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Stitichezza? Pastiglie Hollywood!

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Stitichezza? Pasticche Hollywood!

Ancor meglio se a prescrivervele è il dottor Patch Adams, magari col naso da clown e la faccia di Robin Williams. Lo so, avete già capito che state per leggere l’ennesima filippica contro la presunta pochezza di idee e di capacità narrativa dell’industria cinematografica americana. Ma è proprio così! E’ sotto i nostri occhi (o meglio davanti a loro) tutti i giorni, e noi paghiamo pure…
Lo spunto è il nuovo film di Robin Williams che racconta la storia vera di Patch Adams, il medico che per primo portò il buonumore nelle corsie d’ospedale utilizzandone le capacità terapeutiche e di conforto. La storia è interessante, così come lo è la biografia di qualunque persona abbia avuto una vita, un’attività o una vicenda interessante. Adams pensa al suicidio perché si sente inutile e si fa ricoverare spontaneamente in un istituto psichiatrico dal quale esce ben presto grazie ad una ritrovata personalità. Si iscrive all’università di medicina, siamo alla fine degli anni ’60, ma nonostante la sua ottima media è malvisto e osteggiato dagli organi direttivi per il suo comportamento apparentemente frivolo e poco serio. Durante gli anni degli studi Adams mette in piedi una sorta di casa-famiglia dove offre ospitalità e cure a quei cittadini la cui bassa condizione sociale impedisce di avere un’assicurazione sanitaria e, di conseguenza, impedisce di avere un’assistenza sanitaria che negli Stati Uniti non è pubblica (evviva il mito americano…). La storia si chiude con la decisione dell’ordine nazionale dei medici di impedire che venga cacciato dall’università, decisione che coincide con "l’affermazione" dei suoi metodi ora utilizzati in molti ospedali del mondo e tornati alla ribalta grazie proprio a questo film. Ok, un buon soggetto, un grosso budget ed un attore formidabile come Robin Williams non potranno che essere gli ingredienti di un ottimo film. E finalmente arriviamo al nocciolo dell’articolo: "Patch Adams" fa cagare.
Ripercorrete i passi descritti poche righe fa ed intercalateli con la serie di ovvietà e banalità che leggerete adesso. Scopriamo che Patch Adams ha qualche problema di rotelle perché dietro allo specchio del bagno che fa da sportello all’armadietto delle medicine intravediamo una serie infinita di vasetti la cui etichetta è scritta a macchina, etichette che l’immaginario irreale di Hollywood ci ha abituato a considerare come quelle degli psicofarmaci o degli antidepressivi. Adams si interna volontariamente in un manicomio ed il suo ingresso è da "Tutti registi in 10 lezioni": allo sguardo dell’attonito Robin Williams si presenta il vecchio che parla a vanvera, il catatonico sulla sedia a rotelle assistito dall’energumeno negro col cardigan sul camice bianco e le sbarre alle finestre, ma di cosa si stupisce? Dove credeva di andare? Adams riesce poi a "guarire" un tipo che non scendeva dal letto perché vedeva scoiattoli aggressivi che lo minacciavano. Insomma, in 10 minuti di film "Patch Adams" ci fa capire che: il manicomio è un posto terribile, i medici non capiscono niente, lui ha la ricetta per tutti i mali, lì dentro vive un tipo che si renderà utile più avanti nel film. Arriva all’università (ma Robin Williams dimostra 50 anni!!) ed il suo compagno di stanza è il secchione-occhialuto-ciccione-borioso-tuttateoria con il quale non lega ma noi sappiamo già che… Attacca subito bottone con la più carina del corso (reduce dall’interpretazione di "Martha da legare") che, naturalmente, non caga nemmeno di striscio il simpaticone attempato dicendogli che "lei deve studiare, è qui per diventare un dottore non per farsi rimorchiare". Il prosieguo è intuibile. Robin Williams è bravissimo e geneticamente dotato di una mimica facciale e di una carrellata di espressioni tali da renderlo unico in ruoli di questo genere ma, da persona intelligente come credo che sia, si rende ben conto che Patch Adams non è il Capitano, mio capitano di "L’attimo fuggente", l’esplosiva "Mrs. Doubtfire" o il vulcanico radiocronista di "Good Morning Vietnam" e così finisce per calcare eccessivamente la mano su sé stesso. Le sue espressioni sono fastidiosamente estremizzate, a volte sembra che la mascella gli si stia per staccare dalla faccia! Tutto inutile, nemmeno Robin Williams riesce a farmi piacere il buon Adams. La storia continua. Nonostante il divieto imposto agli studenti del primo biennio, Adams si intrufola giornalmente nell’ospedale dell’università dove sembra essere l’unico in grado di far ridere i bambini in chemioterapia o sorridere le anziane in fin di vita. Davanti alla reception, dominata da infermiere, la manovalanza, che patteggiano per Adams contro i medici, l’intellighenzia, c’è la stanza dell’indomabile Bill, un malato terminale che prende a pugni e morsi chiunque cerchi di dargli una mano. Inutile dire che quello sarà "l’esame finale" per il metodo di Adams. A proposito, da un certo momento in poi si fa chiamare Patch anche se il suo vero nome è Anter ma non ho capito il perché, forse nella versione originale tutto ciò ha un significato. Prima del gran finale, che tutti già si immaginano, spazio a due dei grandi temi odierni del cinema hollywoodiano: volgarità e amore. Patch Adams ha il compito di organizzare il convegno dei ginecologi e come li accoglie? Con due gambe divaricate di cartapesta tra le quali c’è la porta d’ingresso all’auditorium. Ma che pensata! Intanto il suo rapporto con la graziosa compagna di studi cresce di giorno in giorno e lei pian piano sbriciola quel muro di diffidenza che aveva nei suoi confronti partecipando sempre più attivamente alle iniziative di Adams. La sera in cui si fidanzano ufficialmente scopriamo che lei ha una certa repulsione verso gli uomini perché… esatto! E’ stata violentata dal padre quando era piccola e "guardava i bruchi diventare farfalle dalla sua finestra". I sacchetti per il vomito sono sullo schienale di fronte. Gran finale nel tribunale dell’ordine medico e notizie di cronaca sull’attività del vero Patch Adams in sovraimpressione. Fine. Per fortuna.
Estraete da questa passionale cronaca i temi essenziali e confrontateli con la maggiorparte dei film americani, siano essi d’amore, d’azione, legal movies o qualsiasi altro, con poche eccezioni. Il risultato sarà quello di scoprire che tutti i film sembrano usciti dal libro dei temi che si guardava di nascosto alle superiori, il cui utilizzo comportava il rischio di fare il tema uguale a quello dell’ultimo banco. Proprio così.
La domanda è sempre la stessa: è il pubblico a chiedere certi film oppure è l’imponente ondata di questi film a creare i gusti del pubblico? Non è un giudizio, ma una posizione assolutamente personale. Io spero che il pubblico affezionato a questo modo di narrare storie lo sia in modo consapevole ma lo vorrei invitare a scegliere, una volta tanto, un film piccolo, reale, vero e quotidiano. In questo periodo potrebbe vedere "Terminus Paradise", un bellissimo film franco-rumeno su di un ragazzo disperato prigioniero della miseria e della disillusione del post-comunismo.
Accidenti, che arringa!


Benatti Michele

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