Quest’anno il festival per il cinema italiano, di Bellaria Igea Marina, ha visto come vincitore unanime Davide Manuli con Bombay: Arthur Road Prison. La giuria ha assegnato il premio sottolineando "la mancanza di ipocrisia con cui il tema, in ogni caso di forte impatto, è trasceso in una sentita disillusione individuale mediante un uso originale sia degli spazi cinematografici sia dei codici specificamente sonori".
La vela d’argento è stata assegnata a Iduma Elingopiyo – the wound that does not bleed di Davide Tosco e Kali Van Der Merwe "per l’originalità con cui i film riesce a presentare una realtà socio-antropologica assai problematica, lasciando ai soggetti che la abitano e la vivono, una libera espressione di gioco, attraverso lo sguardo capace di unire alla padronanza tecnico-stilistica una fluidità di percezione del reale fuori dal comune".
Da segnalare nei film in concorso il censuratissimo Oltre la Notte di Alberto D’Onofrio ed il discusso Fuori Piombo di Dino D’Alessandro, da evitare L’Uomo che Dorme di Pietro Lassandro.
Garage Olimpo1
Buenos Aires 1978: la feroce repressione del regime militare ha creato, negli oscuri sotterranei della città, veri e propri campi di concentramento, dove i prigionieri politici vengono interrogati con brutali sadismi e sottoposti a torture. A differenza di quanto accade in molti film di denuncia, in Garage Olimpo non è solo il contenuto ad essere politico, ma anche la forma. Marco Bechis descrive con crudezza l’inferno sotterraneo di una città indifferente, addormentata, la crudeltà del regime viene esibita in tutto il suo squallore ideologico, la dignità di esseri umani viene violata.
L’uso frequente del primo piano traspira le emozioni dei personaggi immersi in una fotografia cupa e fredda, il sonoro ossessivo amplifica il senso di angoscia ed oppressione.
Il film di Bechis non vuole essere la voce di speranza di tutti i trentamila desaparecidos, ma un documento di storia utile per non dimenticare.
Sembra che la sceneggiatura sia stata creata duellando sullo schermo, com’è nata?
Si tentava di non fare un film di genere, gli attori non hanno avuto la sceneggiatura perché volevo non sapessero cosa stava succedendo, cosa li avrebbe aspettati e che non avessero la sensazione di parlare per tutti i desaparecidos, ma solo di una storia personale. Se penso al Padrino non mi ricordo le facce sofferenti dei cattivi e questo è quello che ho voluto fare, in modo che ognuno si creasse la propria psicologia, che lavorassero da soli sul personaggio, che pensassero maggiormente alle scene che facevano più che alla proiezione futura, insomma più un lavoro teatrale.
Ci siamo documentati – aggiunge Antonella Costa, attrice protagonista- stando vicino alle vittime, perché la mia generazione vive più il ricordo che l’azione.
Quanto è cambiato il rapporto col film di genere per riuscire a crearne un tipo diverso?
Siamo partiti dal "genere" per poi annacquarlo, anche le luci sono reali. Volevo passare da un genere all’altro per formarne uno personale, come in Pulp Fiction che tra l’altro mi è piaciuto molto.
La presenza della radio nel sottotesto è fortemente simbolica, che rapporto ha questo particolare con il genere di vita che avete voluto rappresentare?
C’è un parallelismo con la copertura del mondo esterno, la radio, nel film, suona musica argentina, parla della politica di quel periodo e tutto per coprire le urla delle torture al mondo esterno, la radio è servita per ricostruire la quotidianità del paese, dove tutti erano a conoscenza, ma non parlavano.
La stessa forza simbolica usata con le riprese a campo lungo?
(risponde Lara Fremder sceneggiatrice) Si, è la stessa. I campi lunghi e le panoramiche tra una scena e l’altra servono a far respirare lo spettatore, a farlo riflettere su ciò che è accaduto e su come la popolazione argentina rispondeva ai fatti. Molte panoramiche le abbiamo girate posteriormente alla montatura della pellicola, inizialmente c’erano dei semplici stacchi che non davano forza al significato, in questo modo, invece, si ha la sensazione del tutto che continua, sottolinea il contrasto con l’esterno, la quotidianità.
Lei stesso, signor Bechis, è stato sequestrato da militari in borghese interrogato con l’elettricità e rilasciato dopo tre mesi. Pensando posteriormente a questa vicenda, lei crede ancora nell’uomo?
E’ stato difficile tornare a quel vissuto attraverso il film, ed ancora di più pensando che in quest’epoca di massimo sviluppo tecnologico, gli orrori sono gli stessi, ma escludo l’ipotesi che l’uomo nasca cattivo, credo che ognuno sia una pedina. Anche nel film lo sottolineo, non c’è psicologia che escluda la cattiveria o la bontà dell’uomo in senso universale; si, credo nell’uomo, anche se dal 1920 in poi con gli attuali eventi si penserebbe il contrario.
L’uomo che dorme
I pregevoli riferimenti letterari, di cui fa uso Pietro Lassandro per la sua seconda opera L’uomo che dorme, non sono bastati a salvare il suo lavoro da una forte critica negativa.
I 37 minuti di pellicola forzano ed appesantiscono il messaggio intimista, che l’originario soggettista Georges Perec, voleva trasmettere. Infatti, il protagonista del cortometraggio risulta, attraverso le immagini, una specie di Dylan Dog Baudelaireiano, un Calimero alternativo che fa della sua solitudine un atto rivoluzionario. Il regista decide di fare vivere il protagonista in una realtà urbana parallela, resa palpabile dal bianco e nero opacizzato, dove però l’intento di trasmettere la contemplazione per la presa di coscienza dell’uomo, lascia il posto ad un lento assopirsi.
Sicuramente il desiderio di sperimentazione di Lassandro è stato placato, questo film racconta una non-storia che, coerentemente, non si manifesta neppure nel finale, ma che purtroppo scontrandosi con la voglia forzata di ribellione dalla società, non riesce a trattenere alcun pensiero meditativo nello spettatore. Per rivelarci L’uomo che dorme, nel suo intero aspetto esistenziale, sarebbe bastato qualche minuto in meno di pellicola ed una maggiore coscienza di sé.
Fuori dal mondo (VINCITORE DEL "PREMIO CASA ROSSA")
Fuori dal mondo, fuori dal corpo, un grumo di rabbia e d’insoddisfazione che implode provocando scosse telluriche nel proprio vissuto, per rinascere, per riguardare la propria vita con uno sguardo nuovo. Fuori dal mondo è qualcosa che ti scorre sotto la pelle in formato panoramico: utilizzato abitualmente per inquadrare vasti paesaggi polverosi, qui aderisce senza perdere efficacia, ai volti dei personaggi, smaterializzando sullo sfondo una Milano opaca e sottotono.
Il film di Piccioni racconta la storia di una suora (Margherita Buy), che riesce ad ovviare tutti gli stereotipi del caso: patetismo, umorismo di grana grossa, peggio ancora, ogni afflato cattolico. Per freschezza e intensità risulta essere, per il regista stesso, una seconda opera prima che si discosta sensibilmente dai precedenti lavori, per il maggiore respiro concesso agli sviluppi intimisti della narrazione.
La genesi del film evidenzia la volontà di sottrazione, di ellissi temporale, che il regista ha voluto apporre come firma, servendosi inoltre della musica in maniera tutt’altro che decorativa, ma come supporto della costruzione di senso. Buona parte del merito va alla fotografia di Luca Bigazzi che infligge una decolorazione emotiva alla pellicola, lasciando tratti spesso indefiniti, ambigui ed aperti come la sorte finale dei protagonisti.
Perché i protagonisti non esaudiranno il loro desiderio di avere un figlio?
Si sarebbe sminuito il senso del film, banalizzato. Non volevo essere rassicurante, è l’adulto il vero orfano. I personaggi nel film crescono, decidono di non scappare ma, al contrario, di confermare le proprie scelte…e poi non volevo dare risposte definitive.
Significa che l’efficacia risiede nel ricostruire i sentimenti su pellicola?
Certo, la luce opaca e le musiche hanno aiutato a ricreare i sentimenti, a dare un senso di rinascita, infatti, Orlando quando si sente male ha la stessa visione annebbiata del bambino che usa gli occhi per la prima volta.
Quanto c’è di autobiografico?
Io sono un single, ma la storia mi è vicina solo per certi versi. Mi piace che si condivida il mondo che non ci appartiene anche nelle crudeltà che ci appaiono lontane…in realtà c’è un piccolo riferimento a L’eterno marito, una storia di Dostoevskij.
In tutto il film esistono una specie di vestizioni e decaloghi, che rapporto c’è con la vita?
Il sottotesto ha aiutato ad incrementare, sottolineare maggiormente il testo. Si sono creati troppi personaggi felici, volevo far vedere l’altra versione dei sondaggi.
Cercare di uscire dallo stereotipo del cinema italiano per confrontarsi con quello americano che tipo di problemi le ha dato?
Per fortuna ho trovato un produttore che mi ha ascoltato. Le difficoltà ci sono perché gli artisti hanno paura che il pubblico ripudi il prodotto. A me invece non importa del successo, gli oscar, l’esaltazione della pellicola…se ci sono è bello, ma non sono importanti.
Oltre la notte…(night moves…)
Dopo diciannove anni di professione Alberto D’Onofrio diventa il regista più censurato del momento. Il film, composto da dieci puntate, è stato commissionato da RaiTre ed è un documentario sugli incontri notturni sul filo della trasgressione: travestiti, spogliarellisti, tossici, persone che nella notte esprimono il loro lato "spettacolare".
Pinto, direttore di RaiTre, dopo aver visionato il materiale, lo ha ritenuto immorale, troppo trasgressivo e fuori dalle linea editoriale della rete, censurando la messa in onda.
"In realtà" afferma D’Onofrio "non c’è assolutamente nulla di immorale. Ho fatto quello che mi era stato chiesto: mostrare in maniera profonda queste persone, rispettandone la personalità, senza manipolare nulla".
Il documentario è stato girato con tecnica mista, uno stile sporco tra ripresa e montaggio, che contribuisce ad una espressione di normalità nei confronti del trasgressivo: "Effettivamente volevo mostrare che anche chi vive in questa maniera è normalissimo. Il fatto è che in Italia il sesso, l’erotismo, la trasgressione vanno mostrati in un certo modo, se vuoi che vadano in onda…per Oltre la Notte mi è stato chiesto di aggiungere un presentatore; senza, lo spettatore si sarebbe dimostrato indifferente alle immagini".
La pellicola, per il momento, non potrà essere mostrata in sala e, nonostante le disapprovazioni ricevute, D’Onofrio puntualizza che il popolo che ha incontrato "è un popolo felice, che ha scelto la propria libertà. Diventa infelice solo quando si scontra con l’ipocrisia della gente bigotta, con il giudizio del pensiero borghese".
Fuori piombo
A cavallo tra la notte e l’alba, in un tempo reale dal sapore metafisico, Adriano Sofri, dentro un’impropria cella, è alle prese con un’ipotetica quanto intrigante partita a scacchi. Una partita che si gioca da più di trent’anni e che si trascina, cinica ed imperturbata, nei dogmi della cronaca.
Questo il soggetto del primo lungometraggio di Dino D’Alessandro che è stato motivo di polemica, anche da parte dell’autore stesso, ancora prima della sua proiezione.
Il titolo del film, altamente metaforico, richiama gli anni di piombo e "riferito alla torre di Pisa", richiama qualcosa d’illogico, di storto, che però sta in piedi; "così è anche la storia di Sofri" puntualizza il regista. Il titolo non è l’unico elemento simbolico: il protagonista (Antonio Serrano) definisce la moka "la più solida istituzione italiana del dopoguerra" facendo chiari riferimenti alle istituzioni ed alle sue applicazioni.
Fuori piombo non ha accolto consensi favorevoli da parte della giuria di Adriaticocinema, e tantomeno, da Mario Monicelli, presente in sala durante la proiezione, il quale ha avuto un’intensa discussione con D’Alessandro, conclusasi con l’uscita non troppo amichevole dalla sala di quest’ultimo. Lo stesso Sofri, che ha letto, posteriormente alla conclusione del film, la sceneggiatura, non ha ancora espresso un’opinione.
Iduma elingopiyo – the wuond that does not bleed
La ferita che non sanguina è un documentario che esplora il mondo dei bambini e degli adolescenti di Città del Capo. Alcuni di loro affermano di amare la libertà della vita di strada, ma la maggior parte la sceglie perché la quotidianità dell’ambiente famigliare è solo un vuoto sostantivo: abusi sessuali, alcolismo e povertà sono consuete minacce. Il film penetra nella loro esistenza mostrando le costrizioni di vita perpetuata attraverso elemosine e furti, in balia delle malattie, degli sfruttamenti da parte dei più anziani, degli abusi di stupefacenti. La ferita che non sanguina è un coro di volti e di voci che vuole raccontare un universo di sopravvivenza, ma anche un’inalienabile modalità di essere bambini.
Bombay: Arthur Road Prison
Davide Manuli è già conosciuto per le sue collaborazioni con la CHAL Production di Al Pacino e per il suo lungometraggio Girotondo, giro attorno al mondo che gli fece vincere nel 1998 il festival di Arezzo. Quest’anno si presenta con 14 minuti di bianco e nero di storia vissuta. Il film nasce dalla lettera di un ragazzo (Gianluca) rinchiuso in un carcere in India, spedita ad una amica, Titti (la protagonista del film è anche la vera destinataria della lettera).
Le immagini sono attraversate da una voce fuori campo che accompagna lo spettatore, testimone della distanza tra una prigioniera voce disperata ed un altrettanto disperato silenzio: quello di Titti che incapace di reagire si stringe il braccio con un laccio di gomma e si buca.
Bombay: Arthur Road Prison non è una denuncia, né una condanna, ma un luogo in cui Manuli ha la capacità di condensare, senza temporali logiche o gerarchie di valori, un senso di solitudine e sconfitta.
Tre storie (di Piergiorgio Gay e Roberto Sanpietro)
Quello che soprattutto colpisce di Tre storie è la particolare struttura narrativa, che mescola documentario e fiction. In questo modo la vicenda, quella di tre vite che s’incrociano in una comunità per tossicodipendenti, prende vita attraverso i ricordi di due dei protagonisti, conferendo ad un racconto, non dissimile da tante storie già viste, una nuova dimensione. Queste interviste, a detta di Piergiorgio Gay e Roberto Sanpietro (gli autori del film), assumono il ruolo di bilancio temporale, perché "in film come questo la vita è più importante del cinema". In questo senso si spiega la scelta della forma documentario, in bianco e nero, per accogliere i racconti dei protagonisti, mentre i fatti ai quali questi fanno riferimento sono ricostruiti con il cinema, a colori. Il documentario, infatti, rappresenta, nelle attese dello spettatore, la testimonianza, mentre al cinema è riservata solitamente la funzione del racconto. Va rilevato ora come anche le interviste siano in realtà prodotto di fiction, ma la scelta di attori non professionisti le rende più credibili. Infatti la recitazione, che per certi aspetti può sembrare sottotono, serve a non enfatizzare la situazione, anche se ad alcuni può sembrare falsa, nelle intenzioni degli autori dovrebbe rispecchiare la vita reale. Nel corso dell’incontro svoltosi al Café Madrid, una persona che ha vissuto un’esperienza simile a quella dei protagonisti, ha dichiarato di sentirsi, per la prima volta, rappresentata da un film. Questa, forse, era l’intenzione dei registi.
Adriaticocinema 1999 dalla giuria!
Barbara Burgio
Andrea De Candido, Annalisa Roncarelli