Tutti sappiamo che l’Africa in America c’è arrivata con la deportazione forzata degli schiavi e, a distanza di secoli, non si può ancora affermare che ci sia una vera integrazione razziale, anche dopo l’abolizione formale della schiavitù. "Little Senegal1", in concorso alla 51ma Berlinale, è un ottimo film diretto dall’algerino Rachid Bouchareb, che parla appunto di deportazione e schiavitù.
Sgombrate dalla vostra mente però scene tipo "Radici" o, per i più scettici, quelle immagini e quei ritmi da produzioni africane, spesso giudicate grezze e troppo semplici per i nostri occhi da spettatore europeo. "Little Senegal" è girato quasi completamente a New York e l’Africa la si vede solo negli sguardi nei protagonisti o nelle brevi scene iniziali e finali.
La storia. Un anziano senegalese conduce i turisti attraverso l’edificio che una volta serviva da prigione e smistamento per gli schiavi in partenza per l’America, un viaggio senza ritorno. Deciso a ricostruire il suo albero genealogico parte per gli Stati Uniti, e con l’aiuto di una flebile traccia prova a ricostruire il destino dei suoi antenati. Il primo contatto con la sua storia è terrificante, anche se raccontato in una giornata di sole e liquidato con pche battute: una ricca signora bianca esce da una magnifica residenza, frutto dello sfruttamento degli antenati di chi ha suonato alla sua porta, e molto candidamente dice di non poterlo aiutare in nessun modo, dice che nessun documento cita le persone che sta cercando e rientra in casa. Con una dignità ed una cocciutaggine inaudita il protagonista, magro ed alto, di nome Alloune, prosegue il suo viaggio verso New York, quartiere di West Harle, dove vive da qualche anno il nipote dal quale conta di trovare ospitalità per un po’. Il nipote è sorpreso dall’arrivo dello zio ed il suo imbarazzo è evidente nel presentargli una donna alla quale non è sposato che vive insieme a lui, oltre ad un altro amico. Il vecchio è rattristato, capisce subito che l’Africa non è che un ricordo per il nipote, un ricordo sommerso dalle necessità quotidiane e dalle condizioni di vita imposte pur facendo un lavoro, pur avendo una ragazza, pur tentando di tutto. La ricerca prosegue e arriva ad una signora di colore, africana ormai solo nella pelle, che vende giornali in un chiosco. La tenera insistenza di Alloune vecchio nel farsi assumere come aiutante fa breccia nella signora che, credendo di trovarsi di fronte uno strano individuo, lo ingaggia col sorriso sulle labbra. E’ questione di poco ed i due diventano buoni amici, ed anche di più. Le loro solitudini, le loro disillusioni, i loro sogni trovano rinforzo in quelli dell’altro. Si può così farsi forza per una ragazza che vaga incinta chissà dove o per il nipote che perde il lavoro. L’Africa è davvero lontana e se non si arriva più in America in catene, quello che poi si trova al di qua dell’oceano è molto simile a ciò che accadeva solo un secolo prima.
"Litlle Senegal" finisce, così com’era partito, in Africa. A guidare i turisti c’è un’altra persona, ora ed è come se tutto ricominciasse.
Bouchareb riesce in pieno a trasmettere la delusione delle speranze di chi, credendo di trovare "l’America"3, si ritrova ben presto a compromettersi con uno stile di vita sciatto e penoso, dovendo rinunciare alle proprio convinzioni, alle proprie tradizioni. Lo sguardo del film è sempre quello del vecchio, del suo camminare lento ma inarrestabile, del suo abito elegantemente liso e sgualcito. Poi lo sguardo del film è anche quello della signora Robinson che consegna all’amico la consapevolezza della lontananza e della serena rassegnazione. Infine lo sguardo del film è quello che dalla porticina della ex prigione africana il protagonista lancia oltre l’orizzonte del mare, guardando ad un passato che passato non è, sperando in un futuro che non ha visto nemmeno dall’altra parte.
"Little Senegal", applaudiot tiepidamente a Berlino, è una lucida visione della realtà occidentale nei confronti degli emarginati di colro, anche se l’emraginazione di qui si parla è una specie di gabbia dorata le cui sbarre sono un lavoro, un tetto, una vita sociale, pur se fruite miseramente. Forse nel finale si accavallano troppe situazioni e Bouchareb cede un po’ il passo ma il suo film è da vedere, sicuramente.
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L’Africa in America
Michele Benatti
Sullo sfondo una scena del film
Quattro quinti del mondo sognano "Lamerica", ma poi?