La recente tempesta abbattutasi sul Giro d’Italia di ciclismo ha riportato in primo piano un problema, quello del doping, che forse qualcuno s’era illuso di aver già sconfitto ai tempi dell’altrettanto spettacolare intervento delle forze dell’ordine al Tour de France poi vinto da Pantani. Ora qualcun altro ricadrà, è facile immaginarlo, nella medesima illusione.
Il problema del doping non potrà mai essere sconfitto, non almeno nel modo in cui lo si sta combattendo ora, perché la battaglia si basa su un colossale fraintendimento del problema stesso. L’idea che la sottende è infatti quella di eliminare ogni intervento esterno che produca innaturali aumenti delle potenzialità fisiche dell’atleta, permettendogli così di ottenere risultati ai quali altrimenti non avrebbe potuto ambire. Ora, a nessuno è mai venuto in mente che questa definizione si applica benissimo anche al normale allenamento quotidiano di questi atleti? Ipotizziamo che Gilberto Simoni invece che un ciclista affermato fosse stato fino alla vigilia del Giro, che ha poi vinto, un semplice impiegato di banca: pensate forse che se avesse lasciato il suo posto di lavoro al venerdì sera per prendere parte alla corsa rosa in partenza la domenica sarebbe stato in grado di arrivare fino a Milano? Nemmeno per sogno. Nessuno nasce atleta: qualcuno potrà esservi più predisposto di altri, ma ciò non toglie che il fisico umano non sia naturalmente costruito per far fronte a sforzi quali tremilacinquecento chilometri da percorrersi in sella ad una bicicletta in tre settimane, o a cento metri da corrersi in dieci secondi, o ancora a novanta e passa minuti di gioco del calcio da ripetersi una volta ogni tre giorni. Se certi individui riescono a produrre simili prestazioni, essi lo devono esclusivamente a pesanti interventi operati dall’esterno sul loro organismo: ore e ore di specifico allenamento giornaliero, intenso utilizzo di integratori per apportare in tempi brevi al corpo gli elementi consumati durante lo sforzo fisico, alimentazione strettamente regolata e pianificata e così via. Ora, questo è o non è da considerarsi doping? Se assumiamo per buona la definizione proposta qualche riga sopra, la risposta non può che essere affermativa: perché, ricordiamocelo bene, l’allenamento a cui si sottopongono gli atleti professionisti non ha niente a che vedere con quello equilibrato e limitato di un amatore, trattandosi invece di una pratica intensiva e specifica che si propone di sviluppare talvolta in modo tutt’altro che armonico certe specifiche potenzialità del corpo. Eppure nessuno si sognerebbe mai di mettere sotto accusa un calciatore o un centometrista o un ciclista per essersi trattenuto in palestra, per aver seguito i dettami di un dietologo o per aver fatto ricorso a professionisti della fisioterapia: così come a nessuno verrebbe mai in mente di squalificare Gilberto Simoni per aver speso gran parte delle sue giornate da gennaio a questa parte in sella alla sua bicicletta. Tutti questi mezzi sono ritenuti unanimemente corretti, ma se guardiamo bene la verità è che in fin dei conti altro non fanno che aumentare innaturalmente le potenzialità fisiche dell’atleta: ed allora da quale pulpito può venire la predica contro il nandrolone, la creatina, l’eritropoietina e compagnia bella? Dal punto di vista che sto qui cercando di illustrare, esse non fanno parte di un’altra, più deprecabile categoria: non vi è ragione tecnica per cui debbano essere considerate contrarie allo spirito della competizione sportiva più di quanto non lo sia, se vogliamo, l’atleta di un paese ricco che abbia la possibilità di allenarsi nelle condizioni migliori, a fronte di un suo collega meno fortunato costretto ad adattarsi a strutture obsolete ed a programmi meno aggiornati. Se è un ipotetico e sfuggente ‘spirito sportivo’ che stiamo inseguendo, allora non solo il doping ma anche le palestre ultratecnologiche ed i maghi della preparazione atletica andrebbero banditi all’istante, a meno che tutti gli atleti a confronto fra loro possano accedere a tali servizi in egual misura: perché qualunque strumentazione o competenza scientifica messa in campo accresce il divario fra chi ne dispone e chi ne è privo, e se veramente volessimo far partire tutti ad armi pari dovremmo farne piazza pulita. Essendo ciò assolutamente demenziale ed improponibile, cosa rimane allora da fare?
Giunti fin qui potremmo forse cercare di riconsiderare la definizione stessa di doping in modo da isolare, nella marea di aiuti e supporti a disposizione dell’atleta desideroso di migliorarsi, solo quelli il cui utilizzo risulti inequivocabilmente pericoloso per la salute stessa dell’atleta: ma così facendo compiamo un vero, significativo passo avanti? Non ne sono poi tanto sicuro. Chi e come, infatti, può stabilire in modo uniforme ed imparziale quali sostanze possano effettivamente definirsi nocive, ed in quale dosaggio? Come dovranno stabilirsi le opportune soglie oltre le quali certi parametri fisiologici debbano considerarsi alterati? E come valutare, caso per caso, le singole alterazioni di cui sopra? Gli atleti non sono creati con uno stampino: ognuno dispone di un fisico diverso, che fornisce diverse risposte ai medesimi esami e reagisce in maniere differenti alla somministrazione degli stessi prodotti o all’effettuazione di determinati sforzi. Quello che li accomuna è solo ed unicamente lo sforzo di migliorare le prestazioni del proprio corpo, e qualsiasi tentativo da parte di una qualunque autorità di attribuire o negare la patente di legalità ad i mezzi che via via verranno adottati è da ritenersi puramente dogmatica e priva di solide fondamenta.
Questa è, a mio modo di vedere, la profonda verità del fenomeno doping. Da che si fa sport, ma soprattutto in epoca moderna, non è più possibile separare l’atleta in quanto individuo capace di certe prestazioni da tutto ciò che ne circonda e ne rende possibile l’attività. E va da sé che nella ricerca sempre più esasperata di risultati vi sarà sempre qualcuno che supererà una invisibile barriera, smettendo di potenziare il proprio fisico e cominciando invece inesorabilmente a distruggerlo. Ma, ancora, sostanze ed allenamenti che si sposano perfettamente con il profilo fisiologico di un certo individuo possono invece rivelarsi devastanti per un altro: e allora chi ha ‘ragione’? Il flaccido sessantenne che si sfibra facendo venti minuti di jogging mette il proprio fisico a dura prova tanto quanto l’allenatissimo atleta il quale decide di affidarsi a prodotti ritenuti dopanti, ma il primo non verrà sicuramente mai perseguito dalla giustizia sportiva: e non dimentichiamoci che gli effetti di certe sostanze sul corpo raramente vengono provate definitivamente se non a sensibile distanza dalla loro comparsa sulle scene sportive. Fare vera, sensata ed efficace prevenzione in questi termini è pertanto quasi impossibile: solo il buon senso dei singoli sportivi e la loro capacità di riconoscere ed accettare i propri limiti potrebbe circoscrivere il problema… se vivessimo in un mondo ideale, chiaramente.
Una diversa prospettiva sul doping
Fabrizio Claudio Marcon