né dove i potenti programmano la spartizione dei beni della terra…"
1.
Per chi non lo sapesse, e purtroppo penso siano molti, con l’acronimo AMI -parola ambigua che in francese significa amico– si indica l’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (in francese, Accord Multilatéral sur l’Investissement; in inglese, MAI, Multilateral Agreement on Investments), un trattato internazionale che per tre anni dal 1995 al 1998 è rimasto sui tavoli dell’OCSE1 (l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) per essere discusso e approvato dai 29 Paesi membri2 per poi essere imposto alla comunità internazionale quale unico corpus regolamentare dei rapporti intercorrenti tra soggetti, sia pubblici che privati, per gli investimenti transfrontalieri che ormai sono all’ordine del giorno dei grandi e medi operatori finanziari.
Perché affrontare un simile tema a distanza di tre anni dall’ufficiale archiviazione di questo particolare strumento di diritto internazionale che, fortunatamente, non ha visto la luce è presto detto: ritengo, e non sono il solo, che un accordo avente forza cogente per amministrazioni pubbliche, centrali e periferiche, società, nazionali e multinazionali, e singoli individui non possa e non debba essere deciso da un ristretto ed eccellente club di pochi, quale l’assise di Parigi dell’OCSE, in particolare quando questo comporti vincoli tanto influenti sulle economie dei singoli Paesi, partecipanti e non alla sua elaborazione, e tanto più tutto ciò avvenga a porte chiuse, lontano dalla doverosa pubblicità che un moderno stato di diritto riconosce quale principio incontrovertibile per ogni suo provvedimento che vada a regolare la vita dei propri soggetti, cittadini o sudditi che siano.
Questo è proprio quello che è successo a Parigi, nel silenzio pressoché totale dei media italiani e nell’assoluta indifferenza di quelle agenzie rappresentative di interessi diffusi della società civile (sindacati, partiti politici, associazioni) fino alla fine del 1997 quando, grazie all’azione di militanti francesi e statunitensi del mondo dell’informazione e dei diritti civili ed economici, il mondo ha iniziato ad aprire gli occhi su quello che stava accadendo: i potenti della terra, e tra questi anche noi italiani3, stavano trovando il modo di offrire alle grandi multinazionali l’occasione di attaccare qualsiasi bene esistente in qualunque angolo del pianeta, appropriarsene, sfruttarlo e, se del caso, chiedere di essere indennizzate per il mancato guadagno sperato. Il tutto, sulla pelle di noi tutti!
2.
Per iniziare a capire su quali ambiti l’AMI dovrebbe estendere la sua efficacia, è opportuno considerare alcuni dati che offrono anche un’idea della mole di interessi che rileverebbero da questo accordo.
Al mondo esistono oggi circa 44.000 società multinazionali4, con 280.000 controllate ed un giro d’affari complessivo di circa 7.000 miliardi di dollari USA all’anno, e queste controllano il 33% del PIL (prodotto interno lordo) del pianeta.
Prendendo in considerazione le 100 maggiori imprese transnazionali5 citate dalla rivista di finanza Global Fortune, che ogni anno stila una classifica delle società più performanti, risulta interessante scoprire che 99 hanno sede legale negli USA, nell’Unione Europea ed in Giappone; l’unica eccezione è la coreana Daewoo. Se estendiamo l’analisi alle prime 500, ben 477 (vale a dire ben il 95,4%) hanno la propria sede in uno dei 29 Paesi membri dell’OCSE.
I 20 gruppi più grandi del mondo hanno un ricavato superiore a quello dell’economia degli 80 Paesi più poveri messi insieme.
Il 20% degli abitanti del nostro pianeta detiene ed utilizza per sé l’82,7% della ricchezza mondiale; al contempo, un altro 20%, quello più povero, vive o meglio sopravvive con appena l’1,4%.
Gli investimenti esteri effettuati da imprese transnazionali hanno raggiunto il picco massimo nel 1994 e nel 1995, proprio poco prima delle grandi crisi che hanno scosso i mercati internazionali partendo dall’America latina (Messico e Brasile) e successivamente dai Paesi del Sud-Est asiatico (la crisi delle famose Tigri asiatiche) e le quote maggiori di investimenti diretti all’estero sono state indirizzate verso la Cina, il Sud-Est asiatico e l’America latina (l’Africa, già ampiamente sfruttata, figura tra le regioni target di investimenti meno gettonate).
Nel 1996 il tasso di crescita degli investimenti oltre confine ha superato sia quello del prodotto interno lordo medio mondiale (6,6%) che quello del commercio internazionale (4,5%), attestandosi al 10%.
Dall’entrata nel NAFTA (North American Free Trade Agreement – Accordo sul Libero Commercio nel Nord America) il 1° gennaio 1994, i salari reali in Messico sono calati del 45%, i disoccupati sono aumentati di 2 milioni, la percentuale di popolazione in condizioni di "estrema povertà" è salita dal 31% del 1993 al 50% del 1997.
Nel 1870 il reddito medio pro capite nei paesi più ricchi era 11 volte superiore a quello dei paesi più poveri; questo rapporto é aumentato a 38 volte nel 1960 e a 52 nel 1985.
Tra il 1980 e il 1993 le 500 imprese di Fortune hanno eliminato 4.400.000 posti di lavoro. Nello stesso periodo le loro vendite sono aumentate di 1,4 volte. Esse impiegano lo 0,5% della popolazione mondiale ma controllano il 25% della produzione e il 70% dei commerci mondiali.
Con 73 milioni di dipendenti (poco più dell’1% della popolazione mondiale) il volume d’affari delle grandi multinazionali corrisponde a circa la metà di quello mondiale. Qualche esempio: la Philip Morris, 173.000 dipendenti, ha un fatturato superiore a quello di Pakistan e Filippine messi insieme (200 milioni di persone), l’ENI fattura più dell’Egitto, la British Petroleum più delle Filippine, la Walt Disney più dell’Ecuador, la Nike più del Kenya, la Shell più del Sudafrica6.
E questi sono solo alcuni esempi!
3.
Cerchiamo ora di esaminare insieme i contenuti delle bozze dell’AMI, di quelle bozze che, fortunatamente, alla fine del 1998 non si sono trasformate in trattato vincolante, di quelle bozze, però, che potrebbero essere rispolverate da qualche personaggio e riproposte all’attenzione di certe assisi internazionali, sempre, comunque, lontano dai clamori della cronaca, e possibilmente a huits clos, a porte chiuse (come di solito lavorano i rappresentanti dei Stati durante le sessioni di lavoro dell’OCSE).
Con l’AMI i Paesi più industrializzati del mondo intendevano, e forse intendono tuttora, creare un quadro normativo di riferimento che sia unico a livello globale per le proprie società multinazionali, al fine di permettere loro un più agevole e sicuro spostamento di capitali attraverso investimenti su piazze estere; l’obiettivo è quello di sostituire i circa 1.800 accordi bilaterali esistenti oggi con un unico strumento chiaro e definitivo.
La prima caratteristica che si può rilevare nel progetto bloccato nel 1998 è che, pur nascendo da un’organizzazione internazionale regionale (l’OCSE), l’AMI ha una vocazione universale derivante dalla globalizzazione dei mercati finanziari che lo ha ispirato: infatti, è intendimento dei 29 promotori incoraggiare tutti i membri della comunità internazionale a vincolarsi a questo sistema di norme con l’alternativa data dall’accettazione della sua ratifica o dall’esclusione da ogni negoziazione finanziaria che, in particolare per i Paesi in via di sviluppo, significherebbe la morte certa dopo un’atroce agonia.
Cerchiamo di esaminare le disposizioni dell’AMI prendendo in considerazione un documento confidenziale dell’OCSE7 che è stato reso pubblico in seguito al fallimento delle trattative di Parigi.
Le nazioni che ratificano l’accordo devono aprire tutti i settori economici (compresi il mercato immobiliare, delle telecomunicazioni e delle risorse naturali) alle multinazionali. Le aziende estere sono equiparate, dal punto di vista legale, agli stati membri dell’OCSE: esse hanno gli stessi diritti di una nazione. Inoltre, gli articoli che trattano dell’"entrata temporanea e della residenza di investitori e personale chiave" che "investono un certo ammontare di capitale8" hanno come fine il riconoscimento di diritti superiori di cittadinanza per le multinazionali.
Gli investitori stranieri devono ricevere lo stesso trattamento (la formula esatta è "trattate non meno favorevolmente") delle aziende domestiche. Dietro una richiesta apparentemente neutra come questa si nasconde la volontà di ottenere diritti e privilegi speciali, dato che i governi dovrebbero garantire alle multinazionali "uguaglianza nelle opportunità competitive9". Poiché è applicata la regola del "non meno favorevolmente", i governi possono accordare alle aziende straniere più vantaggi di quanto facciano con le imprese nazionali. Inoltre, sarebbe vietato alle autorità locali l’imposizione di norme ambientali e di salvaguardia della salute alle aziende estere (ad esempio sul tipo di lavoro svolto, le quote di esportazione ed importazione, i trasferimenti di tecnologia, gli acquisti sul mercato locale ecc.). Secondo l’impostazione dell’AMI, il governo può applicare standard di rendimento alle imprese locali ma non a quelle straniere.
Si prevede, inoltre, l’impossibilità da parte dei governi nazionali di imporre requisiti di rendimento, vale a dire una serie di regole che regolano il comportamento delle aziende ed il loro ingresso sul mercato.
Secondo la "clausola di riduzione", ogni misura non conforme ai principi e alle condizioni presenti nel trattato dovrebbe essere mitigata o addirittura eliminata. L’AMI prevede che i governi, al momento della ratifica, stabiliscano dei termini stringenti entro i quali le leggi "incriminate" devono essere cancellate.
La "clausola di immobilità" costringe inoltre gli organi legislativi nazionali a non introdurre leggi, politiche o programmi che siano in conflitto con le regole imposte dall’accordo.
La rimozione di ogni restrizione sul movimento di capitale, diritto che viene considerato "un elemento critico nella protezione degli investitori10". Nessuna autorità potrebbe imporre restrizioni sul ritorno dei profitti verso la nazione ove l’azienda ha sede legale. Inoltre, si prevede "l’assoluta garanzia che un investitore sarà risarcito per l’espropriazione di un investimento11", compresi brevetti, diritti di copyright e proprietà intellettuale, design industriale, informazioni riservate.
Persino misure fiscali non conformi all’accordo potrebbero essere considerate "espropriazione indebita": le multinazionali potrebbero chiedere ed ottenere un completo risarcimento per le tasse che devono pagare.
Le multinazionali sarebbero legittimate a condurre in giudizio, avanti un’istanza giurisdizionale internazionale ad hoc12, le nazioni che le ospitano, se queste ultime varano leggi che violano i dettati dell’AMI. Non vengono specificati i rapporti con le autorità locali, ma il testo è chiaro quando dice che i punti focali delle regole sugli investimenti devono essere rispettati da qualsiasi livello di governo (provinciale, municipale, federale). E’ previsto un meccanismo13 per la risoluzione dei contenziosi che impegna i governi ad attenersi alle regole stabilite. Secondo queste norme, lo stato è obbligato a comparire dinanzi all’istanza adita che giudicherà i fatti applicando le regole del trattato, e non le leggi vigenti nel Paese ospitante. Chiaramente non vale il contrario: i governi non godono degli stessi diritti nel caso dovessero portare in giudizio le aziende straniere.
Nella nuova economia globale l’AMI punta ad un massiccio trasferimento di "diritti" dai cittadini agli investitori. E’ ironico che in un’epoca in cui i popoli lottano per i propri diritti fondamentali come cittadini (la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo) e per un mondo pulito (il summit di Rio sull’ecologia), le multinazionali, appoggiate dai governi degli Stati forti, calpestino queste conquiste tentando di arrogarsi un potere che trascende quello dei governi che le ospitano sul proprio territorio.
4.
L’AMI, qualora venisse approvato e ratificato ed entrasse in vigore negli ordinamenti degli Stati parte, avrebbe delle pesanti ripercussioni sulle disposizioni al momento vigenti nei sistemi nazionali e sovranazionali.
Quelli che seguono sono esempi di leggi (sia di paesi appartenenti all’OCSE che di altre nazioni) che si troverebbero in contrasto con l’AMI e che, quindi, dovrebbero essere abolite.
Trattamento degli investitori stranieri: l’accordo impone alle autorità di trattare le multinazionali in modo "non meno favorevole" delle aziende nazionali. Questo limita la possibilità dei governi di promuovere le imprese locali o di impedire investimenti esteri che danneggiano l’ambiente.
La Colombia proibisce investimenti stranieri mirati al trattamento e all’eliminazione di rifiuti tossici o radioattivi non prodotti nei confini nazionali.
Taiwan impedisce finanziamenti stranieri alle "industrie che provocano alti livelli di inquinamento".
Nella Repubblica Dominicana le industrie straniere che si occupano di smaltimento di rifiuti tossici, di salute pubblica e di ambiente devono ricevere l’autorizzazione dall’Ufficio del Presidente.
Il Nicaragua richiede alle aziende straniere di sottoporre i loro progetti di investimento a un comitato sugli investimenti esteri e a un’agenzia per la protezione dell’ambiente.
La Nuova Zelanda sottopone gli investimenti stranieri maggiori di 10 milioni di dollari neozelandesi o che occupano più di 0,4 ettari di territorio al giudizio della Commissione Investimenti Esteri.
In Australia, le imprese estere che acquisiscono quote di industrie nazionali per 5 milioni di dollari australiani o che investono 10 milioni di dollari australiani in nuove aziende devono sottostare ad un processo di controllo basato su un test di "interesse nazionale".
L’Honduras limita gli investimenti esteri ad una quota di minoranza nelle industrie di commercio ittico, di sfruttamento delle risorse forestali ed agricole.
Le Filippine limitano le operazioni di pubblico interesse alle aziende che hanno almeno il 60% di azionisti nazionali.
Il Messico vieta ad aziende straniere di possedere banche di investimento e istituzioni creditizie.
Alcuni stati degli USA pongono restrizioni, nei confronti dei non residenti, all’uso del suolo pubblico per attività estrattiva.
Trasferimenti finanziari senza restrizioni: l’AMI ignora la crisi in Messico del 1996 dovuta alle operazioni speculative sul peso messicano e alle eccessive fluttuazioni (in entrata e in uscita) di investimenti stranieri. L’accordo costringerebbe i firmatari a rimuovere qualunque barriera ai trasferimenti valutari.
In Cile i capitali esteri non possono essere rimpatriati fino a un anno dopo l’inizio dell’investimento.
Le Filippine richiedono l’approvazione della Banca Centrale per gli spostamenti verso l’estero di più di diecimila pesos.
Personale chiave: l’accordo cerca di garantire il diritto delle compagnie straniere a insediare proprio personale nelle posizioni chiave. Questo potrebbe contravvenire alla legislazione nazionale su lavoro e immigrazione; inoltre, i lavoratori locali vengono discriminati quando si creano nuovi posti di lavoro.
Il Venezuela limita a 10% il numero di lavoratori stranieri nelle aziende con più di dieci impiegati; la restrizione si allarga al 20% per le imprese straniere.
Il Brasile si riserva il diritto di accettare dirigenti e quadri nel settore dei servizi se questi non sviluppano nuova tecnologia, aumentano la produttività o attraggono nuovi investimenti.
Partecipazione straniera alle privatizzazioni: le nazioni che privatizzano imprese statali spesso si assicurano che le azioni siano distribuite nella maniera più ampia possibile e che le aziende private agiscano comunque nel pubblico interesse. Tali misure potrebbero entrare in conflitto con il MAI, che garantisce alle multinazionali il diritto di partecipare alle privatizzazioni.
In Polonia le autorità conservano il diritto di veto nelle imprese privatizzate.
La Malaysia pone dei limiti all’acquisto di azioni di imprese privatizzate.
Requisiti di rendimento: l’AMI renderà inattivi alcuni requisiti di rendimento, cioè delle condizioni che le autorità impongono alle compagnie straniere per garantire benefici alla popolazione locale.
Il Canada richiede un "prospetto dei vantaggi" per i lavoratori e le imprese locali prima di approvare investimenti esteri nel settore dell’estrazione di petrolio e gas.
La Malaysia fissa dei limiti alle quote azionarie detenute da stranieri che dipendono dalla percentuale di prodotti esportati dall’azienda in questione.
Rispetto dei diritti umani: tutti i trattati, commerciali e di cooperazione e sviluppo, stipulati dall’Unione Europea con i Paesi terzi prevedono la "clausola di rispetto dei diritti umani", o diritti e libertà democratici o diritti civili e politici, comunque rifacentesi un corpus iuris ben rappresentato a livello internazionale dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo del 1948, dal Patto internazionale sui diritti civili e politici e dal Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 e dai loro Protocolli addizionali, nonché, per il livello regionale, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950. Secondo tale condicio, un Paese decadrebbe dalla condizione di partner nei rapporti con l’UE nel caso in cui al suo interno non venissero riconosciute quelle libertà e garanzie proprie dei moderni stati di diritto. Per il dettato dell’accordo, una simile norma dovrebbe essere disattesa perché creerebbe delle disparità di trattamento tra i soggetti interessati dall’investimento transnazionale. L’UE dovrebbe, allora, rivedere tutti i propri accordi bilaterali cominciando dai trattati che regolano i rapporti con i Paesi ACP14 (Africa, Caraibi, Pacifico).
E, per dirla tutta, un protagonista del XX secolo della lotta per il rispetto dei diritti umani come Nelson Mandela, leader dell’African National Congress (ANC) durante gli anni dell’apartheid in Sud Africa e primo Presidente nero del Paese, sarebbe ora ancora in prigione se una tale norma avesse impedito ai grandi della terra (Paesi europei in prima linea) a coalizzarsi in un embargo commerciale e finanziario nei confronti del governo di Pretoria portando al cedimento del sistema stesso.
5.
Se le responsabilità per la spinta all’elaborazione, approvazione e messa in opera di un simile strumento giusinternazionalistico sono ben facilmente rinvenibili negli interessi dei grandi gruppi multinazionali di cui ho detto sopra, non parimenti sono comprensibili i silenzi e le omissioni di soggetti che, particolarmente nel nostro Paese, si fregiano di essere "dalla parte dei più deboli" e che, a diverso titolo hanno preso parte alle trattative sull’AMI o non hanno dato voce alle istanze della società civile.
I grandi della finanza internazionale goderebbero, nel quadro dell’AMI, della più ampia gamma di diritti e libertà per agire incontrastati su uno scenario globale ove gli unici arbitri sarebbero essi stessi e le regole da rispettare quelle a sé più confacenti. È dunque comprensibile perché simili soggetti non avessero alcun interesse a pubblicizzare l’esistenza ed i contenuti di tale accordo draconiano.
Ma i sindacati italiani e, ancor prima, i Partiti politici che hanno appoggiato i governi durante gli anni delle trattative (per la grande maggioranza di ispirazione social-democratica o cattolica popolare), perché hanno taciuto?
Il governo inviava i propri plenipotenziari all’insaputa del Parlamento? Non credo e, se così fosse, sarebbe stato un atto gravissimo.
Il Parlamento, maggioranza ed opposizioni, sapeva e non ha ritenuto opportuno comunicarlo ai cittadini? Non credo ma, allora, avrebbe voluto dire sottovalutare e la pericolosità dell’accordo e l’intelligenza dei cittadini italiani.
Tutti sapevano ma temevano le reazioni della società civile? Penso proprio che questa sia la verità e, per questo motivo, ritengo che sia un dovere di ognuno, in quanto membro della famiglia umana e cittadino di un determinato Paese, in particolare in questo momento in cui, in Italia, sta per insediarsi un nuovo esecutivo sortito da un larghissimo consenso popolare che ha legittimato chi ci governerà a farlo conferendogli però, al contempo, l’obbligo di compiere al meglio questo servizio, mettere a fuoco i temi che i responsabili dei dicasteri dovranno affrontare.
L’eventuale riapertura delle trattative per l’AMI è uno di questi, e il neo-ministro degli Esteri Ruggiero15 dovrà prendere una posizione nei suoi confronti e rispondere di ciò al Paese, a noi tutti; e noi tutti saremo qui, attenti e pronti.
Attenti a ciò che succede e pronti a far sentire la nostra voce in caso di bisogno dando vita, se del caso, a quelle sacche di resistenza che, con tutte le specificità che possono assumere nei diversi contesti sociali, culturali ed economici del nostro tempo, si creano e continueranno a crearsi per opporsi a questo o quello stato di cose, sacche di resistenza intelligenti e pronte, formate ad impiegare gli stessi strumenti del proprio antagonista, ma anche capace di sbalordire con mosse a sorpresa16.
dove esplodono le invenzioni dello Spirito.
Là dove il margine diventa frontiera"
(Carlo Molari)
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Chi trova un AMIco, trova un tesoro?
"La storia nuova non nasce certo dove si scrivono le leggi,
(Davide Caocci)
"…La storia nuova nasce dove si sprigionano le forze sotterranee della vita,
Creata nel 1959, l’Ocse succede all’Organizzazione europea di cooperazione economica (Oece) nata nel 1951 per garantire la convertibilità delle divise dei paesi europei beneficiari del Piano Marshall. Questa convertibilità era garantita da un sistema di compensazione gestito dall’Oece: le esportazioni di ogni paese membro dell’organizzazione destinate a un altro paese membro e le importazioni provenienti da altri paesi membri venivano registrate su un conto; alla fine di ogni mese erano dovuti solo i saldi, ciò permetteva di ridurre sensibilmente i bisogni di valuta di ogni paese. Questo dispositivo è terminato contemporaneamente alla decisione dei paesi membri di impegnarsi a tornare alla libera convertibilità delle loro monete. L’Oece sarebbe quindi dovuta scomparire. Ma la sua esistenza aveva mostrato l’importanza di disporre di una struttura in cui i paesi capitalistici (europei) potessero scambiare informazioni e disporre di analisi approfondite sulla loro situazione economica effettuate da esperti esterni considerati più indipendenti. È per questo motivo che i paesi membri hanno deciso di mantenere in vita la struttura. Gli Stati Uniti, che ne erano i principali finanziatori (in base al Piano Marshall), hanno voluto parteciparvi: da ciò la trasformazione di nome nel 1959 e al tempo stesso di obiettivo. L’Ocse è un organismo di concertazione sulle politiche economiche e sociali dei paesi membri. Il suo orientamento è nettamente liberale. A intervalli regolari (annuali per i paesi più importanti, biennali per gli altri), il segretariato dell’Ocse procede a una valutazione della situazione congiunturale di ogni paese e avanza un certo numero di proposte dirette a migliorare la situazione (da voce "OCSE" in Enciclopedia del Nuovo Ordine Mondiale – Mille parole per il Terzo millennio, in http://www.prosol-bo.org/Testi/Enciclopedia/frame-aper.htm). Cfr. anche http://www.oecd.org, sito ufficiale dell’OCSE.
Sono membri dell’OCSE: Australia Canada, Corea del Sud, Giappone, Islanda, Messico, Norvegia, Nuova Zelanda, Polonia, Repubblica Ceca, Stati Uniti d’America, Svizzera, Turchia, Ungheria, ed i 15 dell’Unione Europea.
Ricorderò sempre con amarezza lo scontro dialettico avuto a Milano, presso l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale), il 7 febbraio 2000, con Patrizia Toja, allora Ministro per le Politiche comunitarie, nel quale, alla mia richiesta di chiarimenti sulla partecipazione dell’Italia ad una simile trattativa segreta che rischiava di nullificare una nutrita serie di accordi commerciali e di cooperazione e sviluppo bi- e multilaterali, l’esponente del Governo si vantò di aver preso parte alle riunioni di Parigi in qualità di sottosegretario al Ministero degli Affari Esteri e di aver trovato l’esperienza veramente "interessante" senza comunque entrare nel merito delle puntuali contestazioni che le si muovevano e che affronterò qui di seguito.
Le società multinazionali, o transnazionali, sono imprese che hanno il loro ciclo produttivo in settori molto diversificati (ricerca, costruzione dei componenti del prodotto, assemblaggio, commercializzazione…) e dislocato in più paesi per ragioni di convenienza economica. Le transnazionali sono in genere imprese di grosse dimensioni (la loro potenza economica supera spesso quella degli Stati in cui operano) e non di rado operano sul mercato in posizione monopolistica, che viene ottenuta attraverso l’assorbimento di imprese più piccole ed alla diffusione in più paesi che permette di controllare fette sempre maggiori di mercato (crescita orizzontale). Contemporaneamente a questo tipo di espansione, le transnazionali si ingrandiscono attraverso il controllo di tutte le fasi, dalla fabbricazione alla distribuzione del prodotto finito (crescita verticale). Generalmente una transnazionale è una impresa (meglio, una società) che possiede altre imprese che sono dislocate in varie parti del mondo. L’insieme di tutte le imprese che appartengono ad una stessa transnazionale formano un gruppo transnazionale che, in caso sia di dimensioni molto grandi, diventa una conglomerata. All’interno del gruppo si distinguono la società proprietaria di tutto, che si chiama holding (o capo gruppo) e quelle che sono possedute, che si chiamano controllate od affiliate (da voce "Transnazionale" in Enciclopedia del Nuovo Ordine Mondiale – Mille parole per il Terzo millennio, in http://www.prosol-bo.org/Testi/Enciclopedia/frame-aper.htm).
Il termine società (o impresa) transnazionale è impiegato quale sinonimo di società (o impresa) multinazionale.
Cfr. D. Caocci, Come indebitarsi fino alla settima generazione e morire di fame, KU n.66, Estate 2000.
Cfr. OCSE, Multilateral Agreement on Investment: Consolidated Texts and Commentary, Paris, january 13, 1997.
Cfr. OCSE, Multilateral…, prec. cit., pag.7.
Cfr. OCSE, Multilateral…, prec. cit., pag.139.
Cfr. OCSE, Multilateral…, prec. cit., pag.117.
Cfr. OCSE, Multilateral…, prec. cit., pag.122.
Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia, Camere arbitrali internazionali, arbitri ad hoc.
Cfr. OCSE, Multilateral…, prec. cit., pagg.53-64.
Prima, Convenzioni di Lomé, ora, Convenzione di Cotonu del giugno 2000.
Renato Ruggiero, ex-segretario generale dell’OMC (Organizzazione Mondiale del Commercio).
Cfr. D. Caocci, Tra mondialità e globalizzazione: la IV Guerra Mondiale è scoppiata!, KU n.72, Febbraio 2001.