo ancora capito….che stolto…." Rise sommessamente fra sé e sé: ora quello che diceva appariva più come una continua e sempre più azzardata associazione di idee, un flusso continuo di pensieri per giustificare, almeno verso se stesso, tutto quello che aveva commesso nel corso del tempo e quello che si preparava a fare: il suo disprezzo era cresciuto, si era nutrito della stoltezza delle genti, e l’umanità era solo feccia che si era macchiata del più grande dei peccati e che poteva e anzi doveva essere spazzata via con un gesto, cosa che per altro gli era già apparsa più che evidente, nonché piacevole da realizzare. Oh, c’erano anche quegli altri, ma per quelli il problema era di ordine diverso: dipendeva a che punto era arrivato il progetto, anche se non c’era da illudersi, dato che già alcuni anni prima aveva potuto notare che si era arrivati ad un ottimo livello di perfezionamento. Infine c’erano i suoi simili, che a quanto pare erano ancora alla ricerca di qualche cosa per il mondo che anche egli avrebbe dovuto trovare, conoscendone bene il fine. Mancava ben poco al compimento del progetto finale che non era riuscito a realizzare in più di alcuni millenni dalla sua nascita, ma ben poco importava.
" Figliolo," lo interruppe bruscamente il sacerdote preoccupato per quello che stava avendo modo di udire, " ricordati sempre che, sebbene l’ira di Dio colpisca gli empi, la sua benevolenza è ancora maggiore, come anche il suo perdono : noi, come suoi figli, dobbiamo attenerci alla sua volontà e amare il nostro nemico – ti sembrerà una stupida sciocchezza detta e ridetta, ma la verità è questa – come amiamo noi stessi".
" Padre, l’amore non è certo parte della volontà di Dio, e non si illuda nemmeno che lo sia il perdono. Il tempo del Risveglio è oramai giunto, e Dio non aspetta altro che il risveglio del Bresakr per espletare le ultime formalità prima della fine." Parlò ispirato come da un odio atavico e da un disprezzo che non conosceva limiti.
" Mi stai parlando forse dell’…Apocalisse?" Chiese il Sacerdote intimorito, contraendo il viso in una smorfia che racchiudeva in sé stupore, paure e impotenza.
Giovanni si alzò, gli sussurrò brevemente alcuni dei versi dell’apocalisse dove si narrava della battaglia tra il drago dalle molteplici teste e gli angeli e con lentezza si diresse sul tappeto che ricopriva con un pudico sentimento di orgoglio la navata centrale: raggi colorati animarono nuovamente e in modo così vivace il mantello dell’uomo, che per un momento ne ebbe quasi paura, e mentre la navata scorreva solenne intorno a lui, il Sacerdote, quasi pregando per poter vedere ancora, si voltò nella direzione in cui si stavano allontanando sempre più i passi.
Sentì finalmente che i passi si fermavano, e lo sforzo dei catenacci degli immensi portoni che si stavano lentamente aprendo; come ultima cosa udì la voce dell’uomo che diceva: " Si è mai chiesto perché Dio stimò suoi figli per elezione gli uomini, creature nate da misera terra e sputo, mentre gli Angeli vennero declassati a meri protettori del genere umano? Io ho già formulato la mia risposta, e su questa base estirperò il maledetto cranio di Dio dalle sue spalle e lo getterò in pasto a cagne fameliche."
Così dicendo, scomparì al di là dei portoni, al di là dei vicoli.
Federico Mori
Benaresyama
Federico Mori